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venerdì 30 novembre 2012

World Energy Outlook 2012: fare di necessità virtù

Da “The Oil Crash”. Traduzione di Massimiliano Rupalti




Cari lettori,

lo scorso lunedì 13 novembre l'Agenzia Internazionale per l'Energia (da qui in poi IEA), ha pubblicato l'edizione del rapporto annuale sullo stato dell'energia mondiale, il World Energy Outlook (WEO). Questo rapporto (690 pagine, 70 euro se per fini di ricerca) era molto atteso, visto che i migliori economisti delle IEA ci mostrano in esso i loro modelli di previsione della domanda futura ed è la base delle raccomandazioni che fa la IEA in quanto alla politica energetica per i governi ed è lo strumento col quale si prendono molte decisioni per il futuro. 

Il rapporto è stato ricevuto con la consueta fanfara mediatica, da questa spicca un'affermazione fatta dallo stesso capo economista Fatih Birol, durante la sua presentazione alla stampa: gli Stati Uniti diventeranno il primo paese produttore di petrolio del mondo verso il 2020, superando l'Arabia Saudita verso la metà degli anni 20 e verso il 2030 il paese sarà autosufficiente energeticamente e potrà cominciare ad esportare. Diversi lettori mi hanno contattato via email ed hanno lasciato commenti nel blog, chiedendomi se il miracolo che stavamo aspettando non fosse arrivato alla fine e che il mondo non si dirige verso il caos economico ed energetico. E sia, che alla fine si siano compiuti i desideri di Jaume Barberà (ed anche i miei) espressi alla fine dell'intervista della scorsa settimana?

Dopo aver seguito i rapporti della IEA per alcuni anni ci si abitua alla sensazione agrodolce che lasciano, a grattare oltre le affermazioni di taglio trionfalistico e a guardare ciò che i dati dicono realmente, si vede che sì ci sono notizie positive, ma i dati mostrano anche delle tendenze abbastanza negative e che non ci consentono di guardare al futuro con fiducioso ottimismo. Quest'anno, tuttavia, la sensazione è più amara degli anni scorsi. Perché le notizie reali, quelle che ci mostrano i dati della IEA, non possono essere davvero peggiori. L'unica notizia di taglio nettamente positivo viene dalle aspettative di crescita della produzione in Iraq, le quali potrebbero essere ampiamente sfumate come abbiamo detto in un post recente.

Come è prassi, il rapporto è strutturato in diversi scenari futuri. La stessa IEA si premura come sempre di chiarire che sono scenari, non previsioni ma più propriamente tendenze in funzione di decisioni politiche ed altri sviluppi. Lo scenario centrale o più probabile è quello dell'implementazione di Nuove Politiche (implementazione di politiche proattive da parte dei governi per migliorare l'efficienza e diminuire i costi energetici) e sarà quello che prenderemo a riferimento in questa discussione. Gli altri due scenari che erano già presenti nel WEO 2011 sono quello di Politiche Attuali (fondamentalmente, un Business as Usual, continuazione delle tendenze pre-2010, anche se il reale corso degli eventi rende questo scenario sempre più sfasato) e quello dell'obbiettivo 450 ppm, così denominato perché ciò che si perseguirebbe in esso è la stabilizzazione del contenuto di gas serra nell'atmosfera alla soglia simbolica di 450 parti per milione di CO2 equivalente. A questi tre scenari, gli stessi del WEO del 2011, la IEA aggiunge un quarto scenario stavolta, Mondo Efficiente, nel quale le misure di efficienza vengono adottate in modo radicale. Questo quarto scenario pretende di valutare gli effetti economici del puntare a un mondo molto più efficiente nell'uso di energia di quello attuale, con una dose di ottimismo piuttosto importante, soprattutto per ciò che riguarda le sue implicazioni economiche (sappiamo già che lo spreco è la base del nostro sistema economico). Come d'abitudine, gli scenari si costruiscono in base a delle ipotesi di crescita economica per tutto il globo di un sorprendente 3,5% all'anno in termini reali, anche se “solo” di un 2,1% all'anno per l'insieme dei paesi OCSE e del 1,7% all'anno per l'Unione Europea (pagina 37). Significativamente, la IEA prevede che il prezzo medio del barile di petrolio (in dollari costanti, cioè a parte l'inflazione) si mantenga relativamente alto, a valori che, come sappiamo, sono incompatibili con la ripresa economica secondo i suoi stessi parametri (abbiamo già detto diverse volte che la IEA prende per buono il limite di James Hamilton, che in dollari di oggi rappresenta circa 90 dollari al barile). Notate il contrasto fra l'evoluzione prevista dalla IEA per i prezzi di quest'anno e quella che prevedeva lo scorso anno.

Previsioni dell'evoluzione del prezzo medio del barile di petrolio secondo il  WEO del 2012





Previsioni dell'evoluzione del prezzo medio del barile di petrolio secondo il  WEO del 2011

C'è da rilevare che in solo un anno siamo riusciti a superare il prezzo medio record del barile del 2008 (la serie rappresenta le medie annuali con finestra mobile). Se vi concentrate (attenzione: la scala verticale dell'una e dell'altra figura non coincidono), vedrete che lo scorso anno, miracolosamente, lo scenario 450 rendeva possibile mantenere i prezzi entro il limite della sostenibilità economica. Quest'anno, nessuno scenario riesce a mantenersi a tale livello, a causa della forte ascesa dei prezzi del petrolio (ad essere giusti, la curva dello scorso anno dovrebbe essere corretta dall'inflazione di quest'anno per poterle paragonare, poiché i prezzi dello scorso anno erano in dollari del 2010 e quelli di quest'anno in dollari del 2011; in ogni caso, la differenza osservata è molto maggiore del differenziale dell'inflazione). Pertanto c'è una contrazione implicita nei dati della IEA, visto che i prezzi di tutti gli scenari implicano recessione economica secondo i criteri stessi della IEA. 

Analizziamo quindi in dettaglio i quattro capitoli che sono, ritengo, cruciali nel WEO 2012: la rinascita energetica degli Stati Uniti che ha generato i titoli della stampa generalista, le buone prospettive per la produzione di petrolio in Iraq, la crociata per l'efficienza energetica e il problema dell'uso dell'acqua nella generazione di energia. 

Cominciamo con l'affermazione che gli Stati uniti saranno la nuova Arabia Saudita del petrolio. E' realmente una affermazione scioccante, sapendo, come sappiamo, come si è evoluto il panorama energetico nel mondo e in questo paese durante gli ultimi anni. E' certo che da circa tre anni si sta pubblicizzando molto che negli Stati Uniti sia avvenuta una rivoluzione energetica grazie all'introduzione di nuove tecniche di sfruttamento di formazioni di rocce compatte e di scisti bituminosi (argille). E' il caso di dire che né le tecniche di sfruttamento né le risorse che ora si sfruttano sono veramente nuove; ciò che è nuovo è che risulti vantaggioso sfruttarle economicamente in questo modo, a causa degli alti prezzi del petrolio. Tre anni fa, un tale dispiegamento estrattivo era stato denominato “la febbre del gas”, visto che in quel momento le prospettive meravigliose erano per il gas naturale. La realtà ha mostrato che tali prospettive per il gas naturale erano sovradimensionate (come abbiamo già detto qui due anni fa) e come conseguenza il rendimento degli impianti di gas non convenzionale sono caduti a picco (e questo senza parlare dei problemi ambientali generati dalla tecnica di estrazione usata, conosciuta come fratturazione idraulica o fracking, per abbreviare). Tuttavia, le quantità residue di petrolio e sostanze similari che escono col gas hanno consentito che alcuni impianti abbiano un certo rendimento, propriamente perché il prezzo dell'oro nero è alle stelle; mutatis mutandi, il focus di questi impianti ora si è concentrato sull'estrazione di petrolio e si parla delle meravigliose prospettive di sfruttamento dei giacimenti di petrolio non convenzionale negli Stati Uniti, grazie alle sue formazioni di ardesie bituminose e di roccia compatta. Ma, è questa tanto decantata rivoluzione del gas e del petrolio non convenzionale che sta portando gli Stati uniti ad essere la nuova Arabia Saudita? La questione è già stata analizzata in profondità in altri forum precedentemente, ma vale la pena soffermarsi ora su cosa dice realmente il WEO 2012. 

L'espressione letterale del WEO 2012 rispetto agli Stati Uniti è che gli stessi supereranno l'Arabia Saudita e diventeranno il primo produttore di petrolio del mondo intorno al 2020 e che verso il 2035 saranno, in modo netto, energeticamente autosufficienti. Tutto questo, vedendo i dati del rapporto, è certo, ma non rappresenta affatto una buona notizia. Osservate la figura seguente estratta dalla presentazione alla stampa (documento pubblico).


Osservate che il rapporto accumula produzione di petrolio e di gas (espresse in termini di energia equivalente a quella di eguale quantità di petrolio) con l'intento di mostrare che in realtà gli Stati Uniti sono, in modo netto, autosufficienti energeticamente. Il problema è che gas e petrolio non sono perfettamente fungibili (intercambiabili) ed è dubitabile che in un arco di tempo relativamente breve come è questo si produca una sostituzione rapida dei macchinari che lavorano coi derivati del petrolio perché lo facciano coi derivati del gas naturale. Nemmeno lo si vuol dimostrare, ciò che si vuol dimostrare è che, in modo netto, gli Stati Uniti sarebbero energeticamente autosufficienti. Cioè, l'energia di un tipo sarà in surplus nel 2035 e che pertanto esporteranno (gas) in quantità equivalente all'energia che allora dovranno importare (petrolio). Tale affermazione è già di per sé elusiva, perché nasconde il fatto che il prezzo per unità di energia di petrolio e di gas è molto diverso, frutto della maggior versatilità (e pertanto di maggior valore aggiunto) del primo rispetto al secondo. Pensate che un barile di petrolio, oggigiorno, non va sotto i 100 dollari ed equivale ad un'energia di 5,8 MBTU (millions of British thermal units, milioni di unità termiche britanniche), cioè, ogni MBTU di petrolio vale 17,25 dollari come minimo. Per contro, i prezzi del gas naturale in Europa vanno intorno ai 7 dollari per MBTU (negli Stati Uniti non arrivano ai 4 dollari per MBTU). Pertanto, per una quantità relativa di energia gli Stati Uniti dovrebbero pagare, ai prezzi odierni, più del doppio per il petrolio che importerebbero in relazione al gas che esporterebbero (e questo senza contare i costi aggiunti di impianti sufficientemente capaci di liquefare e ri-gassificare e per il trasporto del gas in navi metaniere). Nel WEO possiamo trovare un grafico più dettagliato della produzione specifica del petrolio: 


Se ci concentriamo sull'evoluzione della produzione di petrolio mostrato dal grafico qui sopra si vede che attorno al 2020 questa tocca il suo massimo con circa 11 milioni di barili al giorno (Mb/g). Secondo la IEA, in quella data gli Stati Uniti saranno i primi produttori di petrolio al mondo. Ma tanto l'Arabia Saudita (primo produttore oggigiorno) quanto la Russia (secondo produttore) in passato hanno superato i 10,4 Mb/g ed attualmente si aggirano su queste cifre. Pertanto, il fatto che gli Stati Uniti arrivino ad essere il primo produttore con 11 Mb/g implica che sia la Russia sia l'Arabia Saudita produrranno al massimo quanto producono ora. Cioè, questi due paesi, i principali produttori di petrolio oggigiorno, avranno probabilmente superato il proprio picco del petrolio nel 2020 e la loro produzione sarà in declino (col grave impatto che ciò avrà sulle esportazioni). Insomma, ciò che si vorrebbe presentare come una buona notizia in realtà è una notizia pessima. Alcuni lettori mi contesteranno forse che in realtà l'Arabia Saudita starà, come sempre, mettendo via parte della sua produzione e che in realtà si può mantenere su questo plateau produttivo per un tempo ancora indefinitamente lungo. 

La questione dell'Arabia Saudita l'abbiamo già discussa in modo esteso e, rispetto alla politica delle quote dell'OPEC farò un post prossimamente, nel quale mostrerò che in realtà l'OPEC già non è in grado di regolare a proprio piacimento la produzione di petrolio. Per i più, è il caso di rilevare che l'innegabile declino produttivo del petrolio convenzionale (striscia azzurra più in basso e i due cunei verso la fine del periodo) viene compensato grazie ai liquidi del gas naturale (striscia violacea che raggiunge il picco a sua volta nel 2020 e che, come sappiamo, non servono per la raffinazione del diesel) e all'aumento spettacolare della produzione di petrolio leggero da formazioni di roccia compatta (striscia rossa). Quest'ultimo aumento è molto impressionante perché la produzione di questo tipo di petrolio aumenterebbe brutalmente dopo una storia produttiva piuttosto ridicola, con un certo incremento negli ultimi due anni. La grande speranza degli Stati Uniti è riposta nella formazione di Bakken, fra gli stati del Nord Dakota e del Montana. Tuttavia, la capacità produttiva di questa formazione è enormemente esagerata, come mostra Matthieu Auzanneau nel suo ultimo post (dato l'interesse di questo post in particolare, sarà ripubblicato tra breve tradotto in italiano). Pensate che il miracolo americano si appoggia principalmente in ciò che accade nella formazione di Bakken e come vedete la storia passata non avvalla l'ottimismo della IEA. Cosicché la storia principale di questo WEO deve essere presa con le pinze. In un paio d'anni dovrebbe divenire chiaro se gli Stati Uniti stia riuscendo ad aumentare la loro produzione a Bakken ai livelli sognati oppure no. 

