domenica 3 febbraio 2019

Guerra e sovrappopolazione.

di Jacopo Simonetta

La guerra sta tornando d’attualità. Molti ne parlano e si chiedono se dove scoppierà la prossima "Grande Guerra".  Ovviamente, non è possibile fare previsioni, ma si possono valutare i livelli di rischio, tenuto conto di una serie di parametri fra cui la demografia che, però, viene spesso trattata con superficialità.  Il "numero" non sempre "è potenza" e può anzi essere una fatale debolezza; dipende non tanto da quanta gente c'è, bensì da come la crescita demografica si interseca con quella economica, oltre che con i parametri politici, tecnologici e militari.   Vediamo di fare un poco di chiarezza, cominciando a capire che cos'è la "sovrappopolazione", perché non è così banale come potrebbe sembrare.

La sovrappopolazione negli altri animali.

Negli altri animali le cose sono relativamente semplici, almeno sul piano concettuale.  La sovrappopolazione è il fenomeno che si verifica quando il numero di capi supera la capacità di carico del territorio; vale a dire la locale disponibilità di risorse (cibo, acqua, rifugio, tranquillità, ecc.).  Normalmente negli ecosistemi naturali non ci sono problemi con i rifiuti che sono risorse per altri elementi della biocenosi.

Di solito, le popolazioni non superano la soglia della propria sostenibilità perché ne sono impedite dalla crescente efficacia di una serie di retroazioni negative (peggiore alimentazione, peggiori rifugi, maggiore predazione, epidemie, ecc.).
Se la popolazione si mantiene a lungo vicino alla capacità di carico, una parte dei giovani emigra, in cerca di nuovi territori.  Di solito muoiono presto, ma alle volte fondano nuovi nuclei vitali e l’areale della popolazione si espande.   Il ritorno del lupo in gran parte d’Europa ha seguito questo schema, grazie alla presenza di vaste superfici boschive ed all'abbondanza di ungulati selvatici.

Talvolta però, inconsuete combinazioni di eventi, o la particolare biologia di alcune specie, portano a superare la fatidica soglia, causando un degrado dell’ecosistema.   La conseguenza è sempre una morìa che è tanto più grave quanto più è ritardata.   Anche le leggendarie “migrazioni” dei lemming sono in realtà delle ecatombe perché quasi nessuno degli individui che partono sopravvive abbastanza da riprodursi.   Nelle locuste migratrici poi, lo sciame migrante è addirittura composto da individui sterili.

Il punto importante è che, per ogni giorno in cui la popolazione rimane al di sopra della propria capacità di carico, l’ambiente si degrada riducendo la capacità di carico stessa. Spostando cioè al ribasso il livello di equilibrio che si dovrà necessariamente raggiungere.

Come dire che più precoce e più rapido è il colpo di falce, minore è il numero dei morti necessario per salvare la popolazione.

Questo lo sanno tutti ed è per questo che parlare di sovrappopolazione umana è così allergenico.

La sovrappopolazione umana.

Nella nostra specie la dinamica ecologica accennata sopra rimane valida, ma ad essa si sommano molte altre variabili che complicano notevolmente il quadro.  Vediamo i principali ordini di fattori coinvolti.

Risorse.  Lo abbiamo in comune con le altre specie, ma per noi è molto più complesso in quanto la nostra vita dipende da un economia e da una tecnologia senza precedenti che richiedono un flusso continuo di praticamente qualunque cosa esista ed in particolare di energia.   Cioè la nostra specie è l’unica ad essere letteralmente “onnivora” e questo ci rende una vera e propria “mina vagante” all'interno della Biosfera.

Discariche.  Al contrario degli altri animali, molto spesso per noi il principale fattore limitante non è la carenza di risorse, bensì l’inquinamento provocato dal loro consumo.  Il Global Warming ed il buco nello ozono sono dei casi ben noti, ma certamente non i soli.

Cultura e religione.  Le credenze considerate identitarie hanno un forte impatto sulle scelte umane, compresi il comportamento riproduttivo e la predisposizione alla violenza.  Possono cambiare, ma solo se vengono sostituite con una diversa fede (anche laica) altrettanto profondamente sentita.   Diversamente dagli altri animali, fra la propria vita e la propria identità culturale, spesso l’uomo sceglie la seconda, magari senza rendersene conto.

