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giovedì 30 marzo 2023

Gli Italiani possono ancora permettersi un'automobile?

 


Nel 1960, una Fiat 500 costava circa 400.000 lire, mentre lo stipendio di un operaio era intorno alle 50.000 lire al mese. Ovvero, un operaio investiva circa 8 mesi di salario per comprarsela. Oggi, una Panda base costa circa 15.000 euro, mentre il salario medio di un operaio è di circa 20.000 euro all'anno e pertanto l'investimento è di circa 9 mesi. Sembrerebbe che il rapporto prezzi/salario non sia cambiato molto negli anni, ma ci sono altri calcoli che danno risultati un po' diversi. Per esempio, nel 1975 una Fiat 500 costava un milione di vecchie lire, che secondo "business people" equivalevano a circa 6000 euro. Oggi, la 500 Fiat costa circa 17.000 euro di base.

E questi sono solo dati relativi ai modelli "base," ovvero senza accessori. Ma se negli anni '70 ti portavi a casa la 500 senza bisogno di accessori particolari, oggi sembra impossibile evitare vari aggeggi solo teoricamente opzionali, tipo l' "infotainment," l'aria condizionata, sensori, telecamere, eccetera. Uno potrebbe anche non volerli, ma si trova poi ad avere un veicolo di poco valore sul mercato dell'usato. 

Il passaggio all'elettrico, in se, non sembra un fattore determinante che influisce sul prezzo. A parità di caratteristiche, una macchina elettrica costa oggi un 20%-30% più di una convenzionale, ma è un costo che si recupera con i minori costi di manutenzione e consumi. Il veicolo elettrico, di per se, è più semplice di uno tradizionale, fra le altre cose non ha bisogno di una scatola cambio e usa un numero di pezzi molto minore per il motore e non c'è ragione per la quale un auto elettrica debba costare di più di una tradizionale. Anzi, fra qualche anno i veicoli elettrici costeranno sicuramente meno di quelli tradizionali

Il problema è un altro, ed è ben più difficile di quanto non sembri dalle buffe polemiche "elettrico-si, elettrico-no" che vanno per la maggiore in Italia. E' proprio il sistema produttivo che sta andando in crisi, insieme a tutto l'apparato sociale ed economico che una volta riuscivano a mettere a disposizione del "popolo" un veicolo a motore in grado più o meno di portare in giro tutta la famiglia per la città e in vacanza in Estate. In Italia, avevamo la Fiat 500, in Francia c'era la 2CV, la mitica macchina che poteva portare in giro "quattro contadini con il cappello in testa," poi c'era la Renault "4" e, ovviamente, il veicolo che aveva dato inizio alla motorizzazione di massa in Europa, l'ancora più mitico "Maggiolino" Volkswagen. 

Ora non esiste più niente che si possa considerare equivalente alla vecchia Fiat 500. E' vero, esistono le "Minicar" ma per legge sono limitate a 2 posti e a una velocità massima di 45 km/h. Sono mezzi utili per tante cose, ma provate a portarci la famiglia al mare, e vedete un po' come vi trovate. E anche le minicar sono care per chi non ha uno stipendio fisso, per chi è un precario vagante, per chi deve accollarsi i costi del mantenimento dei genitori non più autosufficienti in una società che sta invecchiando sempre di più. Poi ci sono altri fattori, come tasse, consumi, sanità, eccetera. Insomma, al momento molte famiglie hanno ancora un'automobile, ma non sappiamo per quanto tempo questo sarà ancora possibile mantenerla con il declino economico in corso. Se le cose continuano così, vedremo una rapida riduzione, un vero "collasso di seneca" della diffusione degli autoveicoli.

In pratica siamo di fronte alla necessità di grossi cambiamenti per mantenere in piedi un sistema che possa garantire un trasporto che permetta alla popolazione di spostarsi. Il sistema attuale è stato costruito in gran parte con l'idea che il trasporto fosse in gran parte affidato al mezzo privato: autostrade, strade di grande comunicazione, strade a multi-corsie, tutte cose che esistono per i pendolari che si spostano dalle periferie al centro città con dei mezzi privati, perlomeno fino a raggiungere dei parcheggi scambiatori dove si possono trasferire su mezzi pubblici. 

