sabato 25 luglio 2015

Antropocene: non si tratta solo di noi

DaPost Carbon Institute”. Traduzione di MR

Di Richard Heinberg



E' il momento di celabrare! Yoohoo! E' ufficiale: noi umani abbiamo dato inizio ad una nuova epoca geologica – l'Antropocene. Chi avrebbe mai pensato che solo una specie fra milioni di altre sarebbe stata capace di una tale realizzazione? Aspettiamo però a fare scorta di bomboniere. Dopotutto, l'Antropocene potrebbe essere piuttosto desolante. La ragione per cui la nostra epoca ha acquisito un nuovo nome è che i geologi del futuro saranno in grado di rilevare una discontinuità rilevante negli strati rocciosi che documentano la nostra piccola fetta di tempo nella ricostruzione di miliardi di anni della Terra.

Questa discontinuità sarà riconducibile alla presenza umana. Pensate al cambiamento climatico, all'acidificazione dell'oceano e all'estinzione di massa. Benvenuti nell'Antropocene: un mondo che potrebbe presentare poco in termini di vita multicellulare oceanica oltre alle meduse e un mondo i cui continenti potrebbero essere dominati da poche specie generiche in grado di occupare rapidamente nuove nicchie temporanee man mano che gli habitat si degradano (vengono in mente ratti, corvi e scarafaggi). Noi umani abbiamo dato inizio all'Antropocene e lo abbiamo orgogliosamente battezzato da soli, eppure ironicamente potremmo non esserci per goderci la gran parte di esso. La catena di impatti che abbiamo iniziato potrebbe potenzialmente durare milioni di anni, ma sapere se ci sopravviveranno geologi umani per ricostruirla e commentarla è un tirare a sorte. Per essere sicuri, ci sono persone che celebrano l'Antropocene che credono che siamo solo all'inizio e che gli umani possono e daranno deliberatamente, intelligentemente e durevolmente forma a questa nuova epoca.
Mark Lynas, autore di La Specie di Dio, asserisce che l'Antropocene richiederà a tutti noi di pensare ed agire in modo diverso, ma che popolazione, consumo ed economia possono continuare a crescere nonostante i cambiamenti del sistema terrestre. Stewart Brand dice che potremmo non avere più una scelta in quanto al rifare completamente il mondo naturale; per lui “Abbiamo solo la scelta di fare un buon terraforming. E' questo il progetto verde di questo secolo”. Nel loro libro Ama il tuo mostro: post-ambientalismo e Antropocene, Michael Schellenberger e Ted Nordhaus del Breakthrough Institute dicono che possiamo creare un mondo in cui 10 miliardi di umani raggiungono un standard di vita che permette loro di perseguire i propri sogni, anche se questo sarà possibile soltanto se abbracciamo crescita, modernizzazione e innovazione tecnologica. Analogamente, Emma Marris (che ammette di non aver mai trascorso del tempo nella natura), sostiene in Giardino turbolento: salvare la natura in un mondo post selvaggio che la natura selvaggia è persa per sempre, che ci dovremmo tutti abituare all'idea dell'ambiente come costruito dall'uomo e che questo è potenzialmente una cosa buona.



L'Antropocene è il culmine della follia umana o l'inizio della divinità umana? L'epoca emergente sarà esaurita e post apocalittica o sarà arredata con gusto da generazioni di ingegneri dell'ecosistema esperti di tecnologia? I filosofi ambientali attualmente sono impegnati in quello che risulta essere un dibattito acceso sui limiti dell'opera umana. Quella discussione è particolarmente coinvolgente perché... riguarda noi!