Struttura sociale.  In particolare, il grado di autonomia delle donne nel decidere di se stesse ha un forte impatto sulla natalità che risulta minore nelle società meno discriminatorie nei confronti delle femmine.   Invece, la longevità degli anziani dipende soprattutto da fattori economici e ambientali.  La possibilità di migrare dipende, infine, da un complesso di fattori politici e militari; tutti fattori che hanno molto a che fare anche con la predisposizione alla violenza.

Dinamica e struttura demografica.  Rispetto alle altre grandi scimmie, l’uomo è potenzialmente molto longevo, cosa che gli consente di avere tassi di crescita demografica molto rapidi malgrado la relativamente bassa natalità e la lunghezza del periodo prepuberale.   Un’altra caratteristica, questa, che contribuisce a rendere la nostra specie particolarmente destabilizzante.

Il punto qui fondamentale è però che, quando la popolazione comprende una maggioranza di giovani, la società è strutturalmente turbolenta e facilmente vira alla violenza anche estrema.   Secondo Gaston Bouthoul (padre della "polemologia") il cosiddetto “bubbone giovanile” è l’unico ingrediente comune a tutte le guerre conosciute.  Diciamo che costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente allo scoppio di conflitti che abbiano impatti demografici significativi.

Economia. La crescita economica scatena la crescita demografica, fra le due si attiva quindi una retroazione positiva che dura finquando gli altri fattori lo consentono.  Prima o poi la crescita economica però rallenta e finisce, mentre la crescita demografica continua ancora per qualche tempo, erodendo il benessere acquisito nella fase precedente e generando quindi miseria, paura e rabbia. Cioè creando i presupposti per scoppi di violenza di vario genere.  Esattamente quello che sta accadendo a noi proprio adesso.

Tecnologia.  La tecnologia non consente di ricreare le risorse distrutte, ma consente di usarne di nuove e/o di sfruttare con maggiore efficienza quello che resta.  Il suo effetto è quindi quello di aumentare la capacità di carico umana, ma a costo di erodere lo spazio ecologico delle altre specie.   Migliore è la tecnologia disponibile, più ampia è la nostra nicchia ecologica, a scapito di tutte le altre.
Inoltre, la tecnologia evolve in tempi inimmaginabilmente più rapidi di quelli dell’evoluzione biologica, col risultato di fare della nostra specie un’entità sempre e comunque aliena e sovversiva di biocenosi che, al contrario, sono di solito costituite da popolazioni coevolutesi le une in funzione delle altre per tempi lunghissimi.

Finora, il progresso tecnologico è proceduto a passo di carica grazie alla sinergia fra esso ed un flusso crescente di energia netta per alimentare la tecnologia stessa.  Una sinergia che però sta entrando in crisi con l’irreversibile degrado quali-quantitativo delle fonti energetiche.  Questo apre scenari nuovi e preoccupanti circa la competizione per le risorse rimaste e, in una prospettiva leggermente più lunga, per il livello tecnologico delle società del prossimo futuro.

Comunque, il punto fondamentale  è che se cresciamo tanto da far collassare i servizi ecosistemici vitali (tutti dipendenti da specie non umane), ci condanniamo da soli all'estinzione. Quale che sia la tecnologia di cui disponiamo.

Tutti questi ordini di fattori sono interdipendenti ed è perciò che non è possibile stabilire a priori quanta gente può vivere pacificamente in una determinata regione o sulla Terra intera.  Si può però capire quando il nostro impatto è eccessivo osservando una serie di indicatori.  Peggioramento delle condizioni ambientali, aumento della turbolenza sociale e dei flussi migratori, peggioramento dell’economia, governi più autoritari, minore natalità e/o maggiore mortalità, disoccupazione, tendenza alla disgregazione delle società complesse in strutture più semplici, miseria, ecc.  sono tutti sintomi di sovrappopolazione.

