venerdì 10 febbraio 2012

L'ondata di freddo e il cambiamento climatico: c'è una relazione?


 L'ondata di freddo nelle Marche - foto di Massimiliano Rupalti

L'articolo che segue è apparso il 7 Febbraio sul blog spagnolo "ustednoselocree". Segnalato da Antonio Turiel, ci è parso il caso di tradurlo e presentarlo ai lettori italiani. Certi riferimenti al ruolo dei meteorologi sono validi per la situazione in Spagna, tuttavia sono sensati anche per l'Italia e altri paesi. Anche da noi, spesso i  meteorologi non sono a loro agio con la scienza del clima. Certo, non tutti e basta pensare a Luca Mercalli e Luca Lombroso, per citare solo un paio di esempi. Ma ci sono, purtroppo, anche contro-esempi, come quello di Guido Guidi, di meteorologi che hanno abbracciato tesi anti-scientifiche in campo climatico. Quindi, questo articolo si può leggere come valido in termini generali nell'esaminare una questione fondamentale: se il grande freddo che ha colpito l'Italia, come tutta l'Europa, negli ultimi giorni sia da considerarsi come correlata al cambiamento climatico. Con tutta la prudenza del caso, la risposta sembra essere positiva - l'ondata di freddo artico che ci è arrivata addosso è parte della generale estremizzazione dei fenomeni climatici; a sua volta il risultato dal cambiamento climatico generalizzato (U.B.)

Traduzione di Massimiliano Rupalti

Di Ferran P. Vilar

Il meteorologo di riferimento del Gruppo Prisa, Florenci Rey, ha scritto il 2 di febbraio su El Pais, un articolo dal titolo “Quando la Siberia lascia la porta aperta”. Qui, segnalava che questo inverno, molto tiepido in tutto l'emisfero nord fino all'arrivo dell'ondata di freddo che ci invade adesso, iniziava ad essere conosciuto come “l'anno senza inverno”. Questi professionisti probabilmente hanno parafrasato il riferimento al 1816, conosciuto come “l'anno senza estate” ed il più freddo in 500 anni. Il motivo non fu altro che la presenza di eruzioni vulcaniche esplosive, in particolare del Tambora in Indonesia, i cui aerosol raggiunsero la stratosfera schermando così per mesi la radiazione solare (1). Rey nell'articolo si chiedeva: “Queste situazioni avverse sono una conseguenza del cambiamento climatico”? E si rispondeva: “Assolutamente no”. Alla fine del testo segnalava che:

Questi cambiamenti repentini in brevi lassi di tempo, un'alta variabilità meteorologica, possono essere l'inizio della traslazione del cambiamento climatico nell'area europea”(2).

Credo che sia la prima volta che vedo un meteorologo con una reputazione ben riconosciuta, far riferimento al cambiamento climatico nel caso di un fenomeno estremo. Per i meteorologi, non risulta facile fare associazioni di questo genere. Sono diversi i motivi, che vediamo qui e qui, ai quali vanno aggiunte gli obblighi ai quali i comunicatori sono tenuti dai media. Queste consistono, come minimo, in un'estrema prudenza, con la scusa di non ferire la sensibilità della gente, quando in realtà sono preoccupati per quella degli inserzionisti e dei vari sponsor che li frenano. Questi ultimi sono presenti sotto forma di grandi imprese oligopolistiche che non hanno bisogno di farsi pubblicità, ma stanno lì per qualcosa. Quindi, lo sforzo di Rey è meritorio. Tuttavia, questi punti potrebbero portare a confondersi poiché, apparentemente, le due affermazioni sono contraddittorie. Per questo motivo ho pensato di fare un po' di luce su questo argomento. Vedremo più avanti che affermare, come fa Rey, che questa situazione avversa non è la conseguenza del cambiamento climatico è azzardato. Dovrebbe, perlomeno, evitare tanta veemenza e assolutismo.

