venerdì 13 marzo 2020

Il ritorno del Fato. Cosa fare quando nessuna scelta è soddisfacente?


di Jacopo Simonetta



L'idea alla base di questo articolo è dell'amico Nicolò Bellanca.

Si chiana “triage”. E’ ciò che viene fatto nei reparti di emergenza quando l’afflusso dei malati o dei feriti supera le capacità ricettive della struttura. I medici decidono allora chi soccorrere prima e chi dopo, se sarà ancora vivo. Ho sempre pensato che sia la cosa più brutta che possa capitare di fare ad un dottore, ma accade e i medici, come gli altri professionisti dell’emergenza (pompieri, militari, poliziotti, ecc.), sono almeno in parte preparati ad affrontare queste situazioni.

Noi gente normale no, ma non per questo possiamo esimerci dal fare delle scelte quando anche non-scegliere avrà comunque delle conseguenze.

Sta infatti svanendo la straordinaria bolla di pace e benessere che ha avvolto l’occidente per 70 anni, rendendoci completamente impreparati ad affrontare il concetto stesso di “tragedia”.

Non mi riferisco qui alle crisi di isterismo collettivo che ci travolgono ad ogni minima difficoltà, bensì all'incapacità di sostenere il peso della responsabilità di scelte che, qualunque cosa si decida di fare o di non fare, provocheranno gravi danni e sofferenze. Al di fuori della nostra fatiscente bolla, questo tipo di situazioni è invece frequente ed è stato magistralmente illustrato in molti capolavori della filosofia e della letteratura antica.

E’ la dinamica del Fato: gli uomini non sono semplicemente trascinati da un “destino beffardo”; al contrario sono chiamati a fare delle scelte le cui conseguenze saranno però ineluttabili, tanto che neppure Zeus le potrà modificare. Talvolta, fra la gamma di scelte possibili ve ne è almeno una che potrebbe porre fine alle sofferenze ad alla distruzione. Per esempio Paride potrebbe porre fine alla guerra concedendo ad Elena di tornare a Sparta; oppure Ettore potrebbe vincere, concedendo agli Achei una dignitosa resa ed il rientro in patria.

In entrambi i casi gli eroi fanno la scelta sbagliata e le conseguenze travolgono loro ed il loro popolo, ma non era inevitabile.

Vi sono invece casi in cui tutte le opzioni possibili avranno conseguenze disastrose e, ciò nondimeno, l’eroe deve decidere. Il dilemma di Oreste è paradigmatico: è suo sacro dovere vendicare il padre, ma ciò comporta commettere il sacrilegio di uccidere la madre e lui sa bene che qualunque cosa deciderà di fare le conseguenze saranno nefaste. Analogo dilemma dilania Antigone che deve scegliere se seppellire il fratello, contravvenendo ad un preciso ordine del suo re, oppure lasciarlo insepolto, contravvenendo ad un suo preciso dovere.

Questo tipo di dilemmi è il vero cuore della Tragedia che, non per caso, era strettamente correlata al culto di Dioniso: forse la più antica e certamente la più enigmatica delle divinità greche.

Abbiamo finto e continuiamo a fingere di essere immuni da questo genere di situazioni, ma la realtà sta bussando alla nostra porta sempre più forte e vistose crepe si sono già aperte nelle barriere fisiche e psichiche che abbiamo eretto contro di essa.

Facciamo un esempio facile del genere di scelte tragiche che comunque dobbiamo fare. Tassare i viaggi arerei in modo da ridurne drasticamente il numero avrebbe sicuramente impatti positivi sul clima, ma da subito si metterebbero in mezzo alla strada decine di migliaia di persone, la maggior parte delle quali difficilmente troverebbero un altro lavoro.

Dunque che fare? E’ solo un piccolo dettaglio del tema fondamentale che l’umanità si troverà ad affrontare da ora in poi: la decrescita reale, che si preannuncia assai più problematica di quella teorica.