Attenzione che nessuno di questi è specifico della sovrappopolazione e non necessariamente tutti sono presenti, ma quando alcuni di questi si manifestano, sarebbe doveroso drizzare le antenne.  Anche perché, se si supera la soglia, si rientra necessariamente in quella dinamica di rincorsa al ribasso fra popolazione e capacità di carico, già vista per le specie non umane.

E la guerra in tutto ciò?

Dunque la sovrappopolazione è uno stato patologico ricorrente in cui la quantità di individui x consumi x tecnologia (la leggendaria formula I=PAT) inizia a produrre dei cambiamenti ambientali avversi tipo erosione, estinzioni, inquinamento, turbolenza sociale, estrema povertà, ecc.   Di solito questo avviene al termine di una fase di rapida crescita demografica, quindi con un gran numero di giovani che hanno ben poche prospettive, cosa che rende la società particolarmente soggetta alla violenza.  Non tutte le guerre sono state provocate dalla sovrappopolazione e non tutte le crisi demografiche si sono risolte con una carneficina, ma di solito una fase di violenza estrema è la valvola di sfogo di queste situazioni.

Anche le migrazioni sono sempre state connesse con guerre (in senso lato), tranne nei pochi casi in cui le società d’arrivo si trovavano ad avere il problema opposto: una popolazione insufficiente a sfruttare pienamente le opportunità di crescita del momento.   Ed una cosa non esclude l’altra.  Ad esempio, in passato i governi di alcuni stati hanno incoraggiato l’arrivo di grandi masse di migranti che sono stati utilizzati per sviluppare le opportunità economiche del momento e, contemporaneamente, eliminare le popolazioni indigene che facevano ostacolo.  La colonizzazione degli USA è il caso più celebre, ma la colonizzazione della Siberia, di vaste regioni del Sud-america, dell’Australia e di molte altre zone hanno seguito uno schema analogo.  Diciamo che la storia delle civiltà è anche la storia dell’eliminazione delle civiltà precedenti. In questo, la civiltà industriale non ha inventato assolutamente nulla, ma ha accelerato ed ampliato gli effetti di questo tipo di dinamica.

Questo, in soldoni, il quadro, solo che oggi ci troviamo di fronte ad una crisi di sovrappopolazione molto atipica per due peculiarità:

1 – Per la prima (e probabilmente ultima) volta nella storia la crisi riguarda l’intero pianeta contemporaneamente e non esistono oramai degli spazi relativamente liberi.  Né spazi geografici, né politici, né economici (se non in misura minimale).

2 – Una parte dei paesi sta vivendo una situazione classica di impatto fra popolazione in rapida crescita e capacità del territorio.   Altri stanno ugualmente impattando contro i propri limiti, ma con una natalità ridotta da tempo ed un’età media assai superiore.  Insomma, mentre alcuni paesi soffrono per un classico “bubbone giovanile”, altri soffrono per un “bubbone senile”, ma in entrambi i casi vi è più gente e più consumo di quanto le condizioni ambientali possano reggere.

Il “bubbone senile”sembra più gestibile in quanto destinato a risolversi da solo in tempi non lunghissimi, specialmente se, come di solito accade, il declino economico provoca una riduzione dell’aspettativa di vita.  In ogni caso, le società con un'età media più avanzata sono meno portate alla violenza,a parità di altre condizioni.

Viceversa, il “bubbone giovanile” rappresenta un pericolo molto grave per tutti.  In assenza di una rapida crescita economica, analoga a quella che ha permesso di gestire il “baby boom” occidentale e cinese degli anni ’60, una qualche forma di violenza estrema è inevitabile.  Quello che sta accadendo in tutti i paesi arabi ed in molti di quelli africani è emblematico.  Certo, come sempre ci sono anche altri ingredienti specifici di ogni particolare conflitto: interessi economici, ingerenze straniere, inimicizie storiche e molti altri, ma lo ”stato di sovrappopolazione” è l’ingrediente che costituisce la massa critica che altri fattori fanno poi detonare.