L'impossibilità di un'attribuzione concreta

Credo che la confusione provenga dal fatto che i nostri meteorologi mediatici sono "programmati," persino al loro interno, per ricordare, ad ogni occasione, che non è possibile attribuire una causalità diretta fra un fenomeno estremo concreto, ad esempio quello di cui stiamo parlando, ed il processo che si trova alla base del cambiamento climatico in corso. E' sicuramente così, poiché qualsiasi fenomeno può, all'inizio, esistere anche indipendentemente dal cambiamento climatico che ne sta alla base. Lo prova il fatto che ci si debba riferire al 1956 per trovare un'ondata di freddo di intensità simile a quella attuale (vedremo quanto dura). L'influenza del cambiamento climatico nei fenomeni estremi risiede non solo nella loro intensità ma, principalmente, nella loro frequenza. In quello che viene chiamato periodo di ritorno. Per esempio, l'Amazzonia ha già subito due episodi di siccità quasi consecutivi (2005 e 2010) di quelle da “una ogni cento anni” (3).

Nel 1956 il riscaldamento globale non solo non aveva l'intensità che ha oggi, ma in quel periodo  il processo di aumento della temperatura si era parzialmente arrestato a causa dell'immissione dell'atmosfera di particolato di zolfo e di carbonio. Effettivamente, l'imponente crescita economica di quegli anni portò alla costruzione di una grande quantità di centrali elettriche a carbone. Queste centrali non erano (ancora) obbligate a filtrare gli aerosol di zolfo risultato della combustione che   esercitano un effetto di schermatura solare, oltre ad essere la causa delle piogge acide. Ciò accade in modo simile, per gli effetti di cui ci occupiamo, a come accade per le eruzioni vulcaniche.

Cosicché il poggio (gli aerosol) faceva pari con la buca (l'aumento delle emissioni di CO2) e, fra il 1950 e il 1980, la temperatura è aumentata in modo trascurabile (4). Ricordiamo che l'aumento di temperatura veramente importante è avvenuto negli ultimi tre decenni, da quando la maggior parte delle centrali (occidentali) a carbone, dispongono di filtri per evitare che pietre, alberi e tutti noialtri finissimo per essere pasto dell'acido solforico. Non è quindi possibile attribuire una causalità diretta fra la concentrazione di CO2 ed i fenomeni estremi, perché le relazioni causa-effetto degli impatti del cambiamento climatico hanno una natura statistica. Così, con dati facilmente alla portata del pubblico, uno studente che stia per prendere la maturità avvertirebbe in tutta chiarezza che, a livello globale, questi estremi si producono con molta più frequenza oggi che nel passato e con magnitudini che sono statisticamente significative in relazione al progressivo aumento della temperatura. L'IPCC ha emesso di recente un rapporto a questo proposito (5).


La risposta è nell'Artico

Dico che affermare con assoluta certezza che questa ondata di freddo non ha nulla a che fare con il cambiamento climatico è azzardato perché questo è in contraddizione con la letteratura scientifica , che Rey dovrebbe conoscere. Questa non ha raggiunto conclusioni in merito, ma è da un po' di tempo che si chiede fino a che punto la riduzione del ghiaccio artico in un anno sia collegata con temperature invernali particolarmente fredde durante l'inverno successivo nell'emisfero nord. Alcuni, come il responsabile della sezione “atmosfera” del National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti, James Overland, lo hanno molto chiaro. Durante la conferenza scientifica dell'Anno Polare Internazionale di Oslo nel 2010 ha dichiarato:

“Gli inverni freddi e con la neve saranno la norma, non l'eccezione”. 

E lo attribuisce al cambiamento climatico (6).