E ora, cosa facciamo? Passare tutto al trasporto pubblico? Questa è la soluzione spesso sbandierata in giro, senza però rendersi conto il trasporto pubblico è meno costoso di quello privato soltanto lungo le tratte ad alto traffico, ma molte periferie delle nostre città non sono state pensate in per questo. Sono una dispersione di palazzine e casette che richiederebbero una diffusione capillare del trasporto pubblico che avrebbe costi fuori del concepibile (e in America le cose sono ancora peggiori). E non è che l'esperienza del trasporto pubblico sia poi così piacevole. Non so voi come vi trovate con il servizio nella vostra città, ma mi sembra che in nessun luogo la gente sia tanto soddisfatta di autobus strapieni, e spesso in ritardo. 

Se vogliamo farci un'idea di come potrebbe essere una città pensata per il solo trasporto pubblico con bus e metropolitana, dobbiamo pensare alle città dell'Unione Sovietica, dove i veicoli privati erano scoraggiati. Gli abitanti vivevano più che altro in grandi blocchi alti una ventina di piani che potevano essere serviti dal trasporto pubblico senza bisogno di disperdere troppo le linee. Vi posso dire per esperienza personale che questi edifici sono molto pratici e confortevoli, almeno finché gli ascensori funzionano (anche quelli sono un mezzo di trasporto un po' a rischio). Ma in Italia cosa facciamo? Demoliamo le periferie urbane costruite in 50 anni è più di sviluppo totalmente disordinato per ricostruirle in stile sovietico? Diciamo che non è un'idea facilmente realizzabile. 

E allora? Possiamo sempre andare a piedi o in bicicletta, o perlomeno questo è quello che i nostri ambientalisti suggeriscono. Il problema è che le città che si sono ingrandite e "gentrificate" forzando la popolazione a vivere in periferie lontane dai posti di lavoro. L'uso stesso delle automobili ha ridotto la densità abitativa per lasciare spazio a strade larghe e spazi per i parcheggi. Poi, il territorio italiano non è così piatto come in Olanda e in Danimarca, dove le biciclette sono molto più usate che da noi. Insomma, anche qui, o rivoluzioniamo una situazione urbanistica che si è evoluta a diventare quello che è oggi in almeno 50 anni, oppure ci rendiamo conto che certe "soluzioni" non lo sono. 

Possiamo ridurre le necessità di trasporto decentrando le attività produttive e commerciali? In parte si, ma la crisi Covid ci ha fatto capire molte cose sui limiti del "telelavoro"; va benissimo per tante cose, ma il contatto umano è necessario per tante altre. Soltanto per la scuola, seguire le lezioni a casa potrebbe aver rovinato un'intera generazione di ragazzi.  

Cosa resta? Beh, dovremmo perlomeno cercare di capire che il problema esiste e che non lo si risolve semplicemente passando dai motori termici a quelli elettrici -- anche se certamente aiuterebbe molto a ridurre costi e inquinamento. Per il momento, abbiamo ancora bisogno di veicoli su gomma in grado di assicurare quel trasporto capillare che è reso necessario dalle strutture urbanistiche attuali. L'industria automobilistica dovrebbe pensare a produrre veicoli elettrici a basso costo invece che concentrarsi sui soltanto sui veicoli di alta gamma, come fanno adesso. E' comprensibile, l'industria fa più soldi sui veicoli costosi che su quelli a basso prezzo. Ma bisognerebbe che i governi facessero qualcosa per incoraggiare veicoli tipo "minicar" ma più capienti e più multiuso degli attuali. Insomma, una vera "auto del popolo" come lo erano le Fiat 500 al loro tempo. 

