mercoledì 12 agosto 2015

Shock ambientale e sua gestione politica

Pubblico qui un post che parte da ipotesi e idee abbastanza diverse da quelle che si trovano normalmente su "Effetto Risorse," dove tendiamo a vedere l'esaurimento delle risorse come il motore principale di tutto quello che succede. Mi è parso il caso, tuttavia, di presentare questo post, sia per il suo interesse intrinseco, sia per non continuare a parlarci soltanto fra di noi come facciamo spesso. Questa è la prima parte di un'analisi abbastanza complessa, la seconda seguirà fra breve - UB

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Guest post di "Sergio Barile".

Parafrasi biologica della legge di Thirlwall





(Furthermore there is clear evidence that, although economic growth usually leads to environmental degradation in the early stages of the process, in the end the best — and probably the only — way to attain a decent environment in most countries is to become rich) Beckerman, 1992

1 - Introduzione

Iniziamo dalla tesi: qualsiasi politica verde necessita di risorse economiche, poiché per incidere sulle dinamiche in atto questi investimenti sarebbero enormi, e il beneficio sarebbe collettivo e non monetizzabile immediatamente come profitto, l'intervento pubblico tramite spesa a deficit (G) si configura come lo strumento di politica economica più efficace per raggiungere gli obiettivi richiesti dalla comunità scientifica. Per poter aumentare i budget di spesa è necessario che il PIL cresca, quindi è assolutamente necessario evitare le “riforme strutturali” e favorire stato sociale e piena occupazione. Questi aumentano la domanda aggregata (AD) che, in caso di politiche industriale volte a fini sociali di profilo “ambientale” e la conseguente produzione di beni e servizi a carattere “ecologico”, sarà rivolta al consumo di questi beni e servizi verdi. Dato il “moltiplicatore keynesiano” avremo del nuovo valore aggiunto (incremento del PIL) e la contestuale marginale “decrescita felice” delle esternalità negative. 

Senza “crescita” non ci può essere “decrescita”.

Il limite alla crescita, ovvero il vincolo esterno per il decisore politico di una nazione sovrana, pena instabilità e gravi squilibri, è dato dalla legge di Thirlwall.

Quindi, tranchant, l'ammonimento politico: il movimentismo volto alla sensibilizzazione sulle esternalità negative dell'attività economica è storicamente funzionale alla cosmetizzazione del conflitto tra classi. Ovvero, l'imputare ad un vincolo esterno di natura “tecnica” - in generale esogeno al dibattito democratico - politiche di repressione delle rivendicazioni sociali, è parte di una nota strategia politica per imporre in modo dispotico un ordine sociale al riparo dal processo elettorale.

Tolto il dente, tolto il dolore. (E chi non è disposto a prendere in considerazione questa tesi, può risparmiare il tempo della seguente lettura).

2 – Etica e sistemi complessi

Avendo uno sguardo post-keynesiano sul mondo, Malthus deflette fisiologicamente l'orizzonte economico-sociale che si osserva: insomma, Malthus è parte della propria cultura.

Non si può far la medesima affermazione relativamente a quella che viene definita “teoria neo-malthusiana”, a dispetto del nome. 

Se Keynes supportava la necessità di una stabile o positiva crescita demografica, perché individuava nella domanda aggregata il fattore di crescita economica, l'approccio neo-malthusiano, come da tradizione neo-liberale, sulla falsa riga della "trickle-down theory", sostiene che è l'accumulazione del capitale il motore della crescita economica, e che il declino demografico porta ad una crescita del reddito procapite. 

Quindi, perdonando la brutale banalizzazione, se le risorse sono finite, e il paradosso di Jevons scoraggia dalle aspettative progressive dell'evoluzione tecnologica, i lavoratori delle prossime generazioni – con le buone, ovviamente – devono gentilmente smettere di prolificare e consumare. Per il bene delle generazioni future, si intende.

Come Keynes, assumiamo in questa riflessione che l'ipotesi del limite delle risorse sia corretto, e che l'obiettivo sia convergere ad uno stato stazionario, dove demografia e consumo di energia siano in equilibrio, e il “benessere” procapite sia ottimizzato.

Secondo una prospettiva neo-malthusiana, poiché è chi più accumula capitale che contribuisce allo sviluppo economico e spirituale della società, e questo “benessere” ricade – trickle-down - sui nipotini poveri dei sopravvissuti “alla purga demografica”, il benessere del povero sta nella sua povertà (chiaramente relativa al ricco, sicuramente una dignitosissima povertà). 
   
(Nota: poiché esiste una forte correlazione tra oil and finance, vi posso assicurare che questa soluzione è stata già presa; sembra che solo ai BRICS non piaccia particolarmente)

Quindi, chi teme la catastrofe non disperi, sarà accontentato: poiché, se la politica democratica è corrotta, allora i corruttori governano. E chi può corrompere ha il capitale per farlo.