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La praticabilità della versione “ne siamo responsabili e lo amiamo” dell'Antropocene – chiamiamolo Tecno-Antropocene, probabilmente dipende dalle prospettive dell'energia nucleare. Per il mantenimento e la crescita della civiltà industriale servirà una fonte di energia concentrata e affidabile e praticamente tutti sono d'accordo su questo – a prescindere se siamo o meno al punto del “peak oil” — i combustibili fossili non continueranno ad alimentare la civiltà nei secoli e millenni a venire. Il solare e l'eolico sono fonti più rispettose dell'ambiente, ma sono diffuse ed intermittenti. Delle attuali fonti non fossili della società, solo il nucleare è concentrato, disponibile a richiesta e (probabilmente) capace di una espansione significativa. Non è un caso che i fautori del Tecno-Antropocene come Mark Lynas, Stewart Brand, Ted Nordhaus e Michael Schellenberger siano anche dei grandi sostenitori del nucleare. Ma le prospettive dell'attuale tecnologia nucleare non sono rosee. Le devastanti fusioni del 2011 a Fukushima hanno spaventato cittadini e governi in tutto il mondo. Il Giappone avrà a che fare con gli impatti delle radiazioni e gli impatti sulla salute per decenni se non per secoli e la Costa Occidentale degli Stati Uniti si sta preparando per un afflusso di acqua oceanica e detriti radioattivi. Non c'è ancora una buona soluzione per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi prodotti anche quando i reattori stanno funzionando come previsto. Le centrali nucleari sono costose da costruire e di solito subiscono pesanti superamenti dei costi preventivati. La disponibilità mondiale di uranio è limitata e sono probabili carenze da metà secolo anche senza una grande espansione delle centrali. E le centrali atomiche sono collegate alla proliferazione delle armi nucleari.

Nel 2012, The Economist ha dedicato un numero speciale ad un rapporto sull'energia nucleare. Significativamente, il rapporto era intitolato, “Energia nucleare: il sogno infranto”. Le sue conclusioni: l'industria nucleare potrebbe essere in procinto di espandersi solo in qualche nazione, principalmente la Cina. Altrove viene tenuta in piedi artificiosamente. Niente di tutto questo scoraggia i sostenitori del Tecno-Antropocene, che dicono che la tecnologia nucleare ha il potenziale di soddisfare le promesse fatte in origine per l'attuale flotta di impianti atomici attuali. Il fulcro di questa nuova tecnologia è l'Integral Fast Reactor (IFR). A differenza dei reattori ad acqua (che comprende la stragrande maggioranza delle centrali nucleari in servizio oggi) gli IFR userebbero il sodio come refrigerante. La reazione nucleare IFR include neutroni rapidi e consuma con più cura il combustibile radioattivo, lasciando meno rifiuti. Di fatto, gli IFR potrebbero usare gli attuali rifiuti radioattivi come combustibile. Inoltre, si presume che offrano una maggiore sicurezza operativa e meno rischio di proliferazione nucleare. Queste argomentazioni sono state fatte con forza nel documentario del 2013 “La promessa di Pandora”, prodotto e diretto da Robert Stone. Il film asserisce che gli IFR sono i nostri migliori strumenti per mitigare il riscaldamento globale antropogenico e continua affermando che c'è stato un tentativo deliberato da parte di burocrati malaccorti di sabotare lo sviluppo dei reattori IFR. Tuttavia, i critici del film dicono che queste affermazioni sono gonfiate e che la tecnologia IFR è molto problematica. Le versioni precedenti dei reattori autofertilizzanti (di cui gli IFR sono una versione) sono  stati dei fallimenti commerciali e dei disastri in sicurezza. I sostenitori degli Integral Fast Reactor, dicono i critici, trascurano i suoi costi di sviluppo e spiegamento esorbitanti e di continuo rischi di proliferazione nucleare. L'IFR in teoriatrasmuta”, piuttosto che eliminare, i rifiuti radioattivi. Eppure la tecnologia è indietro di decenni rispetto all'implementazione diffusa e il suo uso di sodio liquido come raffreddante può portare a incendi ed esplosioni.