La comunità scientifica si riferisce a questi episodi come al “Artico caldo/continenti freddi” (7), in quello che è stato battezzato giornalisticamente come il paradosso dell'Artico (8). Bisogna ricordare, qui, che la zona artica si riscalda ad una velocità dalle 2 alle 4 volte maggiore della media del pianeta, a causa del fenomeno conosciuto come amplificazione polare, elemento chiave di tutto il problema climatico. Ma si riscalda a partire da una temperatura molto più bassa di quella delle latitudini inferiori, di modo che, se questa tremenda velocità di riscaldamento alterasse, in alcuni modi e circostanze, gli schemi delle correnti atmosferiche ( vale a dire, anteriori al suo riscaldamento), l'Artico potrebbe cominciare a mandare aria molto fredda verso sud, quando si presentino queste circostanze.

Nel 2009, nella pubblicazione accademica Global Planetary Change, Dagmar Budikova, dell'Università dell'Illinois, ha rivisto il ruolo che la riduzione della superficie di ghiaccio nell'oceano Artico, risultato del cambiamento climatico, gioca negli schemi generali della circolazione atmosferica (9) e due studi su Geophysical Research Letters, condotti da ricercatori dell'Università di Rutgers e di un istituto di ricerca giapponese, titolavano rispettivamente: “Gli schemi meteorologici invernali dell'emisfero nord si accordano all'estensione del ghiaccio nell'Artico” (10) e “L'influenza dei minimi di ghiaccio marino nell'Artico sugli inverni anormalmente freddi in Europa” (11). Nel 2010, il già menzionato Overland assicurava, su  Tellus A, che:

“I cambiamenti nella circolazione atmosferica su grande scala sono associati alla recente perdita di ghiaccio nell'Artico” (12).

Cosa che è stata riaffermata nel rapporto annuale “Arctic Report Card” del NOAA del 2011 (13). Il ghiaccio esercita una funzione di isolamento fra l'oceano e l'atmosfera che si trova al di sopra, per cui questa può raggiungere temperature estremamente basse. Ma quando il ghiaccio scompare, la temperatura in superficie deve essere superiore alla temperatura di congelamento dell'acqua di mare, -1,8°C. In questo modo si trasferisce energia dall'oceano all'atmosfera, alterando così la pressione e la circolazione atmosferica e favorendo le fasi negative della cosiddetta oscillazione Artica (14).

Nella fase positiva di questa oscillazione, la pressione atmosferica sulla superficie della zona artica è alta e questo mantiene l'aria fredda confinata in questa regione. Al contrario, nella fase negativa, le basse pressioni nel polo nord provocano un flusso d'aria fredda a latitudini molto inferiori a quelle dalla fase positiva (15), potendo così giungere fino all'Europa del sud. E' come lasciare la porta del frigo aperta: l'interno si riscalda, ma il freddo si espande in casa. Forse Rey stava pensando a questa metafora  quando si riferiva all'apertura della porta della Siberia. Il freddo entra (in questo caso) dalla Siberia, ora più fredda del normale, ma il frigo sta al polo.




Relazione fra la neve in Siberia ed il Jet Stream stabilita da Judah Cohen (Foto: National Science Foundation)

Da parte sua, Judah Cohen, direttore del'Atmospheric and Environmental Research Inc., un'organizzazione privata di previsione climatica per grossi clienti, cerca da anni degli indicatori in grado di anticipare la severità degli inverni. Cohen assicura di aver individuato nella quantità di neve in Siberia l'elemento che permette di anticipare la severità degli inverni nell'emisfero nord, attraverso una catena di  eventi dalla superficie alla stratosfera.

Temperature più alte significano maggior evaporazione, maggior quantità di vapore acqueo nell'atmosfera e, in generale, maggiori precipitazioni (16), quindi qui abbiamo una prima connessione. Cohen ha anche sviluppato un metodo di previsione dell'indice dell'oscillazione dell'Artico, finora ritenuta imprevedibile (17) e, nel gennaio scorso, ha formalmente pubblicato le sue conclusioni su Geophysical Research Letters (18).