Si può infatti discutere molto sui dettagli, ma nessuno in buona fede può negare che l’umanità, nel suo complesso, abbia largamente superato i limiti di sostenibilità del Pianeta. Per ricordare solo qualche cifra, oggi la tecnosfera (alias antroposfera, cioè l’umanità con tutte le sue infrastrutture ed i suoi simbionti) ammonta a circa 40.000 miliardi di tonnellate, pari a circa 4.500 tonnellate a cranio.

Noi ed il nostro bestiame domestico siamo il 98% circa della fauna terrestre, il 40% circa della superficie terrestre è totalmente artificializzata (urbano, suburbano, agricolo, ecc.), il 37% è composto da habitat naturali pesantemente modificati ad uso antropico (pascoli e la quasi totalità delle foreste), solo il 23% è ancora classificabile come “selvaggia” (alcune remote foreste, ma quasi esclusivamente deserti, vette montane e zone artiche). (dati IPBES Global Assessment on Biodiversity and Ecosystem Services 1919, Laboratory for Anthropogenic Landscape Ecology, 2020).

In mare va ancora peggio: si stima che solo il 13% degli oceani sia ancora sostanzialmente integro (dati IPBES Global Assessment on Biodiversity and Ecosystem Services 1919).

Ma tutte queste sono valutazioni molto ottimistiche in quanto fattori come il Gobal Warming e la connessa acidificazione dei mari, la diffusione globale di agenti inquinanti di ogni genere, il moltiplicarsi delle barriere agli spostamenti delle popolazioni selvatiche e la contemporanea diffusione di specie aliene, la pesca industriale e la caccia di specie rare, la moria globale degli insetti e degli anfibi, l’alterazione mondiale di praticamente tutti i cicli bio-geo-chimici ci dicono che la Terra è un pianeta su cui oramai vive praticamente una sola specie (Homo sapiens industriale, alias H. colossus sensu Catton), con i suoi simbionti, commensali e parassiti.

Tutto il resto sopravvive in condizioni di estrema precarietà negli interstizi della tecnosfera, ma sono solo ed esclusivamente questi superstiti che ancora assicurano che sulla Terra ci siano condizioni favorevoli alla vita biologica.

Questo significa non solo che una robusta decrescita è l’unica cosa sensata da fare, ma anche che è un fatto ineluttabile. Non possiamo in alcun modo evitarlo e rimandarlo serve solo a pagare un conto molto più salato, un poco più tardi.

La stragrande maggioranza delle persone rifiuta però questa prospettiva, preferendo immaginare modi anche molto ingegnosi per salvare capra e cavoli. Hanno delle ottime ragioni per farlo perché accettare l' "overshoot" comporterebbe di accettare il prezzo del “debito ecologico” che abbiamo contratto. Ovviamente lo pagheremo comunque, ma non posso dare torto a chi preferisce guardare da un’altra parte. Ho infatti l’impressione che, anche fra i “decrescisti”, siano pochi coloro che hanno riflettuto a fondo su quanto sarà necessario decrescere per stabilizzare il clima e fermare l’estinzione di massa.

Ovviamente una stima precisa non è fattibile, ma per farsi un’idea di larga massima facciamo un calcolo semplice semplice, usando i consumi di energia come indicatore degli impatti complessivi. E’ un’approssimazione, ma abbastanza vicina al vero.

A livello globale si stima che l’umanità abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70 del ‘900, quando i consumi globali di energia erano nell'ordine dei 70.000 TWh, mentre oggi sono di circa 165.000. Immaginiamo di tornare ai 70.000 di 50 anni or solo, quale sarebbe il consumo pro-capite? Dal 1970 al 2020 la popolazione umana è poco più che raddoppiata, il che vuol dire che per riportare i consumi globali vicino ai 70.000 TWh, la disponibilità pro-capite media dovrebbe scendere a meno di un quarto di quello che è adesso. Significa livelli di consumo analoghi a quelli che attualmente si registrano in Moldavia, Albania, Egitto o Nigeria, per fare degli esempi. Parlando dell’Italia, significherebbe tornare a consumi pro-capite di livello ottocentesco, senza considerare che, probabilmente, società così povere non sarebbero in grado di produrre le tecnologie che consentono di vivere a 8 miliardi di persone, a cominciare dalle sofisticate apparecchiature necessarie per convertire in elettricità la luce del sole ed il vento.