David Biello, scrivendo su Scientific American, conclude che “Ad oggi, i reattori a neutroni veloci hanno consumato sei decenni e 100 miliardi di dollari di sforzo complessivo ma rimangono una pia illusione”. Anche se i sostenitori dei reattori IFR hanno ragione, c'è una gigantesca ragione pratica per cui non possono alimentare l'Antropocene: probabilmente non avremo dei benefici da essi abbastanza presto da fare una qualche differenza. Le sfide del cambiamento climatico  e dell'esaurimento dei combustibili fossili richiedono un'azione ora, non fra decenni. Ipotizzando un sufficiente investimento di capitale e ipotizzando un futuro in cui abbiamo decenni durante i quali migliorare le tecnologie esistenti, i reattori IFR potrebbero di fatto mostrare vantaggi significativi rispetto agli attuali reattori ad acqua leggera (solo molti anni di esperienza possono dirlo con certezza). Ma non abbiamo il lusso dell'investimento di capitale illimitato e non abbiamo decenni per eliminare i difetti e costruire questa tecnologia complessa e non provata. Il verdetto di The Economist è: “L'energia nucleare continuerà ad essere una creatura della politica, non dell'economia ed ogni crescita è una funzione del volere politico o un effetto collaterale della protezione delle società di servizi dalla competizione aperta... L'energia nucleare non sparirà, ma il suo ruolo potrebbe non essere mai altro che marginale”.

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A costo di risultare ripetitivo, ribadirò il punto: l'energia a buon mercato ed abbondante è il prerequisito del Tecno-Antropocene. Possiamo affrontare le sfide dell'esaurimento delle risorse e della popolazione solo impiegando più energia. Finiamo l'acqua dolce? Si costruiscono impianti di desalinizzazione (che usano molta energia). Degradiamo il suolo per produrre più cereali per nutrire 10 miliardi di persone? Si costruiscono milioni di serre idroponiche (che hanno bisogno di un sacco di energia per la costruzione e il funzionamento). Man mano che estraiamo da depositi di metalli e minerali più profondi e raffiniamo depositi di densità più bassa, ci servirà più energia. I vantaggi dell'efficienza energetica ci possono aiutare a fare di più con ogni aumento di potenza, ma una popolazione in crescita e un tasso di consumo pro capite in aumento eccederanno di molto quei vantaggi (come hanno fatto negli ultimi decenni). In ogni modo la si guardi, se vogliamo mantenere l'attuale traiettoria di crescita della società industriale, ci servirà più energia, ci servirà presto e le nostre fonti energetiche dovranno soddisfare determinati criteri – per esempio, non dovranno emettere alcun carbonio e allo stesso tempo essere economicamente sostenibili. I criteri essenziali possono essere ridotti a quattro parole: quantità, qualità, prezzo e tempistica. La fusione nucleare potrebbe in teoria fornire energia in grandi quantità, ma non a breve. La stessa cosa vale per la fusione fredda (se – ed è un grande se – può essere confermato che il processo funzioni  e possa essere portato in scala). I biocombustibili offrono un EROEI molto basso nella loro produzione (un problema di qualità determinante). L'energia termica e delle onde dell'oceano potrebbe servire le città costiere, ma anche in questo caso la tecnologia dev'essere dimostrata e portata in scala. Il carbone con la cattura e stoccaggio del carbonio non è competitivo economicamente con le altre fonti di elettricità. Il solare e l'eolico stanno diventando più economici, ma sono intermittenti e tendono a minare i modelli d'affari delle società di servizi commerciali. Anche se il nostro elenco di fonti energetiche potenziali è lungo, nessuna di queste fonti è pronta per essere connessa rapidamente nel nostro sistema esistente per fornire energia nella qualità e al prezzo di cui l'economia ha bisogno per continuare a crescere.