Ma c'è dell'altro. Secondo l'ultimo Oil Market Report, gli Stati Uniti hanno avuto un consumo medio di petrolio di 19,01 milioni di barili al giorno nel 2011, molto al di sotto dei 21 Mb/g che sono arrivati a consumare nel 2007. Tuttavia, la seconda parte del miracolo statunitense (essere esportatori di energia dal 2035) si basa su una inquietante supposizione: una diminuzione sostenuta del consumo di petrolio internamente al paese. Questo è rilevabile nel grafico che mostra come le importazioni di petrolio degli Stati Uniti andranno riducendosi nei prossimi 25 anni, da 9,5 Mb/g di adesso ai poco meno di 3 Mb/g. Vale a dire, gli Stati Uniti importeranno 6,5 Mb/g in meno di adesso. 


La parte del leone di questa riduzione la fa non l'aumento (un po' favolesco) della produzione interna di petrolio, ma il miglioramento di efficienza nella domanda, la quale giungerà a rappresentare quasi 4 Mb/g dei 6,5 di riduzione dell'importazione. E' un miglioramento nell'efficienza del consumo di petrolio straordinaria. Di fatto, è talmente straordinaria che non si è mai visto nulla di simile sul pianeta Terra. Dopo gli shock petroliferi degli anni 70 i paesi dell'OCSE, specialmente quelli europei e il Giappone, hanno migliorato molto la propria efficienza energetica, il che ha comportato una crescita di domanda petrolifera più lenta in quei paesi, ma non che la domanda fosse diminuita. Di fatto, la domanda è diminuita solo in occasione di crisi economiche intense (cosa che in realtà già sappiamo, data la retroazione fra crisi energetica e crisi economica). In questo modo la IEA fa le sue previsioni a partire da un fenomeno mai osservato, non nei termini in cui lo descrivono. Secondo me, l'unico modo di conciliare le previsioni della IEA con la realtà è dicendo che gli Stati Uniti sono condannati ad una intensa discesa energetica, con conseguente crisi economica tipo depressione o peggiore. 

Le cose, quindi, sono abbastanza chiare: si sta parlando di una decrescita energetica rapida e profonda e non solo per gli Stati Uniti, ma anche per l'insieme dell'OCSE. In questo senso le prospettive per l'Unione Europea sono piuttosto cattive. Secondo i dati della tavola allegata al rapporto, la UE passerebbe da una domanda (di nuovo si gioca con le parole, come se la domanda non si fosse adeguata all'offerta, come se la domanda rispondesse realmente ai desideri dei consumatori) totale di energia primaria di 1.713 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtoe, acronimo inglese) a soli 1670 nel 2035, secondo lo scenario centrale con una decrescita media dello 0,1% annua. Ripartito per categorie, il consumo di petrolio scenderebbe da 596 Mtoe a 417 Mtoe (una caduta del 27% in 25 anni, un 1,2% annuo) e ciò che sale di più è la bioenergia (da 130 Mtoe a 231 Mtoe) e le altre rinnovabili (da 22 Mtoe a 119 Mtoe); da rilevare che l'energia nucleare permarrebbe praticamente costante. Nel caso degli Stati Uniti e nonostante la sua presunta resurrezione energetica, anche la sua domanda si vedrebbe ridotta al passaggio dai 2.214 Mtoe nel 2010 ai 2.187 nel 2035. Come abbiamo già detto, il consumo di petrolio passerebbe, nel caso degli Stati Uniti, da 805 Mtoe nel 2010 a 558 Mtoe nel 2035, una diminuzione del 31% che si traduce in una caduta del 1,5% all'anno. E di nuovo sono la bioenergia (che passa da 90 Mtoe a 209 Mtoe) e le altre rinnovabili (da 18 Mtoe a 101 Mtoe) quelle che hanno più rilievo. Tuttavia, nell'insieme del mondo, la domanda di energia crescerebbe di uno spettacolare 35% dal 2010 al 2035 (da 12.730 Mtoe a 17.197 Mtoe), principalmente a causa dell'enorme crescita della Cina (il cui consumo aumenta del 60% passando da 2.416 Mtoe a 3.872 Mtoe), l'India (del 145% passando da 619 Mtoe a 1.516 Mtoe) e medio oriente (dal 62% da 624 Mtoe a 1.012 Mtoe). America Latina, Africa e il resto dell'Asia vedono anch'essi incrementi spettacolari in termini percentuali, anche se più modesti in termini assoluti. La Russia cresce in modo apprezzabile (23%) e il Giappone perde abbastanza (10%). Insomma, lo scenario che ipotizza la IEA è di decolonizzazione energetica, nel quale l'energia sarebbe distribuita in modo più egualitario di adesso fra le nazioni del mondo e nel quale i paesi occidentali si adeguerebbero ad adottare misure di austerità e razionamento, mentre le loro economie ristagnerebbero e languirebbero e allo stesso tempo farebbero un investimento senza precedenti, contraddetta dagli eventi attuali, in energia rinnovabile. Credo che a tutti i lettori risulterà evidente che tale scenario è una chimera, a giudicare dalla politica estera conosciuta dei paesi che dovrebbero cedere la propria parte di torta.

Riguardo al secondo capitolo del WEO, le meravigliose prospettive della produzione petrolifera in Iraq, abbiamo già fatto un post spiegando i limiti della sua proposta e mi rimetto a quello.

Per capire il contesto del terzo capitolo che vorrei evidenziare, quello dell'efficienza energetica, il pezzo chiave del puzzle che costruisce la IEA è l'aumento spettacolare di produzione di energia di origine rinnovabile atteso dall'Agenzia. La IEA rivendica, come ha già fatto l'anno scorso, un forte incremento delle sovvenzioni a questo settore strategico per favorirne l'implementazione. Tuttavia, l'attuale tendenza è di una diminuzione dei contributi tanto pubblici quanto privati, probabilmente per il fatto non preso in considerazione dalla IEA che i sistemi di captazione di energia rinnovabile che si sta tentanto di implementare sono, molto probabilmente, mere estensioni dei combustibili fossili. Il WEO da molta importanza alla cosiddetta bioenergia (biomassa e biocombustibili). Abbiamo già detto altre volte che la biomassa ha dei limiti. Così, non si può prendere legna da un bosco a un ritmo che comprometta la sua fattibilità, inoltre c'è il problema a lungo termine della perdita di fosforo se i residui dalla combustione non tornano alla Terra (alcuni storici credono che se l'antica e fertile Mesopotamia oggi è il desertico Iraq è stato a causa, in parte, della progressiva perdita di fosforo per le colture durante migliaia di anni). E in relazione ai biocombustibili, i loro EROEI sono molto bassi e ci sono poche possibilità che migliorino a breve termine: uno studio del 2010 (parte 1 e parte 2) mostrava che ad esempio l'etanolo di mais negli Stati Uniti ha un EROEI di 1,06 ± 0,2; un altro studio sulla soia argentina indica un EROEI inferiore a 2 per tutti i tipi di coltura considerati, migliorabili solo includendo il rendimento dei sottoprodotti (usati, fondamentalmente, per l'alimentazione animale) ma senza giungere in nessun caso al  valore limite di 10. Il fattore EROEI è perfettamente sconosciuto per gli economisti della IEA (e sappiamo già il perché), che pensano solo in termini monetari e non si rendono conto che in realtà l'aumento di produzione dei biocombustibili non presuppone un amento dell'energia che arriva alla società. Pertanto, appoggiare la diffusione della bioenergia è un errore suicida. 

Il WEO di quest'anno è fortemente centrato, quasi un grido disperato, sull'efficienza energetica. L'affermazione che si devono fare le cose in modo più efficiente, che è una cosa di buonsenso, sbatte contro la realtà del nostro sistema economico e produttivo. In una economia di libero mercato lo spreco è una necessità economica, come abbiamo spiegato a suo tempo. Le misure di risparmio energetico non hanno mai successo se l'economia è in espansione (ed abbiamo già decenni di esperienza in questo senso), perché c'è sempre un incentivo economico a consumare più energia e se tu decidi volontariamente di rinunciare a consumare tanta energia, altri ne avranno di più per aumentare la propria produzione ed il proprio tornaconto economico. E al contrario, misure di risparmio imposte in modo ferreo attraverso leggi assicurano il regresso economico di una nazione. Da intendersi sempre all'interno del nostro paradigma economico, nessuno dice che con un altro sistema economico e produttivo non si potrebbe implementare effettivamente un risparmio energetico. La stessa cosa accade per l'efficienza, in accordo col famoso Paradosso di Jevons del quale abbiamo parlato tanto su questo blog. Pertanto, se gli economisti della IEA stanno scommettendo sull'efficienza e sul risparmio per poter far fronte al consumo energetico mondiale, stanno dicendo che o una parte del mondo cambierà sistema economico o si tufferà in una crisi economica senza fine. Richiama l'attenzione l'enfasi che la IEA mette sulle cinque misure di carattere politico che si devono prendere per ottenere questa Itaca dell'efficienza energetica:
  • Incrementare la visibilità dell'efficienza energetica, sulla base di una sua migliore misurazione e rivelando i suoi benefici economici
  • Renderla più abbordabile con nuovi modelli di gestione e con finanziamento adeguato
  • Rendere l'efficienza energetica un tema comune (mainstream), incentivando le tecnologie più efficienti e penalizzando quelle meno efficienti. 
  • Rendendola base reale del monitoraggio, della verifica e delle attività di sostegno
  • Rendendola effettiva mediante misure di governance e di capacità amministrativa a tutti i livelli
Riassumendo: facendole una grande propaganda per poi obbligarla attraverso misure legislative e perseguendo le infrazioni. In definitiva, queste misure sono un'imposizione blanda delle misure di razionamento, poco compatibili col sistema del libero mercato. Se queste misure vengono adottate (come probabilmente sarà), il nostro sistema si evolverà dall'attuale economia di (quasi) libero mercato (in realtà gli oligopoli la falsano parecchio) ad un'economia gestita e praticamente pianificata. Da lì ad una dittatura manca solo un passo (che magari si intraprenderà lungo il cammino).

Per ultimo, vorrei evidenziare che il WEO di quest'anno dedica un capitolo speciale alla connessione fra consumo di acqua e di energia. Il capitolo discute in modo esteso la necessità di usare acqua nella produzione di energia, soprattutto negli impianti di produzione di elettricità, e di come il cerchio si chiuda, in molti paesi, in una situazione di stress idrico e portando all'uso di energia per ottenere acqua dolce. C'è una mappa che risulta essere abbastanza rivelatrice di quali paesi avranno i problemi più gravi (e, purtroppo, la Spagna ne fa parte, ma anche il Regno Unito e la Germania):


La IEA stima che il 15% di tutta l'acqua dolce consumata nel mondo nel 2010 si stata usata nella produzione di energia di tutti i tipi e, nello scenario centrale si attendono che salga al 18% del totale (o una percentuale maggiore, se la disponibilità globale di acqua diminuisce come conseguenza dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale in generale). Il WEO fa un'analisi dettagliata di quattro paesi che possono avere problemi importanti con la disponibilità d'acqua. Cina, India, Stati Uniti (su scala locale, soprattutto in associazione alla produzione, nello specifico, di petrolio da scisti e scisti petroliferi) e Canada (per effetto dell'inquinamento).

Lascio molti temi nel calamaio, ma questa prima analisi affronta la gran parte degli aspetti fondamentali. Dopo tutta questa spiegazione, lascio che il lettore valuti quali delle notizie positive del WEO di quest'anno si possano considerare realmente positive, semplicemente leggendo i dati. Sono quattro anni che osservo in dettaglio questi rapporti annuali e certamente questa è quella che mi trasmette le impressioni più nere. 

