sabato 12 ottobre 2019

Il Prezzo per la Vita è la Morte. Come Mantenere i Servizi Ecosistemici.


Al netto di qualche ricercatore e di pochi professionisti, nessuno in fondo sa cosa siano i servizi ecosistemici e nemmeno gli interessa saperlo.   Eppure un sacco di gente (funzionari, professionisti, politici, sacerdoti ecc.) se ne occupano senza nemmeno saperlo, di solito per demolirli.     
Perfino per chi li studia è difficile parlarne.  Perché?

Una risposta parte, credo, dalla struttura del nostro sistema nervoso.   

Mi risulta che il nostro cervello riesca a processare circa 500 bit al secondo, mentre gli organi di senso ne inviano parecchie migliaia, che già sono una minima parte dell’informazione presente intorno a noi.   Per evitare un blocco per “overflow”, ci sono dunque dei filtri che selezionano le informazioni più urgenti prima che sia raggiunto il livello cosciente.   Una funzione questa presente in tutti gli animali e che evolve coi tempi della biologia, dunque centinaia di migliaia di anni.
Da sempre le informazioni più urgenti sono quelle che riguardano oggetti in movimento.  Per i nostri avi qualcosa che si muove era qualcosa che potevi mangiare, o qualcosa che ti poteva mangiare.   Per noi è magari un’auto che ci viene addosso, ma resta il fatto che prestare attenzione a ciò che si muove è generalmente interessante, spesso salubre.   Di qui la nostra attenzione agli animali assai più che alle piante ed alle piante più che alle pietre.  Di qui il successo degli youtuber, assai più che degli scrittori.   Il successo dei videogiochi, ecc.   

Siamo perfettamente adattati a individuare opportunità a minacce impellenti, quando si muovono, mentre siamo quasi del tutto disarmati quando le opportunità e le minacce vengono da qualcosa di scarsamente visibile, poco rumoroso e/o  molto lento.
Il problema sorge dal fatto che non sempre l’urgenza coincide con l’importanza e qui arriviamo ai servizi ecosistemici.   Non ci facciamo mai caso, addirittura ci viene difficile osservarli anche quando vogliamo, perché sono qualcosa che il nostro cervello automaticamente elimina dal flusso di bit come “rumore di fondo”.  Con ragione, perché sono li da sempre e, su scala globale, finora pressoché immutati.   Il guaio è però che non saranno lì per sempre e che non sono immutabili.  Non a caso, cominciamo ad accorgerci di essi adesso che hanno cominciato a venire meno.

Per fare un’analogia, le persone che vivono vicino ad una cascata o ad un’autostrada non odono il rumore dell’acqua o del traffico, ma si allertano immediatamente se per qualche ragione quel suono così abituale cambia o vien meno.  

I servizi ecosistemici sono così: ti accorgi di loro solo quando non ci sono più.  Ci succede un poco come a quelli che si accorgono della moglie solo quando se lei ne è andata; solo ma senza moglie si può vivere, senza servizi ecosistemici no.  E difatti, se andiamo a studiare le civiltà scomparse, troviamo che sempre, sottostante la crisi che le ha travolte, c’è stato un consistente venir meno dei servizi ecosistemici.

Dunque cosa sono?

Tutto ciò che ci mantiene in vita.  Per esempio energia, acqua, aria, cibo, clima non sono prodotti del nostro ingegno e del nostro lavoro, bensì del funzionamento degli ecosistemi di cui siamo parte.  Ingegno e lavoro contano, ovviamente, ma nella misura in cui riescono ad estrarre qualcosa di utile dal funzionamento della biosfera.  Vale a dire che i servizi ecosistemici sono il risultato complessivo di una miriade di costanti interazioni fra organismi viventi, rocce, acqua, aria ed astri celesti che conosciamo solo in modo molto parziale. 
Vediamone meglio alcuni:

Energia.  Quasi 8 miliardi di noi vivono su questo pianeta dissipando l’energia messaci a disposizione dagli ecosistemi.   Per le fonti fossili (petrolio, gas e carbone) si tratta del prodotto della fotosintesi in ere geologiche passate; biomassa e cibo sono invece prodotti della fotosintesi attuale.  La luce del Sole viene filtrata da un’atmosfera che è il risultato di miliardi di anni di fotosintesi e,  senza questi filtri, ben poco di vivente ci sarebbe sulle terre emerse.   Annualmente consumiamo l’energia fossile accumulatasi in molte centinaia di migliaia di anni di fotosintesi  del passato oltre a circa il 50% della biomassa prodotta dalla fotosintesi attuale.  A far data dall’ “Overshoot day” consumiamo anche quota parte del capitale di biosfera che ci fornisce quell'energia, riducendone quindi la produzione.  Un po’ come qualcuno che ogni anno spenda più di quel che guadagna, attingendo ad un capitale ereditato degli avi.