Questo significa che il futuro prossimo dell'umanità sarà quasi sicuramente energeticamente limitato. E questo, a sua volta, assicurerà – anziché la progettazione della natura su scala ancora maggiore – che dipenderemo di nuovo da ecosistemi che sono ampiamente al di là del nostro controllo. Come specie, abbiamo ottenuto un grado di influenza impressionante sull'ambiente semplificando deliberatamente gli ecosistemi di modo che sostengano più esseri umani, ma meno delle altre specie. La nostra strategia principale in questo progetto è stata l'agricoltura – principalmente una forma di agricoltura che si concentra su poche colture annuali di cereali. Abbiamo requisito fino al 50% della produttività biologica primaria del nostro pianeta, in gran parte attraverso l'agricoltura e la silvicoltura. Fare questo ha avuto impatti fortemente negativi sulle specie di piante ed animali non addomesticate. La conseguente perdita di biodiversità sta compromettendo sempre di più le prospettive degli esseri umani, perché dipendiamo da una serie infinita di servizi ecosistemici (come l'impollinazione e la rigenerazione di ossigeno) – servizi che non organizziamo o controlliamo e per i quali non paghiamo. L'essenza del nostro problema è questa: questi effetti collaterali della baldoria della nostra crescita si stanno accumulando rapidamente e minacciano una crisi in cui i sistemi di supporto artificiali che abbiamo costruito negli ultimi decenni (cibo, trasporto e sistema finanziario, fra gli altri), così come i sistemi selvaggi della natura dai quali dipendiamo ancora, potrebbero collassare più o meno simultaneamente. Se abbiamo raggiunto un punto di ritorni decrescenti e di crisi potenziale rispetto alla nostra attuale strategia di costante crescita di popolazione/consumo e di invasione degli ecosistemi, allora sembra che un cambio di direzione sia necessario ed inevitabile. Se fossimo intelligenti, piuttosto di tentare di sognare modi per riprogettare ulteriormente i sistemi naturali in modi non verificati (e probabilmente inaccessibili), cercheremmo di limitare e migliorare gli impatti ambientali del nostro sistema industriale globale mentre riduciamo la nostra popolazione e i livelli complessivi di consumo.

Se non limitiamo pro-attivamente popolazione e consumo, la natura alla fine lo farà per noi, probabilmente con mezzi molto spiacevoli (carestie, pestilenze e forse guerre). Analogamente, possiamo limitare i consumi semplicemente continuando ad esaurire le risorse finché diventano inaccessibili. I governi probabilmente sono incapaci di condurre una ritirata strategica nella nostra guerra contro la natura, in quanto sono sistemicamente agganciati alla crescita economica. Ma potrebbe esserci un altra strada per andare avanti. Forse i cittadini e le comunità possono dare inizio ad un cambio di direzione. Negli anni 70, quando i primi shock energetici ci hanno colpiti direttamente e il movimento ambientalista ha prosperato, i pensatori ecologici hanno cominciato ad affrontare la domanda: quali sono i modi più biologicamente rigenerativi e meno dannosi di soddisfare i bisogni umani fondamentali? Due di questi pensatori, gli australiani David Holmgren e Bill Mollison, hanno inventato un sistema che hanno chiamato Permacultura. Secondo Mollison “la Permacultura è una filosofia del lavorare con, piuttosto che contro la natura; di osservazione prolungata e ponderata piuttosto che di lavoro protratto e sconsiderato e di osservazione di piante ed animali in tutte le loro funzioni, piuttosto che trattare ogni area come un sistema di un singolo prodotto”. Oggi ci sono migliaia di persone che praticano la Permacultura in tutto il mondo e i corsi di Progettazione in Permacultura sono spesso proposti in quasi ogni paese.


Principi di Permacultura

Altri ecologisti non hanno puntato a creare un sistema generale, ma si sono meramente impegnati in una ricerca frammentaria sulle pratiche che potrebbero portare ad una modalità di produzione del cibo più sostenibile – pratiche che comprendono consociazioni, pacciamatura e compostaggio. Un ambizioso scienziato dell'agricoltura, Wes Jackson del Land Institute di Salina, in Kansas, ha passato gli ultimi quattro decenni a riprodurre colture di grano perenni (egli sottolinea che gli attuali grani annuali sono responsabili della grande massa di erosione del suolo, 25 miliardi di tonnellate all'anno). Nel frattempo, i tentativi di resilienza della comunità hanno fatto un salto in avanti in migliaia di città e paesi in tutto il mondo – comprese le Iniziative di Transizione, che sono spinte da un modello organizzativo interessante, flessibile e dal basso e da una visione di un futuro in cui la vita è migliore senza combustibili fossili. Il Population Media Center sta lavorando per garantire che non arriviamo a 10 miliardi di esseri umani arruolando artisti creativi in paesi con alti tassi di crescita della popolazione (che di solito sono anche fra le nazioni più povere del mondo) a produrre soap opera radiofoniche e televisiva con personaggi femminili forti che affrontano con successo problemi legati alla pianificazione famigliare. Questa strategia ha mostrato di essere il mezzo più economicamente efficace ed umano di ridurre l'alto tasso di nascita in queste nazioni. Cos'altro si può fare? Sostituire il combustibile col lavoro. Localizzare i sistemi alimentari. Catturare il carbonio atmosferico nel suolo e nella biomassa. Ripiantare foreste e ripristinare ecosistemi. Riciclare e riusare. Produrre beni più durevoli. Ripensare l'economia per fornire la soddisfazione umana senza crescita infinita. Ci sono organizzazioni in tutti il mondo che lavorano per portare avanti tutti questi obbiettivi, di solito con poco o nessun sostegno governativo. Presi insieme, potrebbero portarci ad un Antropocene del tutto diverso. Chiamiamolo un Antropocene Verde e Snello.