Saluti.
AMT




























sabato 28 luglio 2012

Suicidio

Da The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Immagine da http://imageshack.us

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Non avrei mai pensato di scrivere su questo argomento, ma una recente notizia di El pais mi a spinto a farlo. La notizia è questa:"La crisi miete vittime in Italia". Si dice che ogni giorno in Italia si suicidano due persone per cause imputabili alla crisi (difficoltà economiche, principalmente), tipicamente un imprenditore ed un lavoratore. Ogni giorno. E leggendo il testo si legge che possono anche esserne contenti, perché in Grecia hanno già 1.725 suicidi di questo tipo in due anni (quasi cinque al giorno) e che la Grecia ha una popolazione di quasi cinque volte inferiore rispetto all'Italia. Che accade in Spagna, il paese dove risiedo? E' difficile saperlo, visto che c'è un certo consenso nel non divulgare questo tipo di notizia per non incoraggiare questo tipo di comportamento così autodistruttivo in gente suscettibile. E, tuttavia, alcune notizie cominciano a filtrare, come ad esempio questa de El confidencial che suggerisce che molti incidenti stradali in realtà non siano tali (a parte commenta altri problemi e da un momento rivelatore: in Spagna si suicidano 9 persone al giorno, anche se non sappiamo quante di queste lo facciano per ragioni imputabili a questa crisi che non finirà mai).

In realtà, questo triste fenomeno, quello cioè del suicidio a causa della disperazione per lo svanire delle aspettative, è un'altra manifestazione della Grande Esclusione. La gente comincia ad accettare che i problemi che ha, di lavoro, personali, di integrazione sociale, ecc. sono in buona misura dovuti a sé stessi e per questo, incapaci di superare il proprio fallimento di vita, alcuni si suicidano. Specialmente vulnerabili sono quelle persone molto intransigenti con sé stesse e quelle che devono mandare avanti i famigliari e si vedono impotenti, superati dagli eventi. Ad aggravare questo problema contribuiscono i mezzi di comunicazione e l'atteggiamento politico standard, che vede la situazione attuale come qualcosa di congiunturale e che può essere risolto al posto di vederla come una transizione storica che inevitabilmente e per pura statistica, porta alla disoccupazione e alla esclusione di una certa percentuale di persone ogni anno. (La Spagna ha appena raggiunto il 24,44% di popolazione attiva disoccupata, sfortunatamente in linea con le previsioni che facevamo nel dicembre scorso).

Tutto il processo può essere anche inteso come un processo di crescita dell'entropia sociale a causa della scarsità di fonti energetiche con entropia sufficientemente bassa. La Grande Esclusione può anche essere intesa come un processo nel quale certi predatori che occupano gli strati sociali più alti fagocitino le risorse disponibili, gettando entropia intorno a sé e degradando quindi le condizioni di vita della maggioranza. Ma ci stiamo allontanando dal focus di questo post.

La chiave è che la maggioranza di queste persone che si suicidano hanno un pensiero di tipo BAU (Business As Usual) e non concepiscono che possa esistere un modello di vita diverso da quello che hanno conosciuto e col quale modellato le proprie aspettative. Di fatto, si suicidano perché considerano che le loro vite siano giunte alla fine, una volta che, in modo corretto, capiscono che non potranno mai tornare alle proprie vite di prima. 

La fine della nostra vita nel modo A non significa che non possa esserci una vita nel modo B. Ma è proprio lì che è radicata la maggiore difficoltà. Quella di vedere che può esistere un'altra vita e che questa vita possa valere la pena. O che, in realtà, questa vita B possa essere più soddisfacente e piena della vita A, senza tante complicazioni e più concentrata sulla famiglia, gli amici, la comunità... Parlare in questo modo (vita semplice, ritorno a valori tradizionali come famiglia, amici, comunità...) è già etichettato dal punto di vista BAU con il cliché dell'hippie, dell'idealista, dell'alternativo... insomma dell'infantile, e a dare questa visione hanno contribuito in modo decisivo i mezzi di comunicazione. E' abbastanza naturale, perché quando c'erano affari da fare, non si poteva consentire che una parte significativa della popolazione uscisse dal sistema; tale uscita era possibile solo per una piccola quantità di persone e solo allo scopo di mettere in risalto la sua disfunzionalità, la sua incapacità, la sua assurdità... insomma, per servire la propaganda secondo la quale la cosa migliore è starsene al calduccio del BAU.

Risulta, pertanto, molto complicato convincere quel dirigente di una grande multinazionale, ora, a più o meno 40 anni, nel guado della disoccupazione di lunga durata, che potrebbe essere un felice calzolaio. Risulta anche terribilmente difficile farlo con un muratore o con un operaio di una fabbrica, per non parlare dei tanti piccoli imprenditori rovinati e indebitati (e che hanno dilapidato anche i risparmi di famiglia).

Alla fine dei discorsi sull'Oil Crash sono solito dire che non dobbiamo consentire che il nostro vicino soffra la fame, che dobbiamo fare, ognuno di noi, uno sforzo positivo per creare comunità, per aiutarci a vicenda, perché la sofferenza vicina non ci sia estranea. Per lo stesso motivo non possiamo consentire che persone vicine cadano nel pozzo oscuro della disperazione e del suicidio. Perché questa è una guerra contro tutti, contro tutti noi, e non c'è nessuno che sia meno prezioso. Non consentiamo che le storie assurde create da un sistema che non funziona e che è agonizzante ed il suo apparato di propaganda trascinino via i nostri amici, compagni, fratelli...

Cosa posso fare io, cosa puoi fare tu, caro lettore? In primo luogo farlo capire. La gente deve sapere che quello che sta succedendo né è colpa sua né ha una soluzione, non da una prospettiva convenzionale almeno, ma questo non vuol dire che non ci sia un'uscita. Sarà un primo passo di transizione per noi stessi. Se superiamo il pessimismo e la paura del rifiuto, tanto in linea con l'individualismo così conveniente per il BAU, riusciamo ad evitare perlomeno una morte evitabile, inutile e dolorosa.

Saluti.
AMT



lunedì 14 marzo 2016

Emergenza Clima: un articolo di Hansen e Sato




Sembra proprio che siamo arrivati a una seria emergenza climatica, con le temperature di Febbraio che hanno schiantato tutti i record precedenti. Non sappiamo cosa potrebbe succedere nel prossimo futuro, ma sicuramente niente di buono. Nell'articolo che segue, Hansen e Sato fanno il punto sulla situazione. (Immagine: temperature di Febbraio da think progress)




Cambiamenti climatici regionali e responsabilità nazionali


di James Hansen e Makiko Sato [a]
(Earth Institute | Columbia University)

Traduzione di Stefano Ceccarelli

da: Climate Science, Awareness and Solutions

Il riscaldamento globale di circa 0,6°C rispetto ai decenni passati ora “blocca i dadi del clima”. La Fig. 1 aggiorna l’analisi delle curve a campana del nostro studio del 2012 [1] per le terre dell’emisfero settentrionale, che mostravano come estati estremamente calde ora si verificano significativamente più spesso di quanto avvenisse 50 anni fa. Il nostro nuovo studio [2] mostra che ci sono forti variazioni regionali nello scostamento di queste curve a campana, e che gli effetti più marcati avvengono nelle nazioni meno responsabili del cambiamento climatico.

Negli USA lo scostamento della curva a campana è di solo una deviazione standard (una misura della tipica fluttuazione annuale delle temperature medie stagionali) in estate e meno di metà deviazione standard in inverno (Fig. 2). Misurato in unità di °C, il riscaldamento è simile in estate e in inverno negli USA ma l’implicazione pratica della Fig. 2 è che le persone negli USA dovrebbero avvertire che le estati stanno diventando più calde, ma è meno probabile che notino la variazione in inverno. Estati più fresche della media delle estati del periodo 1951-1980 ancora si verificano, ma solo il 19% circa delle volte. Il calore estremo estivo, definito come almeno 3 deviazioni standard più caldo della media 1951-1980, che non avveniva quasi mai 50 anni fa, oggi si verifica con frequenza di circa il 7%.

Il riscaldamento in Europa (si veda l’articolo) è poco più accentuato che negli USA. In Cina (Fig. 2) il riscaldamento è ora quasi 1½ deviazioni standard in estate e una deviazione standard in inverno, vale a dire un cambiamento climatico che dovrebbe essere evidente per persone abbastanza anziane da ricordare il clima di 50 anni fa. In India, gli scostamenti della curva a campana (vedi articolo) sono leggermente più ampi che in Cina.

Nell’area mediterranea e in Medio Oriente lo scostamento della curva a campana in estate è di quasi 2½ deviazioni standard (Fig. 2). Ogni estate è oggi più calda della media climatica del periodo 1951-1980, e il periodo con clima estivo è oggi considerevolmente più lungo. Poiché le estati sono già molto calde in queste regioni, il cambiamento ha influenza sulla vivibilità e sulla produttività, come diremo più avanti. Gli scostamenti della curva a campana nei tropici, compresa l’Africa centrale (vedi articolo) e il Sudest asiatico (Fig. 2), aree anch’esse già molto calde, sono di circa 2 deviazioni standard ed avvengono tutto l’anno.


Fig. 1. Frequenza delle anomalie della temperatura locale (relative alla media 1951-80) in funzione della deviazione standard locale (asse orizzontale) per le terre dell’emisfero boreale. La fila in alto si riferisce all’estate (da giugno ad agosto) e la fila in basso all’inverno (da dicembre a febbraio). Maggiori dettagli nei nostri lavori del 2012 e 2016.


Fig. 2. Frequenza delle anomalie della temperatura locale (relative alla media 1951-80) in funzione della deviazione standard locale (asse orizzontale) per le terre delle aree mostrate sulla mappa. L’area sottesa da ciascuna curva è unitaria. I numeri sulle mappe rappresentano la percentuale del globo coperta dalla regione considerata. Gli scostamenti (shift) si riferiscono alla linea tratteggiata adattata ai dati 2005-2015 e sono relativi al periodo base.

I tropici e il Medio Oriente in estate sono a rischio di diventare praticamente inabitabili per la fine del secolo se le emissioni di combustibili fossili continueranno secondo lo scenario business as usual (BAU), poiché la temperatura di bulbo umido potrà avvicinarsi al livello nel quale il corpo umano non è più in grado di raffreddarsi all’aria aperta neanche in presenza di adeguata ventilazione [3]. Anche un riscaldamento più contenuto rende la vita più difficile in queste regioni e riduce la produttività, in quanto le temperature si avvicinano al limite della tolleranza umana e il lavoro agricolo e in edilizia sono principalmente attività che si svolgono all’esterno. I paesi delle latitudini intermedie hanno una temperatura media quasi ottimale per la produttività del lavoro, mentre i paesi più caldi quali l’Indonesia, l’India e la Nigeria si collocano su un pendio ripido con una produttività che declina rapidamente all’aumentare della temperatura (vedi fig. 2 di Burke et al. [4], 2015).

Il riscaldamento e gli effetti climatici non sono uniformi all’interno delle regioni prese in considerazione. Negli USA, p.es., il riscaldamento è maggiore nel sudovest, consistente con l’atteso riscaldamento amplificato delle regioni subtropicali secche [5]. Similmente, il riscaldamento estivo è amplificato nelle regioni mediterranee e in Medio Oriente, dove come minimo esso intensifica le condizioni siccitose come quelle occorse in Siria in anni recenti, quando non ne è la principale causa [6].

L’aumento delle temperature sembra avere un effetto significativo sulla violenza interpersonale e sui conflitti umani, come indicato da un insieme di evidenze empiriche in un’area di studio scientifico in rapida espansione. Da una rassegna di 60 studi quantitativi [7] che coprono tutte le maggiori regioni del mondo, è emerso che la violenza interpersonale aumenta del 4% e i conflitti fra gruppi del 14% per ogni deviazione standard di aumento della temperatura. Tali risultati non costituiscono leggi naturali, ma forniscono un’utile stima empirica degli impatti del cambiamento di temperatura.

La salute umana è colpita dall’aumento delle temperature attraverso l’impatto di ondate di calore, siccità, incendi, alluvioni e tempeste, e indirettamente dalla rottura degli equilibri ecologici indotta dal cambiamento climatico, comprese le alterazioni del quadro epidemico (vedi il Capitolo 11 di IPCC, 2014, e riferimenti ivi citati). Le malattie trasmissibili, che implicano solitamente infezioni trasmesse da zanzare o zecche, possono diffondersi alle latitudini più alte e a maggiori altitudini man mano che il riscaldamento globale aumenta.

E’ possibile attribuire responsabilità nazionali del riscaldamento globale poiché la CO2 prodotta dai combustibili fossili è la principale causa del riscaldamento a lungo termine. La deforestazione e le attività agricole contribuiscono all’aumento di CO2, ma il ripristino del carbonio nei suoli e nella biosfera è possibile mediante pratiche agricole e forestali migliorate, che sono infatti richieste se si vuole stabilizzare il clima. Al contrario, il carbonio dei combustibili fossili non sarà rimosso dal sistema climatico per millenni [8]. Altri gas in tracce contribuiscono al cambiamento climatico, ma la CO2 è la causa dell’80% dell’aumento della forzante climatica dei gas a effetto serra degli ultimi due decenni [9] e molto del rimanente 20% è correlato all’estrazione e all’uso di combustibili fossili.

