venerdì 25 ottobre 2019

L'utopia oltre lo specchio



Quando terminai il mio libro ‘Il Secolo Decisivo: storia futura di un’utopia possibile’, l’utopia era lì, a un palmo dal mio naso, pronta per essere afferrata e trascinata a forza nella realtà. Un anno dopo, appare in qualche modo allontanarsi. La chiamo, lei si gira. Mi guarda con un’espressione fra speranza e rassegnazione, il volto stanco, come quello di chi crede in un sogno ma è consapevole dell’entità degli ostacoli. E cosi ci guardiamo l’un l’altra, occhi negli occhi. ‘Mi hai mentito?’ le chiedo. Silenzio.
L’utopia, scrisse una volta qualcuno, è la realtà che si guarda allo specchio senza trucco, e rivela a se stessa il proprio inganno. Oppure era il contrario? Quando immaginiamo un’utopia o osserviamo la realtà proiettiamo qualcosa nello specchio, è certo: una cosmesi fatta di speranze e paure, informazioni parziali e convinzioni precarie, di cui non siamo del tutto consapevoli. E poi dimentichiamo di togliere il trucco, e scambiamo lo specchio per una finestra sul futuro o sul presente. Ma se utopia (e realtà) è un riflesso di noi stessi, non possiamo giudicarla al di fuori di noi. Ovvero: l’utopia di qualcuno è la distopia di qualcun altro. Una Terra senza esseri umani: un eden per gran parte degli esseri viventi che popolano il pianeta. Il sistema socio-economico vigente: un paradiso per chi si trova nel giusto emisfero e ha il giusto numero di zeri sul proprio conto in banca. L’utopia del mio libro, invece, nasce come un compromesso: alcuni ci perdono, ma in generale gli esseri umani ne uscirebbero più felici, vedendo garantita la propria sopravvivenza sul lungo periodo. Sfortunatamente, coloro che oggi posseggono il potere necessario a cambiare le cose sul serio sono anche quelli che più avrebbero da perderci nel farlo.
Perché ha due facce, utopia, ed è futile negarlo: una è idee e progetti, e si può riversare nelle pagine di un libro. L’altra è azione ed opere, e ha poco a che vedere con inchiostro e tastiere. Una è il sogno, l’altra è la realizzazione del sogno: un non-luogo che diventa possibile abitare solo attraverso il lavoro e l’impegno di molti. Il problema, privilegiati a parte, è convincere le persone ad agire per il giusto cambiamento. Sì, giusto, perché anche un ritorno al fascismo rompe con lo status quo, ma chi lo vuole un ritorno al fascismo (elettori italiani esclusi)?
Convincere la gente circa la necessità di un cambiamento è in realtà poca cosa. Oh, la gente è già convinta, convintissima! Non importa nemmeno quale, purché sia un cambiamento. Ciò che manca è un dibattito informato su quali cambiamenti sono migliori, o almeno più auspicabili, di altri. Se tale dibattito non esiste al di fuori di taluni circoli accademici e intellettuali, è perché esigerebbe di gettare luce su due elementi che la ´politica del cambiamento´ ama nascondere sotto il tappeto: i costi che suppone una reale transizione a un modello alternativo, da una parte, e i pregi del sistema vigente, dall’altra. Che il modello socio-economico attuale non sia il male assoluto e che il paese delle meraviglie faccia pagare il biglietto d’ingresso sono verità che la gente non vuole assolutamente sentire. Gli assoluti sono più facili da digerire, e non confondono. Male assoluto o sogno ad occhi aperti. Il primo fornisce un nemico esterno, facilmente strumentalizzabile a fini politici, il secondo una comoda via di fuga dalla realtà. Entrambi sono illusioni, per distogliere lo sguardo dal qui-e-ora.
L’utopia, quella possibile, non può invece cedere al sogno. Non può essere un punto d'arrivo, ma solo un sentiero (da seguire adesso, cautamente e con mente critica). È instabile, e viene cancellata dal tempo, se si attende troppo a lungo, confusa dal procedere incessante delle illusioni della politica. Non è perfetta, perché è possibile. La sua risposta alla mia domanda è quasi impercettibile nel clamore del presente, ma non un silenzio. No, ora lo so. La risposta, inutile dirlo, siamo noi.