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Il Tecno-Anthropocene ha un tallone di Achille: l'energia (più specificamente, i fallimenti dell'energia nucleare). L'Antropocene Verde e Snello ne ha a sua volta uno: la natura umana. E' difficile convincere la gente a ridurre volontariamente il consumo e a frenare la riproduzione. Non perché gli esseri umani siano creature insolitamente invadenti ed avide, tutti gli organismi viventi tendono a massimizzare la loro popolazione e il tasso di uso collettivo di energia. Iniettate una colonia di batteri in un ambiente di crescita adatto in un vetrino di Petri e guardate cosa accade. Colibrì, topi, leopardi, pesci remo, sequoie o giraffe: in ogni esempio il principio rimane inviolato – ogni specie massimizza popolazione e consumo di energia entro i limiti naturali. L'ecologo sistemico Howard T. Odum ha chiamato questa legge il Principio di massima potenza: in natura, “si sviluppano e prevalgono i progetti di sistemi che massimizzano l'acquisizione di potenza, la trasformazione di energia e quegli usi che rinforzano produzione ed efficienza”. In aggiunta alla nostra innata propensione alla massimizzazione della popolazione e del consumo, noi esseri umani abbiamo anche difficoltà a fare sacrifici nel presente per ridurre i costi futuri. Siamo geneticamente cablati per rispondere alle minacce immediate con risposte del tipo “combatti o scappa”, mentre i pericoli lontani ci interessano molto di meno. Non è che non pensiamo per niente al futuro, piuttosto applichiamo inconsciamente un tasso di sconto basato sulla quantità di tempo che probabilmente trascorrerà prima che debba essere affrontata una minaccia.

E' vero, c'è qualche variazione nel comportamento anticipatore fra individui umani. Una piccola percentuale della popolazione potrebbe cambiare comportamento ora per ridurre i rischi per le generazioni a venire, mentre la stragrande maggioranza è meno probabile che lo faccia. Se quella piccola percentuale potesse sovrintendere alla nostra pianificazione collettiva futura, avremmo molto meno di che preoccuparci. Ma ciò è difficile da organizzare nelle democrazie, dove la gente, i politici, le multinazionali e persino le organizzazioni no profit si fanno strada promettendo ricompense immediate, di solito sotto forma di maggiore crescita economica. Se nessuno di questi può organizzare una risposta proattiva alle minacce a lunga gittata come il cambiamento climatico, le azioni di pochi individui e comunità potrebbe non essere così efficace nel mitigare il pericolo.  Questa aspettativa pessimista è confermata dall'esperienza. Le linee generali della crisi ecologica del XXI secolo sono state chiare sin dagli ani 70. Eppure non è stato ottenuto granché dagli sforzi per evitare quella crisi. E' possibile indicare centinaia, migliaia, forse anche milioni di programmi creativi e coraggiosi di ridurre, riciclare e riusare – eppure la traiettoria generale della civiltà industriale rimane relativamente immutata.