Acqua.  A scuola ci insegnano che l’acqua è una risorsa rinnovabile perché ricircola costantemente fra il mare e la terraferma.   Vero, ma allora come mai in quasi tutto il mondo la portata di fiumi e sorgenti diminuisce; le falde acquifere sono più o meno depresse ovunque?   Semplice: perché ne pompiamo in mare più di quanta non riesca a tornare indietro e, contemporaneamente, smantelliamo pezzo per pazzo il sistema che porta la pioggia nell'entroterra.   Il ciclo dell’acqua infatti funziona a condizione che vi siano degli ecosistemi funzionanti, in particolare foreste, laghi e paludi, altrimenti le precipitazioni diventano scarse ed irregolari.  

Il meccanismo è complesso e ancora non del tutto compreso, ma in sintesi, l’acqua che evapora dal mare ripiove in mare, salvo una percentuale che piove sulle zone costiere.  Se qui viene intercettata e trattenuta dalla vegetazione e dalle paludi, rievapora e piove più verso l’interno e così via.  Altrimenti se ne torna presto in mare e amen.

I fiumi rappresentano il “troppo pieno” di questo sistema, le falde acquifere sono invece le riserve che possono tamponare le fluttuazioni temporanee, a condizione di non venire prosciugate e/o inquinate. La tecnologia e l’energia fossile ci permettono di andare a pompare riserve sempre più profonde, dimenticate dal tempo, ma meglio ci riesce di fare questo, più alteriamo irreparabilmente il ciclo, spostando acqua dalla terraferma al mare, senza che possa poi tornare.

Certo, questo è solo uno schema e si applica in modo molto di verso a seconda delle regioni e delle stagioni, ma resta sempre valido il fatto che quando la portata dei fiumi diminuisce, significa che abbiamo già superato la soglia di pericolo.  L’unica cosa intelligente da fare sarebbe ridurre i consumi ed aumentare foreste e paludi.  La cosa più stupida è pompare di più e più in profondità, anche se può essere molto redditizio.

Aria.  La composizione dell’atmosfera ha alcune implicazioni su cui raramente si riflette. Rende possibile alle piante di fotosintetizzare ed a praticamente tutto ciò che vive di respirare, ma non solo.  Come abbiamo accennato, filtra i raggi cosmici, impedendo che le cellule vangano uccise ed assicura al Pianeta una temperatura media compatibile con la presenza di acqua allo stato liquido e di vita biologica.  Una composizione dell’atmosfera relativamente costante è un servizio eco-sistemico. 

Qualcuno comincia a rendersi conto che averla alterata anche di poco sta scatenando una specie di anteprima d’inferno in molte regioni.   Questa alterazione deriva solo in parte dalla combustione di biomassa fossile; per una parte consistente deriva da disboscamento e incendi, degrado dei suoli ecc.  
Su quali siano le rispettive percentuali non c’è accordo fra i ricercatori, ma che siano entrambe determinanti è assodato.   Quello su cui non si riflette abbastanza è che tutto ciò ha già scatenato una serie di retroazioni auto-rinforzanti di ulteriore riscaldamento e che solo ed esclusivamente il ripristino dei servizi ecosistemici potrebbe, forse, fermare prima che la maggior parte del pianeta diventi un deserto.  Quindi, abbiamo bisogno soprattutto di foreste e paludi.

Cibo.  In effetti, oggi la base alimentare dell’umanità è costituita da petrolio e gas naturale, ma per rendere digeribile questa roba abbiamo bisogno di trasformarla in tessuti vegetali o animali sfruttando dei servizi ecosistemici.   E troppo petrolio e gas stanno demolendo pezzo per pezzo gli ecosistemi che ci forniscono questo servizio.  Per non parlare dell’effetto definitivo rappresentato da quella coltre di cemento ed asfalto che siamo soliti chiamare “città”.

Clima.   Già molto tempo fa, gli storici si sono accorti che le società complesse, capaci di produrre quelle che chiamiamo “grandi civiltà”, sono sempre state vincolate ad aree caratterizzate da clima mite.   Il motivo è semplice e non c’entra con l’intelligenza umana, semmai con la stupidità.  Un clima temperato è infatti un presupposto per suoli non solo fertili, ma anche dotati di una forte resilienza allo sfruttamento agricolo, a sua volta presupposto per il sostentamento di elevate concentrazioni di persone e, quindi, per lo sviluppo di società complesse, in grado di produrre i capolavori di arte e di scienza che tanto ci affascinano.   Non a caso, man mano che i suoli sono stati erosi ed il clima è diventato più ostile, le “società avanzate” sono fiorite altrove, tendenzialmente più verso nord, laddove il clima era ancora compatibile con elevate densità di popolazione.

