martedì 25 novembre 2014

La dieta dimagrante del Leviatano - 2.

di Jacopo Simonetta

Nel precedente post sull'argomento "Leviatano" ho sostenuto che la crescita della società globale ed il deterioramento quali-quantitativo delle risorse ha avviato un processo di vera e propria auto-digestione della società,  a partire dalle categorie sociali più facilmente e remunerativamente attaccabili.   Se ammettiamo che questo sia un destino oramai ineluttabile, sorgono due domande importanti:


1 - Che effetto avrà questo sulle future generazioni?  

2 - Come possiamo difenderci?

Per quanto riguarda la prima domanda, occorre ricordare che un qualsiasi sistema vivente ha una certa capacità di recupero dopo uno shock.   E’ quello che chiamiamo “resilienza”.    In parole povere, la capacità di rialzarsi dopo una caduta o di guarire da una ferita.   Una capacità di recupero che può variare moltissimo, principalmente in ragione di due ordini di fattori: la capacità di adattamento del sistema e le riserve accumulate prima della crisi.  

A livello di ecosistemi, la resilienza dipende soprattutto dalla biodiversità e dalla versatilità delle specie-chiave del sistema, oltre che dalle riserve di acqua e di fertilità dei suoli.   Per fare un esempio, il taglio a raso di un bosco comporta un trauma fortissimo per l’ecosistema; ma se vi è una buona varietà di specie arboree, se queste hanno sistemi di recupero efficaci (semi persistenti, polloni, ecc.) e se i suoli non vengono danneggiati in modo sensibile, il bosco ricrescerà simile a come era prima.   Se, invece, sono presenti poche specie vulnerabili al taglio e/o se i suoli vengono erosi, la foresta potrebbe non tornare mai più.

A livello di economie complesse valgono gli stessi principi, ma le riserve sono in gran parte costituite dai patrimoni dei cittadini, esattamente quel “tessuto adiposo” che il Leviatano ha prodotto e che adesso sta riassorbendo.   Questa non è certo la principale minaccia per l’umanità.  La maggior parte dei nostri avi se la sono cavata abbastanza bene anche senza patrimoni, ma per noi il possesso di oggetti e denaro costituisce una necessità vitale, oltre che un punto di riferimento ed un valore identitario fondamentale.   E’ l’intera nostra civiltà che è stata costruita su questo valore ed è quindi normale che con essa scompaia, ma occorrerà riempire in vuoto che lascia e non sarà facile.
Alla seconda domanda (come possiamo difenderci?) penso che si debba rispondere “poco e male”.   Sebbene la maggior parte delle persone, in occidente, abbiano ancora buoni margini di benessere materiale, le possibilità di difenderlo dall’ auto-digestione della società di cui facciamo parte sono molto limitate.   Facciamo due esempi di beni-rifugio classici: le proprietà immobiliari ed i metalli preziosi.

Le proprietà immobiliari (case e terreni) costituiscono la forma di patrimonio di gran lunga più vulnerabile in quanto non possono essere nascoste.   E’ quindi perlomeno probabile che l’aumento del “pizzo” su di esse continuerà a salire finché non saranno state distrutte od acquistate da soggetti abbastanza in alto nella scala sociale da potersi difendere efficacemente.   O magari da essere essi stessi elementi costituenti di quegli “organi” che la struttura tende a salvare, sacrificandone altri.   L’Holomodor (la carestia in Ucraina negli anni 1930) è stato un evento particolarmente efferato di appropriazione di risorse, ma risultati analoghi sono stati perseguiti ed ottenuti più volte nella storia, senza bisogno di giungere allo sterminio.   I pogrom, gli insediamenti coloniali e le “pulizie etniche” ne sono esempi, fra i tantissimi possibili.