Si chiama “globalizzazione”: privatizzazione di tutte le risorse e del patrimonio pubblico tramite la libera circolazione dei fattori della produzione. Insomma, quelneoliberismoche propugna la  trickle-down economy.

D'altronde, come proclamava la Thatcher, “there is no alternative”. Viene fatto per il bene dell'umanità: per sopravvivere può essere necessario amputarsi un braccio...

Io, però, sono egoista, al mio braccio ci tengo e vorrei pensare ai miei nipotini felici che corrono felici in un verdissimo futuro....

Apro un libro di sociologia e, guarda un po', scopro che non esiste solo il “funzionalismo”, la teoria sociologica per cui il codice Manu indiano può essere desiderabile, ma esiste una sterminata letteratura che tratta la prospettiva del conflitto: la solidarietà tende a svilupparsi maggiormente in gruppi sociali omogenei, in base al potere e al prestigio dei suoi membri, questi gruppi formano della classi in perpetuo conflitto: il conflitto per la distribuzione del reddito prodotto.

Potrebbe essere che il limite della crescita sia strumentalizzabile dalla più forte di queste classi? Può esistere una soluzione che porti al risultato che faccia anche gli interessi delle altre classi? Qui ed ora?

Vediamo.

Innanzitutto alcune definizioni e alcuni chiarimenti: il reddito è un “flusso”, ed è funzione dei fattori della produzione, le risorse naturali sono uno “stock”, fanno parte del patrimonio messo a disposizione da nostro Signore all'ingrato genere umano.

La più grande comunità sociale omogenea che permette “solidarietà economica” - ovvero fiscale e ridistributiva -  si chiama Stato nazionale: il reddito di uno stato nazionale si chiama PIL.  

Primo shock: il PIL è una misura che non c'entra nulla con la crescita “materiale” collegata al consumo delle risorse naturali, o meglio, ad esempio, non esiste una correlazione significativa tra PIL e ed energia consumata che sia valida per tutti gli Stati nazionali. A seconda delle metodologie e dei campioni ci può essere effettivamente una causalità bidirezionale, una causalità tra crescita del PIL e del consumo di energia, oppure viceversa.

Italia e Corea, ad esempio (Soytas-Siri, 2003), due modelli di produzione particolarmente simili e virtuosi nel panorama mondiale dalla seconda metà del Novecento, appartengono al terzo gruppo: drastiche politiche di risparmio energetico non impatterebbero particolarmente sulla crescita.

E comunque, in generale, nei Paesi più ricchi è possibile sostenere il PIL con un impatto minimo o nullo sul consumo energetico.

Chi propone la decrescita del PIL, ovvero recessioni, prolungate deflazioni e depressioni, lo fa da un particolare punto di vista di un particolare gruppo di interessi (classe): oil and finance.

I conflitti bellici scoppiano generalmente per due motivi complementari: il dominio delle risorse, e la risoluzione delle crisi di debito. Generalmente due facce della stessa medaglia.

Le “crisi di debito” e la debt-deflation auspicata – non si sa bene quanto consapevolmente – di alcuni “decrescisti”, fornisce al problema malthusiano una risposta immediata: guerre e carestie. Da sempre.

Il paradosso di Jevons e, più in generale, il limite alla crescita, obbliga, a livello di aggregato mondiale, a coordinare le politiche di approvvigionamento delle risorse energetiche... beh, la soluzione delle nostre élite l'abbiamo già intravista, se si vogliono altri chiarimenti basta fare un giro in Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc.

Se si evitasse di frammentare le entità politiche straniere, e la si piantasse di cedere sovranità nazionale alla finanza internazionale in patente violazione degli “gli art.11” delle costituzioni democratiche - finanza secolarmente desiderosa di sorpassare l'assetto vestfalico che ha portato alle democrazie e allo stato sociale – si potrebbe pensare di tornare ad avere una  politica industriale che non sia... il suo semplice smantellamento.  
  
In tal caso, il decisore politico, con pieno controllo di una banca centrale controllata dal Tesoro, ministero espressione della sovranità democratica, ogni decisore politico, per affrontare  gli eventuali shock  a causa dell' LtG, dovrebbe guidare nella tempesta la propria comunità sociale di riferimento: i suoi elettori.

Ora, una premessa: il sistema sociale integrato nella “biosfera”, non è semplicemente un sistema complesso. È un sistema umano.

Quindi, che uno scienziato possa considerarlo semplicemente come qualsiasi sistema biologico, da integrare nella complessità del nostro pianeta, beh, è comprensibile ma non assolutamente da dare per scontato.