Proprio ora, per la prima volta nella storia, climi e suoli stanno diventando inadatti a sostentare una società numerosa e tecnologicamente avanzata in praticamente tutto il mondo contemporaneamente. Si, perché la tecnologia, tanto più è avanzata, quanto più ha bisogno di una base sociale numerosa, il che significa dare da mangiare e da bere alle tante formichine che concorrono a far funzionare una grande città.   Mangiare e bere che sono servizi ecosistemici che la città sistematicamente distrugge.

Sostituire i servizi ecosistemici

Si possono costruire depuratori per riciclare l’acqua, si possono sintetizzare fertilizzanti per produrre cibo su terreni esausti; plastiche e metalli possono sostituire il legno, anzi fare di meglio assai.  Si sono costruite macchine che possono produrre elettricità senza emissioni climalteranti e perfino macchine che pompano CO2 dall’atmosfera nelle viscere della Terra.  Certo, ma tutto ciò ha dei costi.   

Costi in primo luogo energetici, perché mentre la fotosintesi trasforma CO2 in biomassa usando la luce del sole, le nostre macchine sono alimentate comunque da combustibili fossili ed è quanto meno improbabile che si possa fare altrimenti.   Oggi, le fonti rinnovabili coprono infatti meno del 10% del consumo globale (5% idroelettrico, 3% eolico, 2% solare) ed esistono solo grazie ad un’industria potentissima che usa grandi quantità di materiali.   Incrementarne l’uso per sopperire ai consumi attuali comporterebbe l’estrazione ed il consumo di milioni di tonnellate di cemento, acciaio, rame eccetera, compresi parecchi minerali rari provenienti da immense miniere poste ai quattro angoli del mondo.   L’unico modo di ridurre sensibilmente le emissioni climalteranti sarebbe tagliare drasticamente i consumi finali, cioè liquidare buona parte dell’industria e tutte le grandi città, per poi fare i conti con la mostruosa sovrappopolazione che ottenebra il Pianeta e che continuiamo ad ignorare.
Costi finanziari.  Se a qualcuno sembra di dover correre sempre di più per ottenere sempre di meno non è pazzo.  Anzi è uno dei pochi che si è accorto di un fenomeno ben reale: in gergo si chiama “Sindrome della Regina Rossa”.  Ci sono diversi fattori concomitanti e sinergici alla base di questo fenomeno, ma i principali sono due:
Il primo è il degrado qualitativo delle risorse energetiche e minerarie che ci costringe a scavare, pompare, trasportare sempre di più per ottenere ciò che ci serve.  Detto in altri termini, lo sforzo di produzione cresce più rapidamente del prodotto.

Il secondo è il venire meno dei servizi ecosistemici, che ci costringe a ricorrere a succedanei tecnologici.  Macchine ed impianti però costano ed i soldi vengono prodotti dalle banche mediante l’accensione di debiti e che devono poi essere restituiti con l’interesse, altrimenti il sistema grippa ed il denaro scompare.   Per pagare gli interessi è necessario che l’economia cresca, solo che il degrado delle risorse ed il venir meno dei servizi ecosistemici si mangiano parte crescente della produttività, lasciando sempre meno per la crescita.

I servizi ecosistemici, invece, sono gratis.  Ma lo sono davvero?  Come disse giustamente Milton Friedman:  In Natura non esistono pasti gratis”.  E quale è allora il prezzo da pagare?  

Il prezzo è accettare di rimanere degli elementi marginali della Biosfera.   

Oggi però noi, i nostri simbionti e le nostre escrescenze di acciaio, vetro, catrame e cemento, copriamo circa il 50% circa delle terre emerse; il 100% se consideriamo che oramai qualunque angolo della Terra è sfruttato per qualcosa e/o inquinato da qualcosa: dalla troposfera agli abissi oceanici.

Teoricamente sarebbe possibile un “rientro”, ma oramai non “dolce”.   Bisognerebbe infatti che i ricchi accettassero di diventare poveri ed i poveri di restare tali, bisognerebbe anche che tutti accettassimo di fare al massimo due figli e di morire alla prima malattia seria che ci prende.  

Alla fine, il prezzo per la vita è la morte. Non possiamo non pagarlo, ma possiamo scegliere se andarcene tranquillamente, alla spicciolata, oppure se ardere l'intera Biosfera e noi stessi sulla pira.