Con ciò non voglio dire che fra X anni andremo avanti con candele e cavalli, voglio solo chiarire che non si tratta di rinunciare al superfluo, bensì di rinunciare a quasi tutto ciò che riteniamo indispensabile o un diritto acquisito, a cominciare da un’aspettativa di vita ultraottantenne.

Questo apre una vasta gamma di questioni con cui, volenti o nolenti, ci dovremo confrontare perché quando la coperta diventa troppo corta, si deve per forza scegliere se scaldare i piedi oppure le spalle. Che, tradotto in termini reali, significa decidere chi dovrà essere sacrificato affinché gli altri abbiamo maggiori probabilità di cavarsela.

Un esempio pratico del tipo di scelte che sempre più spesso saremo chiamati a fare ci viene proprio in questi giorni dalla diffusione dell’epidemia di Covid-19. Abbiamo visto che è particolarmente infido perché si diffonde facilmente e che comporta una mortalità ridotta, a condizione però che siano disponibili cure costose e lunghe.

Abbiamo molte scelte possibili. - Possiamo cercare di fermare il contagio in tutti i modi, ma questo avrebbe delle ricadute economiche devastanti che potrebbero anche proiettare l’economia mondiale in una crisi ben peggiore di quella del 2008. - Posiamo mantenere operativi i principali flussi economici, ma questo comporterebbe un aumento molto maggiore dei contagi e, quindi, costi sanitari che potrebbero mandare in bancarotta interi stati. Senza contare che la saturazione degli ospedali comporterebbe anche un marcato aumento della mortalità. - Possiamo anche far finta di nulla e seppellire i morti alla chetichella, ma non possiamo prevedere quanti sarebbero, né le conseguenze del panico che travolgerebbe il mondo ben più di adesso. - Possiamo cercare dei compromessi fra le diverse opzioni, ma non possiamo comunque evitare che ci siano conseguenze molto gravi, in gran parte imprevedibili.

Un altro esempio anche più brutale è il dramma che si sta consumando in questi giorni al confine fra Grecia e Turchia. Indipendentemente dalla complicata storia che ha condotto decine di migliaia di persone a cercare di forzare i reticolati, ci troviamo di fronte un una classica scelta tragica. - Possiamo accogliere i profughi, ma questo avrebbe conseguenze sociali e politiche devastanti in Europa (non c’è bisogno di fare delle ipotesi in proposito perché abbiamo già fatto l’esperimento nel 2015). 
 
  • Possiamo respingerli, ma questa è gente che non può tornare in Siria dove i governativi li ammazzerebbero, né può restare in Turchia perché i turchi li scacciano. 
  • Possiamo confinarli in dei “campi di accoglienza” che sarebbero dei campi di prigionia a tempo indeterminato. 
  • Possiamo accontentare Erdogan affinché se li ripigli ed appoggiarlo nella sua guerra contro la Siria. 
  • Possiamo pensare anche ad altre soluzioni, ma qualunque cosa sia realisticamente fattibile comporterebbe delle conseguenze tragiche per qualcuno.

Ci sono molti altri campi in cui si presentano dilemmi analoghi: come si affronta la situazione? Perché, alla fine, ognuno di noi dovrà trovare un compromesso fra il proprio modello mentale del mondo e la realtà fisica che sta tornando prepotentemente nelle nostre vite, finora tranquille.

Direi che abbiamo sostanzialmente due scelte:

La prima è negare uno o più parti del puzzle, così da semplificarlo e ripristinare la tranquillizzante dinamica dei buoni contro i cattivi. A questo punto si tratta di scegliere il proprio campo e quindi pensare che non funzioni per colpa degli altri, qualunque cosa accada.

La seconda è prendere atto che in molte questioni chiave del presente e del prossimo futuro abbiamo diverse opzioni possibili, ma nessuna che non comporti grossi danni e sofferenze di cui saremo co-responsabili, anche se si sceglierà di non scegliere perché, comunque, ci saranno delle conseguenze dolorose. Proprio come fu per Oreste e Antigone.