Il cambiamento climatico è accuratamente proporzionale alle emissioni cumulate di CO2 (Fig. 3a). Gli USA e l’Europa sono ciascuna responsabili per più di un quarto delle emissioni cumulate, la Cina per il 10% e l’India per il 3%. La disparità fra le emissioni dei paesi sviluppati e in via di sviluppo è anche maggiore se vengono contabilizzate le emissioni basate sui consumi [10]. Anche senza voler considerare le emissioni basate sui consumi, le emissioni pro capite di USA ed Europa sono almeno un ordine di grandezza più elevate di quelle della maggior parte dei paesi in via di sviluppo.

Emerge così una impressionante incongruità fra la localizzazione dei più forti cambiamenti climatici e le responsabilità dovute alle emissioni da fonti fossili. Gli scostamenti maggiori della curva a campana si riscontrano nelle foreste tropicali, nel Sudest asiatico, Sahara e Sahel, dove le emissioni da combustibili fossili sono molto ridotte. Il cambiamento climatico è anche più marcato nel Medio Oriente, dove le emissioni sono alte e in rapida crescita, con diverse nazioni che hanno raggiunto emissioni pro capite più alte degli Stati Uniti (vedi articolo).

Fig. 3. Emissioni cumulate di CO2 da combustibili fossili per fonte nazionale (a) e pro capite (b). I risultati per altre singole nazioni sono disponibili in: www.columbia.edu/~mhs119/CO2Emissions/.


Discussione. Noi concludiamo che proseguire con le emissioni da combustibili fossili secondo lo scenario BAU comincerà a rendere le basse latitudini inabitabili. Se accompagnate da un aumento di alcuni metri del livello del mare, le risultanti migrazioni forzate e la crisi economica potranno essere devastanti.

Anche un riscaldamento globale contenuto come 2°C, talvolta ritenuto un limite sicuro, può avere grandi effetti. Gli scostamenti della curva a campana mostrati per il periodo 2005-2015 sono la conseguenza di un riscaldamento di circa 0,6°C rispetto al periodo 1951-1980. Così, un riscaldamento di 2°C rispetto al periodo preindustriale (pari a 1,7°C rispetto al 1951-1980) darà luogo a scostamenti della curva a campana e impatti sul clima circa tre volte più grandi di quelli già verificatisi. Ci si attende che un riscaldamento globale di 2°C causerà un aumento del livello del mare di alcuni metri [12], portando a concludere che il potenziale aumento del livello del mare durante questo secolo è pericoloso.

Il messaggio complessivo che la scienza del clima consegna alla società, ai decisori politici e all’opinione pubblica è questo: abbiamo un’emergenza globale. Le emissioni di CO2 da fonti fossili devono essere ridotte il più rapidamente possibile. Noi riteniamo che i contributi volontari delle singole nazioni, che costituiscono l’approccio della 21ma Conferenza delle Parti [13], non possono condurre a una rapida riduzione delle emissioni da combustibili fossili fintanto che alle fonti fossili sarà permesso di essere l’energia più a buon mercato. Sarà necessario includere una componente tariffaria sul carbonio che consenta di incorporare nel suo prezzo le esternalità negative dei combustibili fossili. L’introduzione di dazi doganali su prodotti provenienti da paesi privi di una tassa sul carbonio condurrebbe la maggior parte delle nazioni ad adottare una simile tassa.

Alla luce della disparità fra le emissioni dei paesi sviluppati e quelle dei paesi in via di sviluppo, c’è un obbligo riconosciuto di assistenza da parte dei paesi sviluppati. I paesi in via di sviluppo hanno dalla loro una forte leva per ottenere una tale assistenza, perché la loro cooperazione per migliorate pratiche agricole e forestali è necessaria per trattenere più carbonio nei suoli e nella biosfera e per limitare le emissioni dei gas serra in tracce. E’ inoltre necessaria la cooperazione internazionale per generare più energia decarbonizzata a costi accessibili, perché altrimenti lo sviluppo economico in molte nazioni continuerà ad essere basato sulle fonti fossili a dispetto dell’inquinamento e degli impatti sul clima.

Riferimenti:
[a] Questa Comunicazione riassume un articolo con questo titolo (Hansen e Sato, 2016); è anche disponibile un Video abstract.
[1] Hansen, J., Sato, M. and Ruedy, R.: Perception of climate change, Proc. Natl. Acad. Sci. 109, 14726-14734, 2012.
[2] Hansen J. and Sato M.: Regional climate change and national responsibilities, Environ. Res. Lett. (in press).
[3] Sherwood, S.C. and Huber, M.: An adaptability limit to climate change due to heat stress, Proc. Natl. Acad. Sci. 107, 9552-9555, 2010.
[4] Burke, M, Hsiang, S.M. and Miguel, E.: Global non-linear effect of temperature on economic production, Nature 527, 235-239, 2015.
[5] Cook, K.H. and Vizy, E.K.: Detection and analysis of an amplified warming of the Sahara, J. Clim. 28, 6560-6580, 2015.
[6] Kelley, C.P., Mohtadi, S., Cane, M.A., Seager, R. and Kushnir, Y.: Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought, Proc. Natl. Acad. Sci. USA 112, 3241-3246, 2015.
[7] Hsiang, S.M., Burke, M. and Miguel, E.: Quantifying the influence of climate on human conflict, Science 341, doi:10.1126/science.1235367
[8] Archer, D.: Fate of fossil fuel CO2 in geologic time, J. Geophys. Res. 110, C09S05, 2005.
[9] Hansen, J., Kharecha, P. and Sato, M.: Climate forcing growth rates: doubling down on our Faustian bargain, Environ. Res. Lett. 8, 011006, 2013.
[10] Peters, G.P.: From production-based to consumption-based national emissions inventories, Ecolog. Econ. 65, 13-23, 2008.
[11] Hansen, J., et al.: Ice melt, sea level rise and superstorms: Evidence form paleoclimate data, climate modeling and modern observations that 2°C global warming is dangerous, arXiv:1602.01393
[12] Dutton, A., Carlson, A.E., Long, A.J., Milne, G.A., Clark, P.U., DeConto, R., Horton, B.P., Rahmstorf, S., and Raymo, M.E.: Sea-level rise due to polar ice-sheet mass loss during past warm periods, Science, 349, doi:10.1126/science.aaa4019, 2015
[13] Davenport, C.: Nations Approve Landmark Climate Accord in Paris, New York Times, 12 December, 2015.

lunedì 9 febbraio 2015

Strada obbligata.

The one way forward
Di John M. Greer
Traduzione di Jacopo Simonetta.

Ho voluto tradurre questo lungo (un po’ troppo lungo) articolo dell’ineffabile Aci-druido perché mi pare che sia particolarmente interessante.   Fra l’altro, esprime posizioni molto simili a quanto sostenuto da Serge Latouche in una conferenza tenuta a Pisa nella primavera scorsa.
Io rimango scettico per varie ragioni che esporrò in un prossimo post, ma mi pare comunque un’idea interessante.

Nota sulla traduzione:   La prosa di Greer è molto lineare nei suoi libri, ma spesso contorta nei suoi post.   In queste pagine, mi sono preso la libertà di modificare leggermente la punteggiatura e qualche giro di frase che, tradotto pedissequamente in italiano, diventava illeggibile.


Tutto considerato, il 2015 non promette di essere una buona annata per chi crede nel “business as usual”.   Dopo il post della settimana scorsa sull’Archidruid report, il partito anti-austerity Syriza ha spazzolato le elezioni in Grecia, fra l’entusiasmo di partiti simili in tutta Europa e lo sconforto della gerarchia di Bruxelles.   Questa non può rimproverare altri che se stessa per questo evento.   Oramai per più di un decennio, le politiche EU hanno effettivamente protetto le banche ed i possessori di buoni del tesoro dalla salubre disciplina del mercato, prima di ogni altra considerazione.   Ivi compresa la sopravvivenza economica di intere nazioni.    Non dovrebbe sorprendere nessuno se questo non era un approccio vitale a lungo.

Nel frattempo, la bolla del fracking continua a sgonfiarsi.   Il numero di trivelle al lavoro nei campi petroliferi americani continua a cadere verticalmente di setimana in settimana.   I licenziamenti nel settore petrolifero stanno accelerando ed il prezzo del petrolio rimane a livelli che rendono ogni espansione del fracking un benvenuto esercizio matematico per il tribunale locale.   Quei pundit mediatici che stanno ancora parlando dell’industria del  fracking stanno insistendo che il calo del prezzo del petrolio prova che loro avevano ragione e che quei maledetti eretici che parlano di picco del petrolio devono avere torto. Ma evitano di spiegare come mai i minerali di ferro, rame e molti altri dei materiali principali stanno perdendo valore ancora più in fretta del greggio.   E neppure perché la domanda di petrolio negli USA sta declinando anche lei.

Il fatto è semplicemente che un’economia industriale costruita per correre con petrolio convenzionale a buon mercato non può funzionare a lungo con petrolio costoso senza schiacciarsi il naso per terra.   Dal 2008, le nazioni industriali del mondo hanno cercato di compensare la differenza inondando le loro economie con credito a buon mercato, nella speranza che questo avrebbe potuto compensare la rapidamente crescente quantità di ricchezza reale che deve essere dirottata dagli altri scopi, nello sforzo di mantenere il flusso di combustibili liquidi al loro livello di picco.   Ora però le leggi economiche hanno chiamato il loro bluff.    Le ruote si stanno fermando in una nazione dopo l’altra ed il prezzo del petrolio (come quello di altre risorse) è sceso ad un livello che non copre i costi dell’olio di scisto, delle sabbie bituminose e cose simili.   Ciò perché tutti questi frenetici tentativi di esternalizzare i costi della produzione di energia comportano che sia l’economia globale che riceve il colpo.

Naturalmente non è così che i governi ed i media spiegano la crisi che sta emergendo.   Del resto, non c’è carenza di pundit e di gente fuori dai corridoi del potere  che ignorano il collasso generale del prezzo delle materie prime.   Fissandosi sul petrolio al di fuori del più vasto contesto dell’ esaurimento delle risorse in generale, insistono che il cambio del prezzo del petrolio sia un atto di guerra, o quel che vi pare.

Questa è una logica che i lettori di questo blog hanno visto dispiegarsi molte volte nel passato.   Qualunque cosa accada deve essere stato deciso ed attuato da esseri umani.   Uno stupefacente numero di persone in questi tempi, sembra incapace di immaginare la possibilità che fattori totalmente impersonali come le leggi dell’economia, della geologia e della termodinamica possano da sole far accadere delle cose (grassetto mio ndt.).

Il problema che fronteggiamo ora è precisamente che l’inimmaginabile è la nostra realtà.   Per un po’ troppo tempo, troppa gente ha insistito che non bisogna preoccuparsi dell’assurdità di perseguire una crescita illimitata su di un delimitato e fragile pianeta,  perché “troveranno qualcosa”.   Oppure hanno pensato che chattare sui forum internet a proposito di questo o quel pezzo di fumo tecnologico sia fare qualcosa di concreto a proposito dell’imminente collisione della nostra specie con i limiti della crescita.   Viceversa, per appena un po’ troppo tempo, non abbastanza persone hanno voluto fare qualcosa in proposito ed ora i fattori impersonali hanno occupato la sedia del conducente, dopo aver malmenato tutti noi sette miliardi ed  averci ficcati nel bagagliaio.

Come ho segnalato nel post della settimana scorsa, questo pone dei severi limiti a quello che possiamo fare nel breve termine.   Con ogni probabilità, a questo stadio del gioco, ognuno di noi incontrerà l’onda della crisi con la preparazione che si è dato; sostanziale o trascurabile che questa sia.   Sono cosciente che un certo numero dei miei lettori non sono felici di questo, ma non possono essere aiutati.   Il futuro non è tenuto ad aspettare pazientemente finché siamo pronti.
Alcuni anni fa, quando postai un testo che riassumeva la strategia che proponevo, probabilmente avrei dovuto mettere più enfasi sulla parola principale dello slogan: adesso.   Oramai quel che è fatto è fatto.

Questo non significa che siamo alla fine del mondo.    Significa che con tutta probabilità, cominciando in un qualche momento di questo anno e per parecchi anni a venire, molti dei miei lettori saranno indaffarati con gli impatti multipli di una martellante crisi economica sulla loro vita e su quella dei loro familiari, amici, comunità e datori di lavoro.   In un periodo in cui il sistema politico di gran parte del mondo industriale sarà grippato, le guerre latenti nel Medio Oriente ed in gran parte del terzo Mondo saranno in ebollizione più del solito ed il tramonto della Pax Americana spingerà  sia il governo USA che i suoi nemici ad un livello ancora maggiore di rischio.

Come esattamente questo accadrà nessuno lo sa, ma accadrà sicuramente.   E difficilmente sarà piacevole.