I metalli preziosi possono invece essere nascosti, ma non per questo sono scevri da rischi.   Tanto per cominciare possono essere rubati;  oppure il governo può imporne la requisizione e vietarne il commercio.   In questo caso, sarebbe naturalmente possibile conservarli segretamente, a condizione che del loro acquisto non esista traccia, ma comunque sarebbero inutilizzabili.   Tutte cose più volte accadute nella storia, anche in situazioni socio-economiche meno estreme di quelle che presumibilmente si verificheranno nel corso dei prossimi decenni in molte parti del mondo.

Ciò non significa, naturalmente, che beni immobili o metalli siano certamente inutili, o addirittura pericolosi.   Significa che è possibile che si rivelino utili o addirittura vitali in determinate circostanze, mentre risulteranno inutili o nocivi in altre e non possiamo sapere quali saranno le condizioni in cui ognuno di noi si troverà durante la rapidamente mutevole situazione storica dei prossimi decenni.

Ma se non possiamo difenderci dal Leviatano semplicemente perché siamo parte integrante di esso, non potremmo uscirne?   Una tentazione che si sta diffondendo.   Del resto, ritirarsi in solitudine od in piccole comunità in luoghi remoti è sempre stata una delle strategie di sopravvivenza durante le fasi di auto-digestione delle civiltà che ci hanno preceduto.   Ma neppure questa strategia è scevra di rischi ed è difficilmente attuabile in un mondo in cui luoghi remoti praticamente non ne esistono più.

Oggi si parla molto di “comunità resilienti” di varia natura ed esperimenti interessanti vengono condotti in varie parti del mondo, ma soprattutto in Occidente sia per la maggiore libertà d’azione di cui godiamo, sia per le maggiori risorse economiche di cui possiamo ancora disporre.   Ma porsi al di fuori dei circuiti commerciali che costituiscono il sistema vitale del Leviatano è un fatto decisamente sovversivo che tende a minare le fondamenta stesse del sistema.   Un sistema che finora è stato abbastanza sicuro di se da permettere a singoli od a piccoli gruppi di organizzarsi una vita semi-autonoma.   Ma via via che la difficoltà di alimentare i suoi sistemi vitali aumenterà, è molto probabile che certi comportamenti non saranno più tollerati.   Già oggi è praticamente impossibile avviare un qualsiasi esperimento di resilienza pratica senza contravvenire a qualche regolamento; è probabile che in futuro le regole si faranno più stringenti e complicate, i controlli più capillari e severi.
Rimane la reazione del topo nell’angolo, ovverosia ribellarsi cercando di uccidere il mostro che ci divora.  

Nel 2011 una serie di cattivi raccolti a livello mondiale e la conseguente speculazione sui prezzi delle granaglie hanno scatenato rivolte popolari in diversi paesi, alcuni dei quali nostri confinanti o quasi.   Al di la delle peculiarità di ogni situazione, si è trattato dell’esplodere dell’esasperazione di masse di gente stanca di farsi digerire da classi dirigenti corrotte ed incapaci.   Ma come è andata a finire lo abbiamo visto: in pratica solo la Tunisia, per ora, è riuscita a dotarsi di un sistema politico migliore del precedente, sia pure a prezzo di un drastico peggioramento della già pessima situazione economica.   In tutti gli altri paesi le “primavere” si sono rapidamente trasformate in conflitti endemici.
In sintesi, pare inevitabile che nei prossimi decenni la civiltà industriale sopravviva riassorbendo le riserve che aveva creato negli anni di “pasciona”.  

Di conseguenza, l’estrema povertà diventerà la regola per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, compresa la maggioranza di noi.    E non pare che vi siano scappatoie realistiche a questo destino.   Scoppi di violenza saranno inevitabili, ma potranno solo contribuire a distruggere ulteriormente quelle riserve che avrebbero potuto assicurare una buona base di partenza per ricostruire le civiltà del futuro.

Ma abbiamo detto che la resilienza dipende da due ordini di fattori: le riserve e la capacità di adattamento.    Se poco o nulla delle riserve potrà essere salvato, possiamo fare qualcosa per la capacità di adattamento?