Nel frattempo, alla fine del 2010, ricercatori del  Potsdam Institute for Climate Impact Research, uno dei migliori centri di ricerca europei su questo argomento, hanno segnalato i mari di Barents e di Kara, nel nord est della Russia, come l'origine del processo. Hanno mostrato il meccanismo per il quale quando, alla fine dell'estate questi mari e a differenza di quanto avviene normalmente, avessero perso la calotta di ghiaccio e si fossero riscaldati in modo significativo, negli inverni a seguire avrebbero prodotto ondate di freddo particolarmente forti (19). Secondo Vladimir Petoukhov, uno degli autori del lavoro:

“Chiunque pensi che l'assottigliamento di un ghiaccio lontano non abbia effetti si sbaglia di grosso. Nel sistema climatico esistono interconnessioni complesse e nei mari di Barents-Kara potremmo aver scoperto un potente meccanismo di retroazione positiva” (20).

Le condizioni dell'attuale episodio suggeriscono causalità

Bene. La superficie di ghiaccio dell'Artico nel 2011 si è ridotta in modo tale da raggiungere il minimo storico, dopo quello record del 2007 (21). Ma non solo questo. Quando, a partire dalla seconda metà dello scorso settembre, il ghiaccio marino Dell'Artico ha ripreso a formarsi, nei mari di Barents e Kara ciò non è avvenuto. Perlomeno fino alla fine di dicembre, come indicano esplicitamente gli ultimi dati  del National Snow and Ice Data Center (NSIDC) degli Stati Uniti (22). Di sicuro il ghiaccio nell'Artico non è mai stato così ridotto a Gennaio, come Gennaio scorso. Per catalogare un anno, nella graduatoria della superficie di ghiaccio dell'Artico, si è soliti aspettare il minimo annuale, sempre a settembre.  Ma se lo troviamo a gennaio, come si vede nel grafico, siamo di fronte al record assoluto. E se misuriamo il volume di ghiaccio, invece della superficie, osserviamo che la velocità di diminuzione è molto più alta. Al punto che si ritiene che il suo “ tipping point ” (punto di non ritorno) sia già stato superato (23). Quindi 1) si sta discutendo sulla relazione fra il cambiamento climatico e le ondate di freddo nell'emisfero nord in generale e si segnalano i mari di Barents e Kara come mediatori del processo; 2) i mari di Barents e Kara sono rimasti senza ghiaccio anche fino a dicembre; 3) l'oscillazione dell'Artico, da alcune settimane, è passata ad una fase molto negativa, da record (24; vedere grafico allegato con dati fino al 06.02.2012) e 4) si è prodotta un'ondata di freddo di particolare intensità che arriva fino all'Europa del sud.


Come può uno, a queste condizioni, chiedersi se c'è relazione fra una cosa e l'altra e rispondere “assolutamente no”? In termini medici, la diagnosi potrebbe forse non essere definitiva, ma senza dubbio la si riterrebbe compatibile col cambiamento climatico. Come sempre accade in un sano processo di avanzamento scientifico, prima di giungere a conclusioni definitive ci sono voci che manifestano prudenza o anche disapprovazione. Queste voci dicono che dobbiamo aspettare ancora per confermare il fenomeno in modo definitivo (28). Se in questa circostanza non è stato ancora attribuito il valore di verità scientifica definitiva è per due motivi. Uno è che non è certo quale sia l'uovo e quale la gallina (25). Ma c'è una correlazione significativa (non completa) e un meccanismo che è riprodotto nei modelli, cosa che induce a creder di più alla causalità che non alla casualità, anche se non è detta l'ultima parola (26). L'altra, conseguenza della prima, è che, per ora, non è possibile scartare la presenza di altri fattori (27) poco conosciuti, che siano o meno collegati all'alterazione dei meccanismi atmosferici risultanti dal cambiamento climatico che si trova alla base, sebbene questo sia già tanto come supposizione a questo punto. Alla fine, be', siamo in inverno. E di tanto in tanto queste cose accadono, anche col riscaldamento globale.