Intanto che ci prepariamo per il primo colpo, comunque, è utile parlare un poco a proposito di cosa accadrà dopo.    Per quanto sia lungo l’effetto domino sugli istituti finanziari coinvolti nella bolla del fracking, prima o poi cadrà l’ultimo e, dopo qualche anno, le cose torneranno ad una “nuova normalità”; anche se molto più in basso lungo la pendice della decrescita.   Non importa quante guerre per procura, colpi di stato, azioni segrete ed insurrezioni manipolate saranno lanciate dagli Stati Uniti e dai suoi rivali nella loro lotta per la supremazia; molti dei posti toccati da questi conflitti vedranno alcuni anni di guerra effettiva, con periodi di relativa pace prima e dopo. Le altre forze che guidano il collasso agiscono sostanzialmente allo stesso modo.  Il collasso è un processo frattale, non uno lineare.

Però sull’altro lato della crisi c’è qualcos’altro che “di più dello stesso”.   La discussione che vorrei cominciare a questo punto è centrata su quello che potrebbe valere la pena di fare una volta che le masse di macerie economiche, politiche e militari smetteranno di rimbalzare.   Non è troppo presto per pianificare questo. Se non altro, darà ai lettori di questo blog qualcosa cui pensare mentre staranno in coda per il pane o nascosti in cantina, mentre polizia e ribelli si scontrano in strada.   A parte questo beneficio, prima si comincia a pensare a quali opzioni saranno disponibili una volta tornata una certa stabilità, migliori saranno le probabilità di essere pronti ad agire, nella nostra vita o ad una più ampia scala.

Del resto, una delle interessanti conseguenze di ogni crisi davvero sostanziale è che ciò che era impensabile prima può non essere impensabile dopo. Leggete il brillante “The proud Tower” di Barbara Tuchman e vedrete quante delle indiscutibili certezze del 1914 erano finite nella compostiera della storia alla fine del 1945.   E quante delle idee che erano state appannaggio di frange ultraperiferiche  prima della prima guerra mondiale erano diventate buon senso comune dopo la seconda.   E’ un fenomeno comune ed io propongo qui di andare avanti lungo questa curva proponendo, come materiale grezzo di riflessione e nient’altro, qualcosa che è certamente impensabile oggi, ma che potrebbe diventare una necessità dieci o venti, o quaranta anni da ora.

Che cosa ho in mente?   Una intenzionale regressione tecnologica come politica pubblica.
Immaginate, per un momento, una nazione industriale che riduca la sua infrastruttura tecnologica approssimativamente a quel che era nel 1950.   Questo comporterebbe un drastico decremento dei consumi energetici pro-capite, sia direttamente  (la gente usava molto meno energia di tutti i tipi nel 1950), sia indirettamente ( anche la produzione di beni e servizi richiedeva molto meno energia allora).   Ciò comporterebbe parimenti una brusca riduzione dei consumi pro capite di molte risorse.    Comporterebbe anche un brusco incremento dei posti di lavoro per le classi lavoratrici.   A quei tempi, un sacco di cose oggi fatte dai robot erano fatte da esseri umani, cosicché c’erano molte più buste paga che andavano in giro il venerdì per pagare i beni e servizi che i consumatori normali comprano.   Dal momento che un flusso costante di stipendi ai lavoratori è una delle cose principali per mantenere un’economia stabile e vigorosa, questo sarebbe sicuramente un ovvio vantaggio, ma per adesso possiamo lasciare questo da parte.

Certamente il cambiamento proposto comporterebbe certi cambiamenti rispetto a come vanno adesso le cose.   Nel 1950 i viaggi in aereo erano estremamente costosi, i ricchi erano chiamati “il jet-set” perché erano gli unici che potevano comprare i biglietti.   Così tutti gli altri era costretti ad usare dei veloci, affidabili ed energicamente efficienti treni quando dovevano andare da un posto all’altro.   I Computers erano rari e costosi, il che significava, ancora una volta, che più gente aveva un lavoro.   E Significava anche quando chiamavate una ditta od un ufficio la vostra probabilità di trovare un essere umano per aiutarvi in qualunque vostro problema era considerevolmente più alta di oggi.
Mancando internet, la gente si doveva accontentare di un’ampia gamma di frequenze radio, migliaia di periodici generici o specializzati ed un sacco di librerie e biblioteche locali, zeppe di libri.  

Almeno in America, gli anni ’50 furono l’età d’oro delle biblioteche pubbliche e molte cittadine avevano delle collezioni che in questi giorni non trovate nemmeno nelle grandi città. Oh, e quelli a cui piace guardare foto di gente spogliata (che oggi hanno un grande e di solito non menzionato ruolo nel pagare internet) si dovevano accontentare di riviste indecenti che gli consegnavano in anonime buste marroni. Oppure andavano in negozietti di periferia.  Tutte cose che, comunque, non sembravano metterli in imbarazzo.

Come osservato prima, sono del tutto cosciente che un simile progetto è assolutamente impensabile oggi; che provocherebbe un’immediata reazione di superstizioso orrore.  Quindi, per prima cosa, parliamo delle obbiezioni più ovvie.  Sarebbe possibile? Sicuro.

Molto di quello che deve essere fatto sono dei semplici cambiamenti nelle leggi fiscali.   Proprio ora, negli stati uniti, una galassia di perversi regolamenti penalizzano i datori di lavoro se assumono persone ed incentivano quelli che rimpiazzano gli impiegati con delle macchine. Cambiate questo in modo che spendere di più in stipendi abbia maggior senso finanziario che spendere per automatizzare, e sarete già a metà strada.

Una revisione della politica commerciale farebbe buona parte del resto che sarebbe necessario.   Malgrado le fideistiche pretese degli economisti, quello che viene scherzosamente chiamato “mercato libero” benefica i ricchi a spese di tutti gli altri e potrebbe essere rimpiazzato da ragionevoli tariffe per sostenere la produzione domestica, contro il mercantilismo predatorio che domina l’economia globale in questi giorni.   Aggiungete a questo alte tariffe sulle importazioni di tecnologia e togliete a qualsiasi tecnologia successiva al 1950 i sontuosi sussidi che ingrassano le aziende del “Fortune 500” e di base ci siete.

Quello che rende il concetto di regressione tecnologica così intrigante, e così utile, è che non richiede di sviluppare niente di nuovo. Sappiamo già come funzionava la tecnologia del 1950. Quali sono le sue necessità di energia e risorse; quali sarebbero vantaggi e svantaggi nell’adottarle.

Un’abbondante documentazione ed una certa frazione della popolazione che ancora ricorda come funzionava renderebbero la cosa facile.   Quindi sarebbe una cosa semplice fare una lista di quel che serve, quali sarebbero costi e benefici, e come minimizzare i primi massimizzando i secondi.   Non dovremmo fare quei tentativi alla cieca e quelle ipotesi arbitrarie che sono necessarie quando si sviluppa una nuova tecnologia.  Tanto per la prima obbiezione.

Seconda domanda: ci sarebbero controindicazioni ad una deliberata regressione tecnologica?  

Certamente! Ogni tecnologia e qualsiasi gruppo di opzioni politiche ha le sue controindicazioni.   In effetti, una comune fantasia odierna pretende che sia ingiusto prendere in considerazione le controindicazioni delle nuove tecnologie ed i vantaggi delle vecchie, quando si decide se rimpiazzare una tecnologia vecchia con una più nuova. Una illusione ancora più comune pretende che non devi nemmeno decidere. Quando una nuova tecnologia emerge, si presume che tu la segua belando come tutti gli altri, senza porre alcuna domanda.

La tecnologia corrente ha immense controindicazioni.  Le tecnologie future ne avranno anche loro.   E’ solo nelle pubblicità e nelle storie di fantascienza che le tecnologie non hanno difetti. Quindi, il mero fatto che anche le tecnologie del 1950 ponevano dei problemi non è una ragione valida per scartare la regressione tecnologica. Per quanto impensabile, la domanda da porre  è se, tutto considerato, sarebbe saggio accettare le controindicazioni della tecnologia del 1950 al fine di disporre di un complesso operativo di tecnologie in grado di funzionare con molto minori consumi procapite di energia e risorse. E dunque migliori speranze di attraversare l’età dei limiti che abbiamo davanti, piuttosto che con la molto più stravagante e fragile infrastruttura tecnologica odierna.

Probabilmente è necessario parlare anche di un particolare pezzo di paralogica che emerge ogniqualvolta qualcuno suggerisce la regressione tecnologica: la nozione che se torni ad un più vecchia tecnologia, devi assumere anche le pratiche sociali e le abitudini culturali di quei tempi. Ho ricevuto molti commenti di questo tipo l’anno scorso quando ho suggerito che una tecnologia a vapore di tipo vittoriano alimentata da energia solare potrebbe essere una forma di ecotecnica del futurro. Uno stupefacente numero di persone sembravano incapace di immaginare che questo fosse possibile senza reintrodurre anche usanza vittoriane quali il lavoro infantile ed il pudore sessuale.   Per quanto sciocche, idee simili hanno radici profonde nell’immaginario moderno.

Senza dubbio, come risultato di queste profonde radici, ci sarà un sacco di gente che risponderà alla proposta che ho appena fatto che le pratiche sociali e le abitudini culturali del 1950 erano orribili, e pretendendo che queste abitudini non possono essere separate delle tecnologie in questione. Posso rispondere osservando che il 1950 non aveva un solo set di pratiche sociali e culturali. Solo negli Stati Uniti, un viaggio da Greenwich Village alla Pennsylvania rurale nel 1950 vi avrebbe fatto incontrare con notevoli diversità culturali fra persone che usavano la medesima tecnologia.

Il punto si può ribadire notando che, in quell’anno,  la stessa tecnologia era in uso a Parigi, Djakarta, Buenos Aires, Tokyo, Tangeri, Novosibirsk, Guadalajara e Lagos. E non tutti questi avevano le stesse usanze degli americani, sapete. Ma sarebbe fiato sprecato. Per i veri credenti nella religione del progresso, il passato è un ribollente calderone di eterna dannazione da cui perpetuamente ci salva il surrogato messia del progresso. Ed il futuro è il radioso paradiso, le cui porte i fedeli sperano di varcare a tempo debito. Molte persone in questi giorni non vogliono discutere questa dubbia classificazione più di quanto un contadino medioevale non fosse disposto a dubitare del miracoloso potere che si supponeva emanasse dalle ossa di S. Ethelfrith (il fondatore del regno di Northumbria, attuale Inghilterra ndt).

Niente, ma niente suscita un più superstizioso orrore nella cultura dominante del dire, cielo aiutaci, “torniamo indietro”. Anche se la tecnologia di giorni precedenti è più adatta ad un futuro di scarsità di risorse e di energia, piuttosto che l’infrastruttura che abbiamo adesso.   Anche se la tecnologia di giorni andati effettivamente fa meglio il lavoro di molte cose che abbiamo oggi,  “Non possiamo tornare indietro!” è l’angosciato grido delle masse.   Sono stati così bene imbambolati dai propagandisti del progresso che non smettono mai di pensare questo.

C’è una ricca ironia nel fatto che i circoli alternativi e d’avanguardia tendono ad essere ancora più ossessivamente fissati col dogma del progresso lineare delle masse che si presumono conformiste.  

Questa è una delle più subdole caratteristiche del mito del progresso; quando le persone diventano insoddisfatte dello status quo, il mito le convince che la sola opzione che hanno è fare esattamente quello che tutti gli altri fanno. Così, quello che era cominciato come un moto di ribellione viene cooptato in un perfetto conformismo e la società continua a marciare stupidamente lungo la traiettoria corrente.   Come i lemming di un documentario Disney, senza nemmeno chiedere cosa ci dovrebbe essere in fondo.

Questo per quanto riguarda il progresso. La parola stessa significa “movimento continuo nella medesima direzione”.  Se la direzione era una cattiva idea all’inizio, o se ha superato il punto fino a cui aveva senso, continuare ad arrancare ciecamente in avanti in un’oscurità che si addensa potrebbe non essere la migliore idea del mondo.  Rompi questa camicia di forza mentale ed una gamma di futuri possibili si schiude immediatamente.

Ad esempio, potrebbe essere che una regressione tecnologica al livello del 1950 risulti impossibile da mantenere sui tempi lunghi. Se le tecnologie del 1920 possono essere supportate con un più modesto apporto di energia che possiamo recuperare dalle fonti rinnovabili, per esempio, qualcosa di simile alla tecnologia del 1920 potrebbe essere  mantenuta sul lungo termine, senza ulteriori regressioni.

Potrebbe invece emergere che qualcosa di simile alle macchine a vapore solari che ho menzionato prima sia il livello massimo che può essere sostenuto indefinitamente.   Un’ecotecnica equivalente alla tecnologia del 1820, con mulini a vento e ad acqua come motori dell’industria, canali navigabili come principale infrastruttura di trasporto e la maggior parte della popolazione che lavora in piccole fattorie di famiglia che supportano villaggi e cittadine.