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La natura umana potrebbe non permettere al messaggio Verde e Snello di evitare del tutto la crisi ecologica, ma ciò non significa che il messaggio sia inutile. Per capire come questo potrebbe avere un'utilità più a lungo termine nonostante la nostra tendenza al pensiero a breve termine, è utile fare un passo indietro e guardare a come tendono ad evolvere le relazioni fra società ed ambiente. Le crisi emblematiche dell'Antropocene (cambiamento climatico fuori controllo e acidificazione dell'oceano, fra le altre) sono recenti, ma gli esseri umani hanno alterato l'ambiente in un modo o nell'altro per molto tempo. Infatti, c'è una controversia fra i geologi su quando è cominciato l'Antropocene: alcuni dicono che è iniziato con la rivoluzione industriale, altri la fanno partire all'inizio dell'agricoltura, circa 10.000 anni fa, mentre altri ancora la collegano all'apparizione degli umani moderni migliaia di anni prima. Gli esseri umani sono diventati dei trasformatori del mondo come risultato di due vantaggi principali: abbiamo mani abili che ci permettono di fare ed usare attrezzi ed abbiamo il linguaggio, che ci aiuta a coordinare le nostre azioni nel tempo e nello spazio. Dal momento che entrambi erano attivi, abbiamo cominciato ad usarli per conquistare gli ecosistemi. I paleoantropologi possono datare l'arrivo degli esseri umani in Europa, Asia, Australia, Isole del Pacifico e Americhe osservando i tempi di estinzione delle grandi specie preda. L'elenco di animali probabilmente eradicati dai primi esseri umani è lungo e comprende (in Europa) diverse specie di elefanti e rinoceronti; (in Australia)  vombati giganti, canguri e lucertole e (nelle Americhe) cavalli, mammut e cervi giganti.

Le persone hanno anche deliberatamente riprogettato gli ecosistemi per decine di migliaia di anni, principalmente usando il fuoco per alterare il paesaggio di modo da produrre più cibo per gli esseri umani. L'agricoltura è stato una grande spinta alla nostra capacità di produrre più cibo in meno terra, pertanto di far crescere la nostra popolazione. L'agricoltura rendeva dei surplus di cibo immagazzinabile, che ha portato alle città – la base della civiltà. E' stato in questi calderoni urbani sociali che sono emersi la scrittura, i soldi e la matematica. Se l'agricoltura ha dato una spintarella in avanti al progetto umano, l'industrialismo alimentato dai combustibili fossili lo ha sparato. Nei soli due ultimi secoli, la popolazione e il consumo di energia sono aumentati di oltre l'800%. Il nostro impatto sulla biosfera ha più che tenuto il ritmo. L'industrializzazione dell'agricoltura ha ridotto la necessità di lavoro agricolo. Ciò ha permesso a – o costretto – miliardi di persone di trasferirsi nelle città. Man mano che più persone sono venute a vivere nei centri urbani, si sono ritrovati sempre più tagliati fuori dalla natura selvaggia e sempre più completamente impegnati con parole, immagini, simboli e strumenti. C'è un termine per la tendenza umana a guardare la biosfera, forse persino l'universo, come se riguardasse solo noi: antropocentrismo. Fino ad un certo punto, ciò è una propensione comprensibile ed inevitabile. Ogni persona, dopotutto, è il centro del proprio universo, la stella del proprio film. Perché la nostra specie nel suo complesso dovrebbe essere meno egocentrica? Altri animali sono analogamente ossessionati dalla loro specie: indipendentemente da chi fornisce le crocchette, i cani hanno un interesse ossessivo per gli altri cani. Ma ci sono gradi salutari e non salutari di egocentrismo individuale e di specie. Quando l'autoreferenzialità umana diventa platealmente distruttiva la chiamiamo narcisismo. Può un'intera specie essere troppo autoreferenziale? I cacciatori-raccoglitori erano certamente interessati alla propria sopravvivenza, ma molti popoli raccoglitori indigeni pensavano a sé stessi come parte di una comunità della vita più grande, con una responsabilità nel mantenere la rete dell'esistenza. Oggi pensiamo più “pragmaticamente” (come potrebbe dire un economista), mentre abbattiamo, deforestiamo, peschiamo eccessivamente ed esauriamo per dominare il mondo. Tuttavia, la storia non rappresenta un aumento continuo dello smisurato orgoglio umano e dell'alienazione dalla natura. Periodicamente gli esseri umani sono stati schiaffeggiati. Carestia, conflitti per le risorse e malattie hanno decimato popolazioni che prima stavano crescendo. La civiltà è sorta, poi crollata. Le manie finanziarie hanno portato a collassi. Le città fiorenti sono diventate città fantasma.