Quindi, da un punto di vista politico, ovvero di gestione delle risorse, propongo una precisa etica che faccia da vincolo interno al decisore (più o meno...) istituzionale: ovvero, tra “i vari rubinetti del sistema complesso”, le infinite soluzioni per regolare questo sistema sono ordinate rispetto ad una specifica scala di valori, di cui la dignità dell'Uomo è valore incomprimibile. Astratti ideali? Falsa propaganda da ingegneria sociale? Vediamo.

Innanzitutto abbiamo già tracciato una scala operativa per cui, tra gli infiniti punti di vista, e, tra tutte le “leve e i rubinetti” su cui si può agire, tende a diminuire “l'ordine di grandezza” della azioni possibili. Secondo, una riflessione: un sistema umano è condizionato da un inaspettato fattore: l'Uomo. Quest'etica non è condivisa, e la politica è, in primis, gestione del conflitto (possibilmente in un'aula parlamentare).

Hayek, “padre nobile” della terza globalizzazione (questa), taglia la testa al toro: i sistemi sociali sono troppo complessi per essere gestiti, quindi, apparentemente rifiutando il tipico approccio positivista, propone di non stare a impazzire su questi “sistemi complessi” cercando di governarli tipo URSS, ma di far sì che la selezione darwiniana del mercato potesse, liberata, gestire efficacemente la complessità. Insomma, leggasi Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc. Vedi sopra.

In effetti, quella di vedere il sistema sociale come un sistema complesso, rappresentabile da un numero indefinito di “equazioni differenziali”, è un approccio di tipo squisitamente positivista.

Proviamo invece, secondo queste premesse, a dividere il sistema globale che risponde all'LtG come se fosse un organismo costituito da cellule separate da membrane.

Innanzitutto faccio notare che quel sistema complesso a bassissima entropia chiamato Uomo si fa (generalmente...) coordinare dal suo “capo” senza troppe equazioni: un insieme etnicamente omogeneo di uomini si chiama ethnos, un insieme di ethnos che – per omogeneità – può condividere un patto sociale si chiama demos. Ogni demos è un'identità politica che esercita un arbitrio similmente al processo decisionale dell'individuo. Lo Stato nazionale è, in generale, la sua espressione giuridica.

Le “cellule” formano così “tessuti” e “organi” che compongono la macchina vivente  e cognitiva del nostro pianeta, tutti sistemi complessi di differente ordine.

La vita è conservata dall'eterogeneità e dai ruoli: le membrane, regolando flussi e scambi, garantiscono questa eterogeneità, e, in definitiva, la vita.

Membrane troppo “impermeabili” generano la “necrosi dei tessuti”, membrane troppo “aperte” gerano lo “sfaldamento” dell'organismo.

Bene: nei sistemi umani, queste “membrane” sono le “frontiere/dogane” delle comunità sociali che si autodeterminano: in genere, gli Stati nazionali. 

I “flussi” sono i fattori della produzione, e, di questi, il lavoro è l'attività anti-entropica per eccellenza.

Per governare questi “flussi” e raggiungere a livello globale l'obiettivo di sostenibilità come prefissato inizialmente, il decisore politico non dovrebbe “spaccarsi la testa” con enormi sistemi complessi; dovrebbe affidarsi alla scienza che questo genere di complessità, così ridotta, può gestire: l'economia. Ad esempio, il decisore dovrebbe osservare una legge su tutte: quella di Thirlwall. E la comunità internazionale, di converso, dovrebbe far in modo di attuare quel meccanismo per cui ogni nazione raggiunga questo equilibrio che vede nel “vincolo esterno” enunciato da Thirlwall, il limite alla crescita di ogni singola “cellula” che compone il sistema umano, parte dell'ecosistema. Ad esempio, per ottenere questo equilibrio, J.M. Keynes propose il bancor a Bretton Woods (rifiutato dalle élite USA).

Bene, ma cosa è questa “legge” che ogni governo dovrebbe rispettare?

Esiste, oltre al vincolo interno dichiarato in precedenza – ovvero la dignità dell'Uomo che in politica economica si traduce in piena occupazione – un vincolo esterno per cui la crescita di una “cellula” non può essere illimitata (pena il cancro attuale...), ma deve seguire un ritmo di crescita che mantiene “gli scambi” con le altre cellule in equilibrio, e, poiché mediamente quando in percentuale una cellula cresce di “uno”, tende a “succhiare” da tutte le altre  “due”, le membrane vanno regolate in modo da controllare la crescita della cellula.

La politica economica di un Paese consiste, in primis, nel regolare gli scambi per rispettare il vincolo esterno alla crescita: la parafrasi biologica della legge di Thirlwall