Quest’ultima opinione sembra eccessivamente deprimente?   Comparatela con un altro scenario molto probabile e potrete trovare che questa ha i suoi vantaggi.   Ad esempio, immaginiamo che cosa accadrebbe se le società industriali del mondo scommettessero per la loro sopravvivenza su di un grande balzo avanti di una non provata fonte di energia che non ripaga i suoi costi, lasciando miliardi di persone a contorcersi nel vento, senza infrastruttura tecnologica di sorta.  

Se state guidando in un vicolo cieco e vedete un muro di mattoni davanti, potete ricordarvi che strillare “non possiamo tornare indietro!” non è esattamente una buona trovata.   In una simile situazione  (e voglio suggerire che questa è un’affidabile metafora della situazione in cui siamo proprio adesso ) tornare indietro, ricercando la strada percorsa  findove necessario, è un modo per andare avanti.





domenica 12 maggio 2013

Comunicare il cambiamento climatico con un solo grafico

 

Di Alexander Ac.

Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR

A volte si dice che una (buona) immagine vale mille parole. Proviamo a fare un esperimento. Prendiamo le registrazioni strumentali della temperatura dal 1880 ad oggi abbinate alle paleo-ricostruzioni delle temperature globali usando vari “proxy” durante gli ultimi 540 milioni di anni ed aggiungiamo ad questo lo scenario della rana bollita (per esempio il “business as usual”) con uno scenario di emissioni di gas serra senza restrizioni:


*Questo grafico mostra le ricostruzioni della temperatura globale durante gli ultimi 542 milioni di anni, unitamente il caso peggiore di aumento di temperatura dalla fine di questo secolo, seguendo lo scenario 8,5 RCP - Representative Concentration Pathway  scenario(van Vuuren et al., 2011). 8,5 è la quantità di forzante radiante (in W/m2) relativa al periodo preindustriale. L'aumento della temperatura » 4,7°C (8,5°F) proviene dall'ultima bozza del rapporto dello statunitense Global Change Research Program (p33, PDF). Notate anche che la scala dell'asse delle ascisse in caso di variazione e che tale periodo di rapida corrente+aumento di temperatura proiettata non è avvenuto durante questo periodo. Fonte del grafico: Wikipedia.

Così anche se consideriamo le grandi incertezze delle registrazioni della temperatura paleoclimatiche, come faremmo avvicinandoci allo scenario peggiore, a lungo termine il nostro pianeta verrebbe completamente liberato dai ghiacci. Il cambiamento climatico in sé probabilmente non permetterà un tale aumento della temperatura globale, mai visto per 10 milioni di anni, ma questo è chiaramente qualcosa che vorremmo collettivamente evitare. 

Un commento di Ugo Bardi: questo post di Alexander Ac è un buon esempio del tema di questo blog. Stiamo tentando di “impacchettare” l'informazione sul cambiamento climatico in modi che non siano solo comprensibili, ma anche diretti ed efficaci. Questo riassunto “un solo grafico” sul cambiamento climatico va nella giusta direzione, ma vorrei aggiungere un avvertimento.

Non dovremmo dimenticare che gran parte delle persone là fuori non sono in grado di leggere anche un semplice grafico ascisse-ordinate (x-y). Questo grafico specifico, con una scala delle ascisse variabile, non è facile da leggere e creerà confusione alle persone che non hanno imparato il “linguaggio specifico dei grafici” che gli scienziati trovano così ovvio. Tuttavia, questo grafico potrebbe essere un'arma vincente per penetrare “l'analfabetismo climatico” che affligge un buon numero di scienziati e professionisti che non sono specialisti in clima. 



lunedì 2 marzo 2015

Picco del petrolio, picco del cibo, picco di tutto

Da “CyprusMail”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron)



E' cominciato tutto col picco del petrolio, il punto in cui il tasso massimo di estrazione viene raggiunto, dopo di che la produzione comincia a declinare.

Di Gwynne Dyer

Il picco del petrolio è stato l'anno scorso. Ora possiamo preoccuparci del picco di tutto: picco del cibo, picco del suolo, picco dei fertilizzanti, persino del picco della api. Cominciamo dal piccolo. Dipendiamo dalle api per impollinare le piante che costituiscono circa un terzo della disponibilità mondiale di cibo, ma dal 2006 gli sciami di api negli Stati Uniti sono morti ad un tasso senza precedenti. Più di recente lo stesso “disordine da collasso degli sciami” è apparso in Cina, Egitto e Giappone. Molti sospettano che la causa principale sia un tipo di pesticidi largamente usati chiamati neonicotinoidi, ma le prove non sono ancora conclusive. Rimane il fatto che un terzo della popolazione americana di api è scomparsa nell'ultimo decennio. Se le perdite si dovessero diffondere ed aggravare, potremmo avere di fronte gravi carenze di cibo.

sabato 12 luglio 2014

Il pensiero sistemico e il futuro delle città

Da “Post Carbon Institute”. Traduzione di MR

Di David Orr


Foto: Stuck in Customs / Flickr. Licenza Creative Commons 2.0. “Viviamo tutti in un mondo interconnesso”, sostiene l'autore.

In breve

L'idea che niente esista isolatamente – ma solo come parte di un sistema – è stata a lungo parte del folklore, delle scritture religiose e del senso comune. Tuttavia, le dinamiche dei sistemi come scienza deve ancora trasformare il modo in cui portiamo avanti gli affari pubblici. Questo articolo dapprima esplora brevemente la questione del perché i progressi nella teoria dei sistemi non sono riusciti a trasformare la politica pubblica. La seconda parte descrive i modi in cui la nostra comprensione dei sistemi stia crescendo – non tanto dalla teorizzazione, ma dalle applicazioni pratiche in agricoltura, progettazione degli edifici e scienza medica. La terza parte si concentra su se e come questa conoscenza e la scienza dei sistemi possano essere diffuse per migliorare la gestione urbana di fronte alla rapida destabilizzazione climatica di modo che la sostenibilità diventi la norma, non una storia di successo occasionale.

Concetti chiave


  • La riduzione degli interi a parti è il cuore della visione del mondo scientifica che abbiamo ereditato da Galileo, Bacone, Descartes e dei loro moderni accoliti nelle scienze economiche, nell'efficienza e nella gestione. 
  • I decenni fra il 1950 e il 1980 sono stati l'era d'oro della teoria dei sistemi. Tuttavia, nonostante un gran parlare di sistemi, continuiamo ad amministrare, organizzare, analizzare, gestire e governare sistemi ecologici complessi come se fossero una raccolta di parti isolate e non un'unione indissolubile di energia, acqua, suoli, terra, foreste, biota ed aria. 
  • Gran parte di ciò che abbiamo imparato gestendo i sistemi reali è cominciato con l'agricoltura. Una delle lezioni più importanti è stata che la terra è un organismo in evoluzione di parti collegate: suoli, idrologia, biota, natura selvaggia, piante, animali e persone. 
  • La sfida è quella di far transitare la complessità urbana organizzata costruita su un modello industriale e progettata per automobili, espansione e crescita economica in luoghi coerenti, civili e duraturi. 
  • Una prospettiva sistemica per la gestione urbana è una lente attraverso la quale potremmo vedere più chiaramente nella nebbia del cambiamento e gestire potenzialmente meglio le complesse relazioni di causa-effetto fra i fenomeni sociali ed ecologici. L'applicazione dei sistemi offre almeno sei possibilità di migliorare la gestione urbana.  


Un sistema è un insieme di elementi interconnessi che è organizzato coerentemente in un modo che ottenga qualcosa... deve consistere in tre tipi di cose: elementi, interconnessioni e una funzione o scopo. 
—Donella Meadows, Pensare sistemico (1)

Un sistema è (a) un insieme di unità o elementi interconnessi di modo che i cambiamenti di alcuni elementi o delle loro relazioni produca cambiamenti nelle altre parti del sistema e (b) l'intero sistema esibisce delle proprietà e dei comportamenti che sono diversi da quelli delle parti. 
—Robert Jervis, Effetti dei Sistemi (2)

Una delle idee più importanti della scienza moderna è quella di un sistema. Ed è quasi impossibile da definire.
—Garrett Hardin, La Cibernetica della Competizione (3)

Storia della Teoria dei Sistemi

I decenni post bellici fra il 1950 e il 1980 sono stati l'era d'oro della teoria dei sistemi. Sulla base dei progressi nelle comunicazioni, nelle oprazioni di ricerca e nella cibernetica dalla Seconda Guerra Mondiale, Kenneth Boulding, James G. Miller, Ludwig von Bertalanffy, C. West Churchman, Herbert A. Simon, Erwin Laszlo, Jay Forester, Dennis e Donella Meadows, Peter Senge ed altri hanno scritto in modo persuasivo del potere dell'analisi dei sistemi (4, 5). Si diceva che i benefici erano molti. Il pensiero sistemico ci avrebbe permesso di percepire gli schemi che connettevano cose altrimenti sparpagliate e di rilevare la logica contro-intuitiva che soggiace ad una realtà spesso ingannevole, creando pertanto diagnosi, politiche e piani più coerenti. I benefici reali della teoria dei sistemi, tuttavia, sono rimasti in gran parte nel regno dei computer e della tecnologia di comunicazione. Altrove, il business as usual ha proceduto tranquillamente imperturbato. Nonostante la logica intrinseca del pensiero sistemico, governi, multinazionali, fondazioni, università ed organizzazioni no-profit funzionano ancora in gran parte suddividendo temi e problemi nelle loro parti separate ed affrontandole separatamente.

 Agenzie, dipartimenti ed organizzazioni separate si specializzano in energia, terreno, cibo, aria, acqua, natura selvaggia, economia, finanza, regolamenti edilizi, politiche urbane, tecnologia, salute e trasporti – come se ognuno di questi temi non fosse collegato agli altri. Così, un'agenzia spinge forte per far crescere l'economia mentre un'altra è incaricata di ripulire il pasticcio risultante e così via, vale a dire che la mano sinistra e la mano destre raramente sanno – o si interessano a – ciò che sta facendo l'altra. I risultati sono spesso controproducenti, eccessivamente costosi, rischiosi, a volte disastrosi e quasi sempre ironici. La modellazione sistemica, per esempio, ci ha permesso di prevedere e capire la catastrofe incombente del cambiamento climatico rapido, mentre i fallimenti sistemici nel governo, nelle politiche e nell'economia hanno finora paralizzato la nostra capacità di fare qualcosa per questo. La teoria dei sistemi, in breve, deve ancora avere il suo momento copernicano e le ragioni sono ironicamente incorporate nella rivoluzione scientifica stessa.

Il ridurre interi a parti, vedi “riduzionismo”, è il cuore della visione del mondo scientifica che abbiamo ereditato da Galileo, Bacone, Descartes e dei loro moderni accoliti nelle scienze economiche, nell'efficienza e nella gestione. Per un periodo, il riduzionismo ha operato miracoli scientifici, tecnologici ed economici. Ma, quando abbiamo acquisito potere, ricchezza, velocità, convenienza, apparente controllo sulla natura e fiducia in noi stessi, abbiamo pagato un prezzo considerevole che Faust (quello di Marlowe, non quello di Goethe) avrebbe riconosciuto. Come Faust, abbiamo agito a breve termine, trascurando costi e rischi a lungo termine che potevano essere visti solo da una prospettiva sistemica. I risultati sono sconcertanti. A tempo di record, abbiamo stracciato interi ecosistemi, acidificato gli oceani, spazzato via specie intere, dilapidato il suolo fertile, abbattuto foreste e cambiato la chimica dell'atmosfera.

“Siamo”, nelle parole di Edward Hoagland, “ancora in parte scimpanzé con una doppia laurea in prove ed errori”. Nel mondo reale, le cose tornano a farsi sentire, ci sono punti di non ritorno, sorprese, proprietà emergenti, cambiamenti di passo, ritardi temporali e imprevedibili e catastrofici eventi di “cigno nero” con effetti globali che durano a lungo. Per prevedere ed evitare queste cose serve un atteggiamento mentale capace di vedere le connessioni, gli schemi e la struttura dei sistemi, così come una visuale ben oltre il bilancio trimestrale o le prossime elezioni. La saggezza comincia con la consapevolezza che viviamo in mezzo delle complessità che non possiamo mai comprendere pienamente, per non parlare di controllarle. Ma la prudenza non è stata parte dell'esuberanza a prova di pallottola scritta nella nostra idea di progresso, né nei documenti fondamentali dell'America.


Foto: lo staff di fotografi della Casa Bianca. Jimmy Carter, Gerald Ford e Richard Nixon alla Casa Bianca nel 1978. Gerald Ford ha giocato un ruolo importante nel far firmare la Legge Nazionale per l'Ambiente da Richard Nixon nel 1970. 