Il possibile significato della repentinità e dell'anticipo del cambiamento di stato

Alla fine, Florenci Rey fa riferimento alle improvvise discontinuità in un breve lasso di tempo come, lì sì, ad una manifestazione europea del cambiamento climatico di base. Anche questo richiede un chiarimento. Il cambiamento climatico in sé non è qualcosa che va necessariamente a causare improvvise discontinuità, salvo che con ciò non intendiamo l'aumento della frequenza dei fenomeni estremi, in particolare siccità e piogge torrenziali di intensità crescente rispetto a quanto registrato statisticamente e che non devono avvenire necessariamente in uno stesso luogo o momento. La stessa cosa si applica alle ondate di calore e a quelle di freddo. L'aumento progressivo delle temperature medie produce delle conseguenze nei raccolti e nel regno vegetale e animale molto più grandi di quanto i nostri sensi ci facciano supporre e provoca l'aumento del livello del mare, per adesso ancora incipiente ed appena percettibile.

Il problema delle improvvise discontinuità e di maggior variabilità risiede in qualcosa di qualcosa di ancora più preoccupante. Nella sua ricerca di indicatori che anticipano il cambiamento di stato del sistema climatico, o di qualsiasi suo sottosistema (i cosiddetti tipping points ), la comunità scientifica ha determinato che i sistemi in generale presentano particolari caratteristiche poco prima di passare ad un nuovo stato (29, 30, 31, 32, 33). Fra queste caratteristiche ci sono oscillazioni di maggior ampiezza. Bisogna segnalare, tuttavia, che questa ipotesi ha anche detrattori qualificati che segnalano che non è possibile fidarsi del comportamento di queste variabili a questo scopo e, alcuni, arrivando a ritenere questo tentativo un “wishful thinking” (Una pia illusione) (34) o segnalando che le transizioni potrebbero anche prodursi senza alcun preavviso (35, 36). Dato che non è concepibile che Rey, nell'esprimersi sulla repentinità, stesse dicendo il contrario di ciò che nella frase precedente negava con assolutezza, si può ritenere che si riferisse a ciò che ho appena descritto.

Meteorologi avanti e indietro

E' come se i meteorologi, le cui previsioni assicurano oggi un precisione considerevole, fossero avanti col tempo meteorologico ma fossero sempre indietro rispetto al clima. Dopo che da più di 30 anni si conosce il problema climatico, cominciano, timidamente, a parlarne pubblicamente, ma lo fanno quando i fenomeni potrebbero indicarci che il sistema si sia già destabilizzato e ci stiamo avvicinando ad un nuovo stato climatico, che non è una cosa qualsiasi. Ovviamente, è qualcosa di molto peggio e dalle conseguenze di un ordine di grandezza molto superiore a quelle di una ondata di freddo come quella attuale, che sia essa causata o meno dalla deglaciazione dell'Artico. Questi professionisti avranno sulle loro spalle, fra qualche anno, la responsabilità di aver avuto un posizione pubblica privilegiata dalla quale potevano avvertirci in tempo di quanto stava accadendo – favorendo così l'azione popolare e politica – e di non averlo fatto. Bene, diranno che non era un loro compito, che il tempo meteorologico è altro rispetto al clima. Per questo motivo occorre riconoscere il valore della relazione di Florenci Rey, anche con le sue debolezze.

Concludendo, potremmo avere la tentazione di credere che questi episodi particolarmente freddi compensino quelli più caldi di altri periodo dell'anno. Questo non è vero in nessun modo, poiché non solo le medie in spazio e tempo della temperatura continuano ad aumentare anno dopo anno (37), ma anche gli inverni, nonostante la loro maggior variabilità, sono per lo più caldi: sette degli inverni del primo decennio di questo secolo sono stati più caldi di un inverno medio fra il 1950e il 1980. E in estate la relazione è, qui sì, assoluta: 10/10 (38, 39).

A Complemento

Il meteorologo statunitense Jeff Masters racconta l'oscillazione dell'Artico alla National Public Radio e prevede molto freddo per quel che resta dell'inverno (audio in inglese ).

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I riferimenti bibliografici numerati si trovano a questo link.