Gli schiaffi ecologici si sono probabilmente verificati con frequenza relativamente grande in tempi pre-agricoli, quando gli esseri umani dipendevano più direttamente dalla produttività variabile di cibi selvatici della natura. Gli Aborigeni dell'Australia e i Nativi Americani – che sono spesso considerati degli ecologi intuitivi esemplari a causa delle loro tradizioni e rituali che contengono la crescita della popolazione, proteggono le specie-preda e affermano il posto dell'umanità all'interno del più ampio ecosistema – stavano probabilmente solo applicando le lezioni di un'amara esperienza. E' solo quando noi esseri umani veniamo schiaffeggiati forte in qualche occasione che cominciamo a valorizzare l'importanza di altre specie, contenere la nostra avidità e a imparare a vivere in relativa armonia con l'ambiente circostante. Il che provoca la domanda: i profeti dell'Antropocene Verde e Snello sono un primo campanello d'allarme del sistema della nostra specie la cui funzione è quella di evitare la catastrofe, o sono meramente avanti coi tempi, adattandosi in anticipo ad uno schiaffo ecologico che è prevedibile ma non ancora pienamente su di noi?

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Nella storia gli esseri umani sembrano aver vissuto sotto due distinti regimi: i momenti di boom e le ere oscure. I momenti di boom si sono verificati nella preistoria ogni qualvolta le persone giungevano in nuovi habitat per scoprire un'abbondanza di grandi animali-preda. I boom sono anche associati allo sfruttamento di nuove risorse energetiche (specialmente carbone e petrolio) e all'espansione di grandi città – da Uruk, Mohenjo-daro, Roma, Chang’an, Angkor Wat, Tenochtitlan, Venezia e Londra fino a Miami e Dubai. Il comportamento nel momento di boom ama il rischio, è sicuro di sé fino all'arroganza, espansivo e sperimentale. Gli storici usano il termine ere oscure in riferimento ai momenti in cui i centri urbani hanno perso gran parte della loro popolazione. Pensate all'Europa dal V al XV secolo, il Vicino Oriente dopo il collasso dell'Età del Bronzo intorno al 1200 prima dell'era cristiana, la Cambogia fra il 1450 e il 1863 dell'era cristiana o l'America Centrale dopo il collasso Maya del 900 dell'era cristiana. Il comportamento nelle ere oscure è conservativo ed evita il rischio. Viene riecheggiato negli atteggiamenti dei popoli indigeni che hanno vissuto in un luogo abbastanza a lungo da aver affrontato ripetutamente i limiti ambientali. La gente delle ere oscure non ha aggirato il Principio di Massima Potenza, hanno solo imparato (per necessità) a perseguirla con strategie più modeste. Non c'è bisogno di dire che le ere oscure hanno (ehm) il loro lato oscuro. Nelle fasi iniziali di tali periodi, un gran numero di persone di solito muore per le carestie, anche per la guerra ed altre forme di violenza. Le ere oscure sono periodi di oblio, un momento in cui le tecnologie e le conquiste culturali vanno spesso perdute. La scrittura, i soldi, la matematica e l'astronomia possono tutte scomparire. Eppure, questi periodi non sono uniformemente tenebrosi. Durante il Medioevo europeo, la schiavitù è quasi scomparsa in quanto i nuovi metodi di coltivazione e razze di cavalli e buoi migliori hanno reso il lavoro umano meno economico. Le persone che in precedenza sarebbero state condannate alla schiavitù sono diventate o lavoratori o, nell'ipotesi peggiore, servi della gleba. I secondi non potevano prendere e andarsene senza il permesso del loro signore, ma in generale godevano di una libertà di azione di gran lunga maggiore di quella degli schiavi. Allo stesso tempo, l'ascesa della Cristianità ha portato nuove attività ed istituzioni di beneficenza organizzate, compresi ospizi, ospedali e ricoveri per i poveri.