Concepita da uomini in gran parte influenzati dall'Illuminismo – ignoranti di ecologia e timorosi dell'eccessiva autorità – la Costituzione degli Stati Uniti, per esempio, non dà alcun “fondamento chiaro, non ambiguo e testuale per una legge di protezione federale dell'ambiente”, nelle parole dello studioso di diritto Richard Lazarus. Essa privilegia “la legislazione decentralizzata, frammentata e incrementale... che rende difficile affrontare problemi in modo complessivo e olistico”. Comitato delle giurisdizioni del Congresso basati sul fatto che la Costituzione frammenta la responsabilità e i risultati legislativi. La Costituzione dà troppo peso ai diritti privati al contrario dei beni pubblici. Non menzione né l'ambiente né la necessità di proteggere i suoli, l'aria, l'acqua, la natura selvaggia e il clima – e non offre quindi nessuna base inequivocabile per la protezione ambientale. La clausola del commercio – la fonte di grandi statuti ambientali – è una base legale ingombrante e scomoda per la protezione ambientale. Il risultato, osserva Lazarus, è che “le nostre istituzioni legislative sono particolarmente inadatte per il compito di considerare i problemi e di creare le soluzioni legali della dimensione spaziale e temporale necessaria per la legge ambientale. (9) In altre parole, il nostro modo di governare è spesso ecologicamente distruttivo.

La Legge di Politica Ambientale Nazionale (1970) puntava a rimediare a tali mancanze. Richiedeva a tutte le agenzie federali di “utilizzare un approccio sistematico ed interdisciplinare che assicurerà l'uso integrato delle scienze naturali e sociali e le arti di progettazione ambientale nella pianificazione e nel prendere decisioni”. La Legge richiedeva pianificazione sistemica, ma oltre ai requisiti per le valutazioni di impatto ambientale per i progetti finanziati a livello federale, non aveva potere. Con poche eccezioni, le cose sono andate avanti come prima. Il risultato è questo, nonostante il gran parlare di sistemi, continuiamo ad amministrare, organizzare, analizzare, gestire e governare sistemi ecologici complessi come se fossero una raccolta di parti isolate e non una unione indissolubile di energia, acqua, suoli, terra, foreste, biota ed aria. L'idea della sostenibilità sembrerebbe implicare che il rimedio sia un approccio sistemico alla gestione ambientale, ma la realtà è diversa. Gli sforzi in direzione della sostenibilità sono a loro volta negli argomenti specifici di energia, agricoltura, inquinamento dell'aria, inquinamento dell'acqua, silvicoltura, edilizia verde e così via, così che le parti non sostengono un intero più ampio. Tuttavia, la biosfera ed i suoi ecosistemi costituenti sono indifferenti alla mera convenienza umana e alle illusioni, spietata con la tracotanza e senza rimorsi nell'esigere ciò che le è dovuto. Coma qualcuno una volta ha detto, “Dio potrebbe perdonare i nostri peccati, ma la natura no”.

Come viene applicata oggi la teoria dei sistemi?

Gran parte di ciò che abbiamo imparato sulla gestione dei sistemi reali è cominciato con l'agricoltura, in particolare col lavoro dell'orticoltore Liberty Hyde Bailey, dell'agronomo Albert Howard in India, del forestale Aldo Leopold, degli agro-ecologi Miguel Altieri e Stephen Gliessman, del genetista delle piante Wes Jackson, dell'esperto di gestione Alan Savory e da agricoltori ecologicamente esperti come Joel Salatin. La lezione più importante che viene dal loro lavoro collettivo è che la terra è un organismo che si evolve composto della parti interconnesse di suoli, idrologia, biota, vita selvaggia, piante, animali e persone. Se la sostenibilità è l'obbiettivo, la terra non può essere gestita come una fabbrica né i profitti che genera essere misurati dai propri rendimenti a breve termine. Gestita come un organismo, la terra limita la dimensione e il tipo di pratiche di agricoltura e silvicoltura e alla fine delude tutte le aspettative che superano la sua capacità di carico. La buona gestione della terra richiede pazienza, una memoria affidabile a lungo termine, ampi margini altrimenti conosciuti come precauzione e, come ci ricorda Wendell Berry, amore.

E' vero che le redditività non può essere più alta del tasso al quale il Sole può essere trasformato in materiale vegetale e in carne animale senza diminuire la produttività futura. I termini rigorosi, una fattoria sostenibile è una tenuta in equilibrio da input naturali di luce solare, acqua, decomposizione di piante, letame animale ed una intelligenza osservatrice e competente sia dell'agricoltore sia della cultura rurale. Come i sistemi naturali che imita, una fattoria sostenibile è sempre una policoltura e dipende dalle sinergie fra le sue varie componenti, dai suoli ai microbi agli animali. L'agricoltura industriale, al contrario, è sussidiata da combustibili fossili, fertilità importata, gestione chimica degli infestanti e capitale preso in prestito. E' una parte dell'economia estrattiva che sfrutta suoli, minerali, geni e gente indifferentemente. Ed è sempre una monocoltura mirata a fare profitto sul breve termine. La differenza fra l'agricoltura industriale e quella ecologica le pone ai margini estremi di un continuum che definisce la resilienza.

L'edilizia ecologica è un'altra fonte di istruzione pratica sui sistemi. Fino all'avvento del movimento dell'edilizia verde, il processo avveniva in serie: gli architetti facevano il progetto di base e passavano i progetti agli ingegneri per scaldarlo, raffreddarlo, illuminarlo e sigillarlo. Questi, a loro volta, li passavano ai paesaggisti per far sì che sembrassero appartenere al luogo in cui la casualità dei prezzi dell'edilizia e spesso la cattiva pianificazione li avevano fatti cadere. Gli incentivi – finanziari, legali e di reputazione – richiedevano che la struttura fosse sovra-riscaldata, sovra-raffreddata e costruita in modo eccessivo – quindi eccessivamente costosa. Gran parte del profitto veniva fatto sull'eccessiva ridondanza, un po' come fare sedie con 8 gambe quando il carpentiere viene pagato per ogni gamba in più.


Foto: Stuck in Customs / Flickr. Cultivar di ‘Nastro Scarlatto' in Tasmania. Il termine “cultivar” è stato coniato la prima volta da Liberty Hyde Bailey, ed è definito come una pianta le cui origini o la cui selezione sono il frutto principalmente dell'attività umana. 

I primi progettisti ecologici come Sim van der Ryn, Bob Berkebile, Bill McDonough, Pliny Fisk e il Consiglio per l'Edilizia Verde degli Stati Uniti sono stati pionieri di un approccio diverso per progettare che ha ottimizzato l'intero edificio come un sistema, non come i suoi componenti separati. Un involucro dell'edificio più stretto e meglio isolato, per esempio, significava ridurre di dimensione i sistemi di aerazione, riscaldamento e di condizionamento d'aria e la riduzione dei costi di esercizio a lungo termine migliorando il comfort per gli esseri umani. Analogamente, l'illuminazione creativa della luce naturale ha migliorato l'estetica e la produttività degli occupanti, riducendo le bollette per l'illuminazione e, ancora una volta, i costi a lungo termine. Ma il beneficio più grande del “progettazione biofila” è stato il fatto umano stesso che siamo più felici, sani e più produttivi in luoghi accuratamente calibrati per i nostri cinque sensi. (10) Ci sono altre aree di applicazione della conoscenza sistemica, ma in confronto all'architettura, nessuna è così facile da afferrare o così persuasivamente istruttiva sui modi in cui possiamo migliorare la gestione di altri sistemi. Tuttavia, queste offrono intuizioni diverse.

Le fattorie ed i sistemi naturali operano ad una velocità d'orologio minore rispetto agli edifici. L'agricoltura richiede la pazienza appropriata per la stagione agricola e per i cicli che governano fertilità e fecondità. Possiamo manipolare alcune delle variabili inerenti all'agricoltura, ma gli schemi più ampi di suoli, idrologia, biota, natura selvaggia, meteo e così via hanno stagioni e cicli rispetto ai quali siamo stranieri e intrusi. Nella misura in cui possiamo gestire in assoluto, la prudenza ci imporrebbe di lasciare ampi margini per adattare la nostra ignoranza ed altre mancanze. Gli edifici, o ciò che goffamente chiamiamo “l'ambiente costruito”, dall'altra parte, sono creazioni umane. I progettisti sono protettivi dei propri misteri e dei funzionamenti interni in modi in cui non possiamo essere nei confronti dei sistemi naturali delle fattorie. Anche così, i costruttori vengono spesso sorpresi dal comportamento imprevisto dei sistemi meccanici, degli errori di progettazione e del comportamento umano in ciò che dovevano essere strutture ben progettate.

C'è una terza fonte di conoscenza dei sistemi disponibile nello studio del corpo. Walter Cannon in La Saggezza del Corpo (1932), per esempio, ha introdotto la nozione di “omeostasi” come modo di spiegare come “il materiale straordinariamente instabile” dei nostri corpi in “libero scambio col mondo esterno” persista miracolosamente per molti decenni. (11) Il professore di Yale e Fisico Sherwin Nuland, in un libro dallo stesso titolo, ha descritto in seguito (1977) il processo con queste parole: “Sempre in allarme per i pericoli onnipresenti all'esterno o all'interno, mandando incessantemente segnali mutualmente riconoscibili per tutta la sua immensità di tessuti, fluidi e cellule, il corpo animale è un dinamismo di consistenza responsabile. Con incalcolabili trilioni di agenzie di correttivi alimentati da energia, le alterazioni inappropriate vengono bilanciate e i cambiamenti sono o sistemati o messi nel modo giusto – tutto nell'interesse di quella stabilità equilibratrice che è la condizione necessaria dell'ordine e dell'armonia dei sitemi viventi complessi... La sua capacità di comunicare all'interno di sé stesso e con l'ambiente esterno è la base della sostenibilità di un animale di fronte alle molte forze incessanti che non smettono mai di minacciare la sua esistenza”. (12)

L'idea del corpo come sistema complesso potrebbe avere portato ad una visione sistemica della medicina e della cura, colmando il divario fra medicina occidentale ed orientale. Ma la pratica della medicina occidentale in quel momento era scrupolosamente riduzionistica ed immune all'insegnamento proveniente da altre culture. (13, 14) Immersi nella maniera occidentale della scienza, i fisici tendono ancora a diagnosticare le malattie senza cause profonde, a guarire malattie isolatamente come se il corpo fosse una macchina rotta e a prescrivere come se gli effetti dei medicinali non di propagassero in tutto il corpo. Il risultato è che le soluzioni spesso diventano la fonte di nuovi problemi e l'inizio di circoli viziosi. La stessa cosa, tuttavia, potrebbe essere detta di gran parte, se non di tutti, i campi di affari, economia, politica pubblica e tecnologia. Se applicato a fattorie, edifici o a corpi, il pensiero sistemico non è facile, ma l'essenza è l'interezza – vale a dire l'integrazione armoniosa delle varie componenti. E' evidente in diversi indicatori della salute: ecologico, sociale e umano. Così, cosa ci può insegnare il pensiero sistemico su come gestire meglio le aree urbane?

Città e pensiero sistemico

Per affrontare la domanda “che tipo di problema costituisce una città”, Jane Jacobs una volta ha scritto:

“Si dà il caso che le città siano dei problemi della complessità organizzata … presentando 'situazioni nelle quali una mezza dozzina o persino diverse dozzine di quantitativi variano tutti simultaneamente e in modi sottilmente interconnessi'. Le città, di nuovo come le scienze della vita, non mostrano un problema nella complessità organizzata, che se fosse capito spiegherebbe tutto. Possono essere analizzate in molti problemi o segmenti tali che, come nel caso delle scienze della vita, sono anche collegati fra di loro. Le variabili sono tante, ma non sono alla rinfusa. Sono 'interrelate in un intero organico”. (15)


Foto: cjuneau di Ottawa, CANADA / CC BY 2.0. Ciò che appare essere un campo di grano nel centro di Ottawa in realtà è un tetto verde in cima al Museo di Guerra Canadese.