Più a medio termine dobbiamo cominciare a pensare al concetto di "TAAS" "transport as a service," che è sostanzialmente un car-sharing esteso che riduce i costi permettendo di utilizzare di più i veicoli, e quindi ridurne il numero. E' un sistema integrato che fa uso anche di veicoli stradali su gomma, tipicamente elettrici, e che, in linea di principio, è compatibile con la situazione urbanistica attuale e non ci costringe a demolire intere periferie.

Lo so che a questo punto c'è chi si metterà a gridare, "volete portarci via le nostre macchine!" Qui, il soggetto del verbo "volete" è visto come il WEF, Klaus Schwab, Bill Gates, il Club di Roma, gli ambientalisti, gli Gnomi di Zurigo, il Grande Vecchio di Montecatini, o chi altro gestisce le fila del grande complotto internazionale. Ma se il soggetto del verbo è piuttosto "le circostanze," intese come esaurimento delle risorse, inquinamento diffuso, e crisi generalizzata della società industriale, allora è proprio così. In tempi non lunghi, l'auto di proprietà è destinata a sparire come oggetto di massa -- un po' come sono oggi i jet privati e una volta erano le carrozze a cavalli con il fiaccheraio personale. 

Ci adatteremo? Per forza. 






mercoledì 5 maggio 2021

Idrogeno: I Veicoli Elettrici Sono Molto più Efficienti


Vi passo qui di seguito (cortesia di Veronica Aneris) l' "Executive Summary" del recente rapporto di "Transport and Environment" a proposito dell'idrogeno come combustibile per veicoli stradali. La conclusione è ed era scontata: l'idrogeno semplicemente non è comparabile con le batterie, specialmente in vista della transizione verso le rinnovabili. Tuttavia, sembra che anche le cose scontate debbano essere spiegate ai nostri decisori politici. Quindi ecco il riassunto, per il rapporto completo, questo è il link. .




Executive Summary

Quale deve essere il ruolo dell’idrogeno nel futuro del trasporto su strada? Sempre più frequentemente ne sentiamo parlare come soluzione strategica per la decarbonizzazione del settore. L’attenzione al tema si è intensificata notevolmente negli ultimi mesi in seno al dibattito sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tuttavia, malgrado la centralità che gli viene conferita, i limiti dell’utilizzo dell’idrogeno come soluzione per decarbonizzare il trasporto su strada sono molteplici e noti da tempo.

Primo fra tutti l’efficienza energetica, che nel caso dei veicoli a idrogeno a celle combustibili è meno della metà rispetto agli elettrici a batteria. L’idea di utilizzare l’idrogeno come vettore energetico non è nuova. L’enfasi nei confronti dell’“economia basata sull’idrogeno” risale all’ottimismo degli anni ‘50 quando l’energia nucleare aveva fatto nascere il sogno - mai divenuto realtà - di un'energia abbondante e a basso costo. Un secondo - temporaneo - picco di interesse nei confronti di questa tecnologia si è manifestato con l'avvento delle energie rinnovabili nei primi anni del 21esimo secolo. Quello che ha sempre tagliato le gambe all’idrogeno è stata la bassa efficienza associata al processo di produzione, distribuzione ed utilizzo.

Oggi la presa di coscienza politica nei confronti della crisi climatica in atto e la necessità di decarbonizzare l’economia in tempi brevi ha generato un nuovo ritorno di interesse nei confronti di questa tecnologia. Di fatto l’idrogeno verde, prodotto al 100% da fonti rinnovabili, può rappresentare una soluzione importante nel complesso puzzle delle differenti tecnologie che si renderanno necessarie per raggiungere l’obiettivo europeo di zero emissioni nette al 2050. Se da un lato il tallone d’Achille dell’idrogeno - la sua bassa efficienza - resta uno dei limiti principali al suo sviluppo, dall’altro l'imprescindibilità dell’obiettivo di decarbonizzazione potrebbe giustificarne l’utilizzo in quei settori dove non esistono alternative migliori, più efficienti e meno costose, come ad esempio i settori hard-to-abate o l’aviazione.