Oggi, quasi tutti nel mondo industrializzato hanno adottato il comportamento dei periodi di boom. Veniamo incoraggiati a farlo da messaggi pubblicitari incessanti e da ragazze pon pon governative della crescita economica. Dopotutto, abbiamo vissuto proprio nel più grande boom di tutta la storia umana – perché non aspettarsi di più di quello che c'è già? I soli schiaffi significativi nella recente memoria culturale sono stati la Grande Depressione e un paio di Guerre Mondiali. In confronto ai colli di bottiglia ecologici delle ere antiche sono stati affari secondari. Inoltre, sono stati relativamente brevi e si sono svolti tre o più generazioni fa. Per gran parte di noi adesso, il comportamento da era oscura appare inutile, pittoresco e pessimistico. Sarebbe perverso desiderare un Grande Schiaffo. Solo un sociopatico darebbe il benvenuto a una massiccia e diffusa sofferenza umana. Allo stesso tempo, è impossibile ignorare questi due fatti gemelli: la fiesta  popolazione-consumo della nostra specie sta uccidendo il pianeta ed è improbabile che porremo fine alla festa volontariamente. Eviteremo o affronteremo il Grande Schiaffo? Stiamo già vedendo i segnali iniziali dei problemi che avremo in eventi meteorologici estremi, prezzi del petrolio e del cibo alti e tensioni geopolitiche in aumento. Tristemente, sembra che verrà fatto ogni sforzo per far continuare la festa il più a lungo possibile. Anche in mezzo a segnali inequivocabili di contrazione economica, gran parte delle persone avrà ancora bisogno di tempo per adattarsi a livello comportamentale. Inoltre, uno schiaffo probabilmente non sarà improvviso e completo, ma si potrebbe dispiegare a fasi. Dopo ogni mini-schiaffo sentiremo dichiarazioni da parte di sostenitori dei periodi di boom duri a morire che un decollo tecno-utopistico è stato meramente ritardato e che l'espansione economica riprenderà se solo seguiremo questo o quel capo o programma politico. Ma se i centri urbani sentono il collasso e se vengono tratteggiate diffuse aspettative tecno-utopistiche, possiamo aspettarci di vedere le prove di una profonda frantumazione psicologica. Gradualmente, sempre più persone concluderanno – ancora, come risultato della dura esperienza – che la natura non è qui solo per noi. Che questa consapevolezza emerga dal meteo estremo, dalle epidemie o dalla scarsità di risorse, porterà una parte in continua espansione del popolino a malincuore a fare più attenzione alle forze al di là del controllo umano.


Proprio come gli esseri umani ora stanno plasmando il futuro della Terra, la Terra plasmerà il futuro dell'umanità. In mezzo ad un rapido cambiamento ambientale e sociale, il messaggio del Verde e Snello acquisterà una più ovvia rilevanza. Quel messaggio potrebbe non salvare gli orsi polari (anche se i programmi di protezione degli ecosistemi meritano tutto il sostegno), ma potrebbe rendere la transizione inevitabile ad una nuova modalità comportamentale di tutta la specie molto più facile. Potrebbe portare ad un'era oscura che sia meno oscura di quanto non sarebbe altrimenti, una in cui vengono preservate più conquiste culturali e scientifiche. In grandissima parte potrebbe dipendere dall'intensità e dal successo degli sforzi della piccola percentuale di popolazione che attualmente è aperta al pensiero Verde e Snello – successo nell'acquisizione di competenze, nello sviluppo di istituzioni e nel comunicare una visione avvincente di una società post boom desiderabile e sostenibile. Alla fine, l'intuizione più profonda dell'Antropocene probabilmente sarà una molto semplice: viviamo in un mondo di milioni di specie interdipendenti con le quali ci siamo co-evoluti. Noi scindiamo questa rete delle vita a nostro rischio e pericolo. La storia della Terra è affascinante, ricca di dettagli e si manifesta continuamente. E non riguarda solo noi.