La sfida, quindi, è quella di far transitare la complessità urbana costruita su un modello industriale e progettata per automobili, espansione e crescita economica verso luoghi coerenti, civili e duraturi. I governi urbani sono stati posti sotto stress in un mondo con più persone, più “cose” ed aspettative più alte – il tutto che si muove a velocità sempre maggiore. Nelle parole di Peter Senge, “la specie umana ha la capacità di creare di gran lunga più informazioni di quante chiunque ne possa assorbire, di favorire un'interdipendenza di gran lunga maggiore di quella che chiunque possa gestire e di accelerare il cambiamento in modo di gran lunga più veloce della capacità di chiunque di tenere il passo”. (16) Ai gestori dei sistemi urbani è richiesta la capacità di passare “dal vedere parti al vedere gli interi, dal vedere le persone come indifesi e reattivi al vederle come partecipanti attivi nel plasmare la loro realtà, dal reagire al presente al creare il futuro”. Tutto questo è più facile a dirsi che a farsi. Non giungerà come una sorpresa ai funzionari cittadini che le aree urbane, come ha scritto Donella Meadows, sono “sistemi di retroazione auto-organizzati, non lineari e sono intrinsecamente imprevedibili [quindi]... non possiamo mai capire pienamente il nostro mondo, non nel modo in cui la nostra scienza riduzionista ci ha portati ad aspettarci”. (1)

La gestione resiliente richiede la calibrazione di due tipi di sistemi non lineari: sociale ed economico, per esempio leggi, regolamenti, tassazione, politiche, elezioni e mercati coi sistemi ecologici, per esempio biologia, idrologia, geologia, natura selvaggia, climatologia ed uso della terra. Questi sistemi funzionano su scale temporali diverse e su processi diversi come parte di un intero che chiamiamo biosfera. Ma non sono uguali. Gli espedienti umani – economie, tecnologie, politiche e comportamento sociale – alla fine si devono adeguare alle realtà biofisiche o affrontare la disintegrazione. Le prospettive sistemiche e gli strumenti di gestione possono aiutarci ad affrontare meglio le complessità dei sistemi non lineari interattivi. Abbiamo progettato i sistemi dai quali siamo governati e riforniti e possiamo riprogettarli. Ma solo, nella parole della Meadows, se le persone che li gestiscono “fanno molta attenzione, partecipano a tutto spiano a rispondono alle retroazioni”. 

Una prospettiva sistemica alla gestione urbana è una lente attraverso la quale possiamo vedere più chiaramente nella nebbia del cambiamento e gestire potenzialmente meglio le complesse relazioni di causa-effetto fra i fenomeni sociali ed ecologici. Ciò aiuterebbe a compensare la nostra cronica incapacità di prevedere le conseguenze del nostro comportamento. La conoscenza della struttura del sistema e delle regole operative potrebbe aiutare a migliorare la resilienza in un modo che si scalda rapidamente disseminato di eventi di “cigno nero” e forse a prevedere conseguenze contro-intuitive che arriverebbero altrimenti come sorprese. L'applicazione dell'analisi sistemica non è una panacea, ma offre almeno sei possibilità di migliorare la gestione urbana. 

Per prima cosa, per affrontare un'opprimente cacofonia di dati grezzi, l'analisi sistemica può aiutare i governi ad organizzare le informazioni per distinguere i segnali ecologici dal rumore. Una città è una schiera complessa e confusa di input ed output: combustibili, cibo, materiali, acqua e così via entrano e biossido di carbonio, acque reflue, calore residuo, inquinanti, rifiuti e tutta una serie di altre cose escono. Se una città fosse posta sotto una cupola di vetro immaginaria con gli input e gli output che entrano ed escono in tubazioni chiaramente segnate, capiremmo questi flussi entropici e le loro interazioni in modo più diretto. E' possibile, tuttavia, capire meglio la città attraverso dei modelli che mostrano le transazioni ecologiche in modo tanto diligente quanto un contabile traccia i flussi di denaro. I modelli della città come sistema di input ed output ecologici sono uno strumento utile per mettere dati apparentemente sparpagliati e confusi nel loro contesto ecologico più ampio per migliorare le decisioni prese attraverso i settori, i dipartimenti e le agenzie. 

Secondo, i dati necessari per capire i flussi di risorse e il contesto ecologico allargato di una città possono essere diffusi per educare la cittadinanza a capire le relazioni fra il proprio comportamento e le proprie prospettivie ambientali ed ecologiche. L'uso di internet e la diffusione di schermi per il pubblico (lavagne) piazzate in edifici, chioschi cittadini, impianti sportivi, biblioteche, hotel e scuole per tracciare e mostrare i dati su flussi di risorse, emissioni di carbonio, investimento, modelli di uso del suolo, proprietà e atteggiamenti pubblici – e le loro interazioni – può essere uno strumento potente per educare i cittadini su retroazioni, contatti e ritardi fra azioni e risultati e per aumentare la comprensione dei problemi complessi. (17) Il risultato potrebbe essere un'educazione ampiamente accessibile e conveniente sulle dinamiche fondamentali delle interazioni biofisiche, sociali ed economiche. 

L'analisi sistemica può aiutare, per terza cosa, a migliorare la pianificazione e la previsione. I capi eletti in molte città post industriali come Detroit hanno dato per scontato che i bei tempi sarebbero durati per sempre e sono stati colti alla sprovvista quando sono finiti. L'uso di modelli che chiariscono gli assunti, identificano gli anelli di retroazione e monitorizzano il comportamento del sistema e le condizioni ecologiche, possono aiutare chi prende le decisioni ad prevedere meglio il cambiamento e a pianificare, tassare, fare il bilancio e fare politiche più intelligenti. Guardando avanti, le città in un mondo in rapido riscaldamento devono prepararsi a grandi tempeste, siccità più prolungate, interruzioni delle forniture e alla turbolenza economica. Queste, a loro volta, dovrebbero influenzare le decisioni su divisione in zone, uso della terra, locazione e tipologia di infrastruttura, codici di costruzione, fornitura di cibo, sviluppo economico, tassazione e preparazione alle emergenze. 

Quarto, gli strumenti dell'analisi sistemica possono aiutare a migliorare la qualità delle decisioni urbane. Per avere una patente di guida, per esempio, si deve fare un corso e passare un esame. Ma per i funzionari incaricati di gestire gli affari pubblici non è virtualmente richiesta alcuna prova di nessuna comprensione di base di come funziona il mondo come sistema fisico e delle dinamiche che governano le interazioni dei sistemi sociale e naturale. Saremmo giustificatamente intolleranti di fronte a funzionari che non fossero in grado di leggere o di contare, ma l'analfabetismo ecologico – un problema ugualmente grave – non causa nessuno sgomento di nessun genere. Come parte del loro orientamento di routine per il governo della città, ai funzionari – eletti e nominati – dovrebbe essere richiesto di superare un'esame di base in ecologia e dinamica dei sistemi. Se mai questo si dovesse realizzare, gli obbiettivi sarebbero (1) aumentare l'efficacia delle decisioni aumentando la consapevolezza di come funzionano le aree urbane come sistemi sociali ed economici che interagiscono con sistemi naturali e (2) di dotare i capi di strumenti di analisi e previsione migliori coi quali gestire gli affari pubblici. 

Quinto, l'analisi sistemica può aumentare il comportamento organizzativo. La capacità di rispondere alle retroazioni viene inibita da molti fattori. Può venire bloccata quando la paura, il pensiero di gruppo e la compiacenza paralizzano la presa di decisioni. Piuttosto che sopprimere il dissenso, l'analisi sistemica può aiutare a chiarire le differenze di opinione non prese in considerazione incorporate nei paradigmi competitivi e nei modelli mentali. David Cooperrider e Peter Senge hanno sviluppato delle tecniche per facilitare il pensiero sistemico a costruire una comunità organizzativa intorno a visioni comuni. Il loro obbiettivo è quello di permettere ai membri delle organizzazioni di vedere sé stessi come attori di un'impresa che prendono decisioni che comportano retroazioni, cambiamenti di passo, proprietà emergenti, riserve e flussi che aumentino la consapevolezza dell'agenzia nel causare una conseguenza piuttosto che un'altra. 

Infine, il pensiero sistemico può portare ad un maggiore realismo e a politiche pubbliche di precauzione per la semplice ragione che gran parte dei sistemi sono non lineari e pertanto intrinsecamente imprevedibili. Da una prospettiva sistemica, dovremmo progettare le politiche di tutti i tipi con ampi margini, previsioni coperte e ridondanza. Ogni soluzione specifica dovrebbe risolvere più di un problema senza causarne di nuovi. L'obbiettivo, in breve, è quello di costruire istituzioni ed organizzazioni più intelligenti e più adattabili, che siano in grado di imparare e prevedere, agenzie intelligenti e “resistenti all'errore”, nell'intersezione dell'azione umana e delle realtà biofisiche. Da una prospettiva sistemica, non esistono cose come gli “effetti collaterali”, solo le conseguenze logiche derivate da regole e comportamento del sistema. Cambiamento climatico, buchi nell'ozono, ammassi tumorali e vortici di rifiuti delle dimensioni del Texas che galleggiano nel mezzo dell'Oceano pacifico non sono effetti collaterali della crescita economica, la le conseguenze prevedibili di un sistema progettato per crescere a tutti i costi. Analogamente, da una prospettiva sistemica, esistono pochi incidenti – solo la mancanza di previsione istituzionalizzata è un errore nel modo in cui è organizzato un sistema specifico. Il punto, nelle parole di Senge, è che “tutti condividiamo la responsabilità dei problemi generati da un sistema”. 

Uno sguardo al futuro

L'obbiettivo dell'analisi sistemica e dell'apprendimento organizzativo non è solo di trovare un modo più intelligente perché le città ed altre organizzazioni facciano quello che hanno sempre fatto. Si tratta piuttosto di uno strumento per aiutare a riesaminare gli scopi e le prestazioni relative a circostanze complesse e in rapido cambiamento. Come ogni strumento, la sua efficacia dipende dall'abilità e dalla saggezza di chi lo usa. L'analisi sistemica non è magica, non può dirci cosa modellare o cosa vale la pena di fare e cosa non fare. Può aiutare a vendere più acqua zuccherata con caffeina nel mondo causando obesità, diabete e carie ai denti, oppure può aiutarci a capire perché queslla sia una brutta cosa da fare. Non renderà lo stupido e l'insensibile saggio e premuroso. Non ci dirà niente che si trovi al di fuori dei nostri paradigmi, delle nostre visioni del mondo e delle luci del nostro fuoco da campo personale. Si tratta, dopotutto, solo di uno strumento e non farà niente di più di quello che gli verrà chiesto e niente di più di quanto possa fare mai una qualsiasi tecnica culturalmente vincolata o temporalmente limitata. 

Dobbiamo fornire noi la compassione e il buon giudizio e interessarsi a sufficienza da voler sapere le conseguenze delle nostre azioni. Inoltre, non c'è niente di nuovo nel pensiero sistemico al di là del più alto livello di precisione e del potere analitico intrinseco della sofisticata modellazione computerizzata. Le prime società hanno creato modi complessi per prevedere e limitare certi comportamenti che potevano danneggiare le loro prospettive collettive. (18) Gli Amish ottengono molti degli stessi risultati mantenendo una cultura coerente e sobria (se non restrittiva). Alla fine, l'analisi sistemica applicata a livello di organizzazioni, città e governo regionale ci dà tempo finché il governi nazionali si si mettono al passo. Ad ogni livello, tuttavia, si tratta solo di uno strumento per chiarire le conseguenze delle nostre azioni, identificare le nostre opzioni e estendere un po' la nostra capacità di previsione. E non si tratta di piccoli vantaggi. 

Riferimenti

1. Meadows, Donella  Thinking in Systems 11 (Chelsea Green, White River Junction, VT, 2008).
2. Jervis, R. Effetti dei Sistemi 5 (Princeton University Press, Princeton, 1997).
3. Hardin, G. La Cibernetica della Competizione. Prospettive di biologia e medicina 7, 77 (autunno 1963).
4. Schultz, A. Raccolta di articoli privata per un corso all'Università della California, anni 70 e 80.
5. Buckley, W. Ricerca sui Sistemi Moderni per Scienziati Comportamentali (Aldine, Chicago, 1968).
6. Hoagland, E. Coas penserebbe Esopo di quello che facciamo al Pianeta. New York Times (24 marzo 2013).
7. Lazarus, RJ. Fare le Legi Ambientali 30, 33 (University of Chicago Press, Chicago, 2004).
8. Lazarus, RJ. Problemi super maligni e cambiamento climatico: limitare il presente per liberare il futuro. Cornell Law Review 94:1153, 1153-1234 (2009).
9. Lazarus, RJ. Problemi super maligni e cambiamento climatico: limitare il presente per liberare il futuro. Cornell Law Review 94:1153, 1153-1234 (2009).
10. Kellert, S. Progettazione biofila (John Wiley, New York, 2008).
11. Cannon, WB. La Saggezza del Corpo (Norton, New York, 1932, 1963).
12. Nuland, S. La Saggezza del Corpo 355-356 (Knopf, New York, 1977).
13. Kaptchuk, T. La ragnatela che non ha tessitore (Contemporary Books, New York, 2000).
14. Normile, D. La nuova faccia della medicina tradizionale cinese. Science 299, 188-190 (gennaio 2003).
15. Jacobs, J. La morte e la vita delle grandi città americane 433 (Vintage, New York, 1961).
16. Senge, P. La quinta disciplina 69 (Doubleday, New York, 1990, 2006).
17. vedi articolo di J. Petersen in questo numero.
18. Lansing, S e Clark, W. Preti e programmatori: tecnologie di potere in un panorama progettato (Princeton University Press, Princeton, 2007).