L’impellenza di effettuare rapidamente la transizione ad un’economia climaticamente neutrale ha però messo in campo una nuova sfida di portata considerevole: il dispiegamento in tempi brevi di grandi quantità di energia rinnovabile. Questo obiettivo è particolarmente sfidante per il nostro paese, per il quale la velocità di installazione di rinnovabili è largamente inferiore a quella necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici 2030 e 2050. L’attuale frazione di energia rinnovabile prodotta è troppo piccola e troppo preziosa perché si possa pensare di sprecarne oltre la metà in processi inefficienti quando vi sono alternative migliori. Se l’impegno dei governi a raggiungere la neutralità climatica è serio, l’efficienza energetica non può certo essere un’opzione e va messa al primo posto. Il criterio alla base della scelta di qualsiasi percorso di decarbonizzazione deve essere quello di favorire - ove possibile - l’impiego di tecnologie a maggior rendimento, minimizzando la necessità di energie rinnovabili addizionali necessarie per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette.

Per il trasporto su strada, che nel frattempo ha visto l’affermazione della mobilità elettrica, largamente più efficiente, meno costosa e già tecnologicamente matura per molti segmenti, l’utilizzo dell’idrogeno non è giustificabile, se non in applicazioni di nicchia, né lo è lo spazio che esso occupa nel dibattito politico attuale italiano sulla transizione energetica. Non a caso alcuni emeriti esponenti della comunità scientifica italiana hanno definito “follia energetica” l’attenzione dedicata all’idrogeno nella definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per tutti quei settori che non siano specificatamente nautica, aeronautica e grandi produzioni industriali (Energia per l’Italia, 2021).

Molte sono inoltre le questioni che ruotano intorno al tipo di idrogeno utilizzato, i costi di produzione e trasporto, e la prontezza commerciale dei veicoli. Questo briefing ha l’obiettivo di fornire alcune informazioni di base rispetto all'attuale catena di produzione, trasporto e distribuzione dell'idrogeno, lo stato dell’arte del mercato e l’eventuale ruolo che può giocare nella decarbonizzazione del trasporto terrestre.

La lettura dei documenti, dei progetti, delle esperienze e della letteratura tecnica e scientifica relativa alle applicazioni dell’idrogeno, quale vettore e stoccaggio energetico, nel settore dei trasporti terrestri, dimostra che non costituisce una strada percorribile e utile per la decarbonizzazione del settore. Anzi, nel caso di competizione tra risorse scarse, è di ostacolo ad altre alternative ambientalmente ed economicamente preferibili, come l’elettrificazione.

Per i veicoli leggeri la risposta alla decarbonizzazione è rappresentata dalla tecnologia elettrica a batteria e in questo senso il mercato ha già deciso. Per i veicoli pesanti, le economie di scala associate al rapido sviluppo del mercato delle auto elettriche amplificano il business case per i camion a batteria e sempre più numerosi sono gli annunci dei produttori di camion sulla messa in produzione di serie di autocarri elettrici, mentre i camion a idrogeno sono ancora in fase prototipale e bisognerà attendere almeno il 2026 per vederne la messa in produzione di serie in Europa.

Per il trasporto merci di lungo raggio (>500km) non è ancora chiaro se la mobilità elettrica sarà in grado di avere tutti i requisiti necessari per sopperire alle esigenze della logistica merci in termini di autonomia e tempi di ricarica. Ma il buon senso da un lato e lo stato dell’arte attuale della tecnologia e del mercato dall’altro indicano che il ruolo dell’idrogeno nella decarbonizzazione del trasporto su strada, se mai ne avrà uno, resterà limitato ad applicazioni di nicchia (decine di migliaia di mezzi, rispetto a milioni). Per queste ragioni è opportuno sviluppare ricerche e sperimentazioni, ma non accettabile lo sviluppo di progetti industriali, come per altro emerge con evidenza dai pochi progetti concreti tra le proposte del PNRR.