Probabilmente si.   Magari non tanto da cambiare il destino dell’umanità, ma abbastanza da influenzare quello di persone, famiglie e, forse, interi paesi.
Da cosa dipende dunque questa capacità?   Fondamentalmente dalla rapidità con cui ci si adatta al divenire della situazione ambientale.   Dunque, rapportato alla nostra specie,dalla dinamicità culturale, ma soprattutto alla disponibilità a rimettere in discussione più e più volte gli assunti sulla cui base elaboriamo i nostri ragionamenti.    O, per dirla con gergo tecnico, dalla nostra disponibilità a cambiare rapidamente e ripetutamente i nostri archetipi.

Una cosa però tanto facile a dirsi quanto difficile a farsi.   Accumulare competenze “post-picco” come l’orticoltura sinergica, l’auto-difesa, la farmacopea galenica, la follatura della lana, la concia delle pelli e quant’altro sono infatti tutte cose importantissime, ma solo all’interno di una quadro psicologico e spirituale capace di resistere e reagire costruttivamente ad eventi che metteranno seriamente alla prova il nostro modo di percepire e concepire la realtà.

Se prendiamo lo schema di Daly, possiamo leggerlo in due modi diversi.    Se ci concentriamo sulle necessità, è ovvio che si deve leggere dal basso in alto, come la “piramide di Maslow” da cui è derivato:

Occorre prima di tutto accedere a delle risorse che, tramite le nostre capacità dovranno essere trasformate in beni e servizi.    Con questi, la politica e l’economia potranno assicurare, nei limiti del possibile, benessere materiale e coloro che saranno abbastanza “ben pasciuti” e protetti avranno modo di dedicarsi a cose come la scienza, l’arte, la filosofia.   E’ di questo che sostanzialmente si occupa l’ormai vasta letteratura “post-picchista”.

Ma se concentriamo l’attenzione sulle capacità necessarie per fare tutto ciò, lo schema deve essere letto esattamente al contrario: dall’alto verso il basso:  

Solo chi dispone di un sistema di valori capace di rimanere funzionale in condizioni di grave stress sarà in grado di elaborare dei comportamenti socialmente utili ed in tal modo contribuire a costruire quel capitale sociale che consente un uso del capitale materiale tale da conservare e, nei limiti del possibile, rigenerare le risorse.

In altre parole coloro che pongono al vertice dei propri valori il progresso tecnologico, il benessere materiale, i viaggi spaziali od altri prodotti della civiltà industriale, non troveranno molte ragioni per continuare a vivere.

Ma non bisogna farsi illusioni:
«In una tale condizione non c'è possibilità di alcuna attività di carattere industriale poiché il frutto di essa rimarrebbe incerto e di conseguenza non c'è coltivazione della terra, non c'è navigazione, non c'è uso di beni che possono essere importati attraverso il mare, non ci sono costruzioni confortevoli, non si fanno strumenti per spingere e trasportare cose che richiederebbero molta forza, non si fa computo del tempo, non ci sono arti, né letteratura, non esiste una società, e quella che è la cosa peggiore fra tutte è il continuo timore, e il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve.» (traduzione Wikipedia)

Sicuramente è il  passo più celebre del filosofo inglese, ma non descrive la vita dell’uomo primitivo, com’egli pensava; non più di quanto la descrivesse il mito del “buon selvaggio” di Rousseau.   Ho l’impressione che descriva invece molto bene l’uomo post-industriale.   Ma non per sempre.    L’esperienza insegna che situazioni di grave stress (guerre, carestie, miseria, ecc.) possono infatti evocare tanto il meglio quanto il peggio di noi.   Ed il peggio tende a prevalere nei tempi brevi, il meglio nei tempi lunghi per inderogabili ragioni evolutive:   Le persone che adottano un comportamento egoista possono infatti cavarsela meglio di coloro che adottano un comportamento oculatamente altruista, ma il contrario vale per le comunità  di cui costoro fanno parte.   E l’unità di sopravvivenza dell’umanità non è l’individuo, bensì la comunità.