Se questo approccio è corretto, è molto improbabile che le grandi potenze scatenino la tanto temuta nuova guerra mondiale.  Presumibilmente, continueranno, ad usare la guerra come strumento per perseguire i loro scopi , ma sempre in un'ottica di conflitto locale, come del resto stanno facendo.  Sommosse e tumulti ci sono e ci saranno, specie a seguito di bruschi peggioramenti economici, ma porteranno a governi più repressivi e ad uno stretto controllo della popolazione, piuttosto che a vere rivoluzioni o guerre civili.

Certo, è possibile uno scontro diretto USA – Cina per il predominio sul mondo, ma lo ritengo assai improbabile sia per ragioni demografiche, sia perché il livello di rischio sarebbe troppo elevato per entrambi.

Viceversa, ci sono due potenze nucleari, India e Pakistan, che hanno tutte le caratteristiche per essere molto pericolose: estrema sovrappopolazione, bubbone giovanile, crisi economica, grande potere politico delle forze armate, forti tensioni interne, storica inimicizia e confini contesi.    Certo, è possibile che questi paesi tornino a scontrarsi senza coinvolgerne altri, oppure che la tensione sfoci in guerre interne, ma il rischio di un’ennesima carneficina in questo settore è comunque molto alto ed avrebbe conseguenze globali, anche se, speriamo, solo economiche.

Il secondo “hot spot”  di livello globale è naturalmente il Medio Oriente.   I motivi sono abbastanza analoghi a quelli visti sopra e uno stato di guerra per procura fra Iran ed Arabia Saudita è già in corso da molti anni.  Ultimamente sta vincendo l’Iran, ma i giochi sono aperti e c’è la possibilità di un coinvolgimento delle grandi potenze l’una contro l’altra.   Inoltre, in zona si trovano altre due potenze regionali pesantemente sovrappopolate, con un vistoso bubbone giovanile ed una politica sempre più aggressiva: Israele e Turchia.  Accanto c'è l'Egitto che coniuga una situazione demografica esplosiva, un'economia disastrata ed una forza armata di tutto rispetto. In pratica, un "gioco dei 5 cantoni" che può sfuggire di mano in qualunque momento scatenando una carneficina.

Esistono ancora una moltitudine di focolai di guerra, attuali e potenziali, specialmente in Africa, nonché in America centrale e meridionale, ma nessuno di questi ha, credo, la potenzialità per svilupparsi in una nuova guerra globale, anche se la certezza del futuro si può avere solo dopo che questo è diventato il passato.  E neanche sempre.

Concludendo

La sovrappopolazione è uno stato patologico che deriva da uno squilibrio tra crescita demografica ed altri fattori, principalmente economici ed ecologici.  Non può durare a lungo e prima si risolve, migliore è la vita di coloro che sopravvivono alla crisi.  Esistono molti modi per rientrare entro la capacità di carico, ma una certa dose di violenza è inevitabile.   Quanto lunga ed intensa sia però questa fase dipende da una moltitudine di fattori ed ogni crisi ha la sua esclusiva combinazione di "ingredienti". Tuttavia quando si è in presenza di un pronunciato "bubbone giovanile" la probabilità di giungere a conflitti sanguinosi e distruttivi è molto elevata.

L'analisi dei dati demografici degli ultimi decenni suggerisce però un moderato ottimismo. Finora, infatti, in tutti i paesi in cui la percezione del futuro si è fatta fosca, la natalità diminuisce.  Parallelamente, dove la crisi economica arriva ad intaccare i servizi sanitari e le pensioni, la mortalità torna ad aumentare.  Ne consegue una riduzione della popolazione che può diventare relativamente rapida, anche in assenza di grandi catastrofi.  Anzi, specialmente in assenza di grandi catastrofi che, finora, hanno sempre innescato dei “baby boom” di reazione, appena le condizioni lo consentono.

E' quindi legittima la speranza di poter evitare il collasso della biosfera e l’estinzione della nostra specie, soprattutto se i governi si adoperassero per salvaguardare i presupposti per la vita nel futuro: biodiversità, suoli, acqua.

Non potremo però evitare la violenza, specie nei paesi con popolazioni molto giovani.  Dobbiamo quindi lavorare per evitare che maturino i presupposti per essere coinvolti in rivolte e guerre particolarmente sanguinose, ma anche attrezzarsi per vincere quelle che risultassero inevitabili.