Rapporto completo

domenica 26 marzo 2017

Il motore a scoppio: ormai obsoleto come la locomotiva a carbone





L'articolo che segue, di Enrico De Vita, è stato pubblicato su "Automotive Dealer Report" di Febbraio 2017. Il suo limite è che non riporta riferimenti che che ci consentano di verificare le affermazioni dell'autore, alcune delle quali sembrano piuttosto discutibili. Ma, nel complesso, l'articolo sembra corretto nel descrivere una situazione disastrosa, soprattutto in Europa, per la gestione di un gigantesco parco veicoli per i quali tutti i trucchi possibili sono stati applicati per far sembrare che le emissioni fossero più basse di quello che sono. (E c'è anche di peggio di quello che trovate in questo articolo). 

La conclusione di De Vita è anche quella interessante: molto del disastro in corso è dovuto a una legislazione che vedeva nella cilindrata il parametro principale da tassare nei veicoli. Questo ha portato a costruire dei motori di piccola cilindrata "pompati" in vari modi per migliorare le prestazioni, anche a costo di peggiorare le emissioni. Un ulteriore esempio, se ce ne fosse stato bisogno, della miopia legislativa che spesso ottiene l'esatto contrario di quello che si propone di ottenere. La conclusione di De Vita è che bisognerebbe tornare a motori di più grande cilindrata. Questo migliorerebbe un po' le cose, ma ormai è troppo tardi. Il motore a combustione interna ("a scoppio") è altrettanto obsoleto delle locomotive a carbone. E' tempo di passare alla trazione elettrica. 

(ringrazio Leonardo Libero per la segnalazione)


La Faccia Nascosta del Dieselgate

di ENRICO DE VITA

Da 40 anni si misurano al banco consumi ed emissioni secondo metodi unificati. Da 15 anni si sa che i consumi sono “addomesticati”, sia perché rilevati a velocità limitate, a basso numero di giri e con potenze ridicole, sia perché l’esemplare messo al banco è oggetto di “delicatezze” particolari. Ma nessuno aveva mai messo in dubbio le emissioni. Nel 2015, allo scoppio del caso VW, avevamo detto chiaramente che uno aveva confessato, ma molte altre Case europee baravano sull’inquinamento sfruttando le maglie dei regolamenti. E da qualche mese l’elenco degli indagati si è allungato. Tuttavia, c’è ancora una faccia che non è stata portata alla luce. E che ribalta completamente i termini del problema: eccola.

La storia dell’antinquinamento nasce in California, attorno al 1967, non tanto per un problema di salute quanto di pulizia dell’aria. Era lo smog fotochimico, la cappa rugginosa che incombeva su Los Angeles, ben nota a chi scrive che in quel tempo lavorava per la Moto Guzzi a vendere le “V7” alla polizia californiana. A provocare lo smog nell’atmosfera era la combinazione di vapori di benzina e di ossidi di azoto (NOx), sotto l’azione dei raggi del sole. La benzina evaporava generosamente dai grossi carburatori delle auto, gli ossidi di azoto provenivano da tutto ciò che brucia in presenza di aria, quindi riscaldamento, industrie, cucine e motori. Il primo dispositivo introdotto fu un filtro a carboni attivi per raccogliere tutti i vapori che uscivano dal serbatoio e dal carburatore. Ma non bastava perché allo scarico c’era sempre benzina non combusta e altri idrocarburi non ossidati (HC).

E c’era soprattutto l’ossido di carbonio (CO), il gas che uccide se respirato per pochi minuti. Onde, i rimedi – pensati solo per i motori a benzina e resi obbligatori in California nel 1970 - furono: iniezione (sigillata) al posto dei carburatori, marmitta catalitica ossidante. Di auto diesel, negli Usa, a quei tempi, non c’era traccia. E anche oggi siamo sotto l’1% del parco.

Aria per diluire

A quei tempi, in Europa non si parlava di inquinamento atmosferico, ma si individuava nell’ossido di carbonio, CO, il gas pericoloso, che poteva diventare letale. Per rimediare si posero limiti alla emissione di CO al minimo. Ricordate il bollino blu?

Per le vetture esportate negli Usa si adottò invece una pompa che soffiava aria direttamente nel tubo di scarico in modo da diluire la concentrazione di CO nei gas (MG, Triumpf, Austin Healey, Jaguar). In tal modo la percentuale di CO allo scarico risultava inferiore. Non, ovviamente, la quantità totale. Ma per i regolamenti andava bene così.

In alcuni modelli, particolarmente ricchi di benzina, c’era anche un postcombustore nel tubo di scarico, alimentato con aria esterna.

Tuttavia negli Usa si volle andare oltre e nel 1973 si rese obbligatorio il catalizzatore trivalente, ovvero la marmitta dotata di un sensore chiamato sonda Lambda, in grado di mantenere sempre perfetta la miscela aria-benzina. In termine tecnico si dice: “in rapporto stechiometrico”, cioè senza una goccia di benzina in più di quella che può bruciare completamente. Questa è in pratica la favola che ci è stata raccontata per anni. La favola lasciava intendere che il catalizzatore trivalente riduceva a zero sia CO, sia HC, sia infine gli ossidi di azoto.

Il diesel non è benvenuto

Dal 1973 in avanti i dispositivi antinquinamento per le auto a benzina sono rimasti sostanzialmente gli stessi, mentre sono cambiati notevolmente i limiti per le emissioni e le norme di misura. In particolare sono diventati sempre più stringenti i limiti per gli NOx, anche se negli Usa le auto diesel non sono benvenute. O, forse, non lo devono essere.

E in Europa? Si cominciò a parlare di inquinamento dovuto al traffico (sempre addebitato alle auto e non al trasporto delle merci) solo nel 1987. Fu la Ford Europa la prima a farlo, ma per i quotidiani l’auto non inquinava, era un tabù. E così il catalizzatore venne osteggiato per molti anni, perché troppo costoso e perché le Case che non esportavano negli Usa sostenevano di poterne fare a meno.

Tuttavia dopo 5 anni di gestazione della benzina senza piombo, la cosiddetta “verde” che verde non lo era affatto, anzi, la soluzione del catalizzatore venne infine adottata nel 1992 (qualche anno prima per le cilindrate maggiori). In pratica l’Europa si mosse in ritardo di 20 anni rispetto agli Stati Uniti, ma recuperò in una notte il gap. Infatti i limiti adottati furono quelli – più severi - in vigore negli Usa nel 1992.
                                                                                        
Il viziaccio di fumare

Per i diesel, invece, l’Europa si era mossa in anticipo. Non per limitare CO ed HC, visto che il motore a gasolio lavora sempre in eccesso d’aria e brucia completamente il combustibile, ma per ridurre il vizio del fumo (nero) che alcune Case avevano ereditato allegramente: troppo facile spremere cavalli lavorando sulla mandata di gasolio. Complice anche la sua scarsa qualità e le elevate percentuali di zolfo, si impose un esame ottico della trasparenza allo scarico: molti ricorderanno i famosi opacimetri. Ma la vera spada di Damocle per il motore a gasolio fu l’accusa di essere il principale produttore di particolato, ovvero il PM10. In realtà, le polveri sottili misurate dalle centraline sono per l’80% un prodotto secondario, ovvero qualcosa che si forma nell’atmosfera dalla combinazione di sostanze già presenti, in particolare: un nucleo acido (al quale contribuiscono sia gli NOx prodotti da tutte le combustioni, sia l’anidride solforosa), tutti i composti organici contenenti H e C (combustioni incomplete, vapori di benzina e solventi, terpeni e oli emessi dalle piante). Morale il diesel automobilistico venne caricato di tutte le responsabilità in merito al particolato.

Pertanto, dal 1992, il motore a benzina ebbe vita facile e limiti abbordabili a basso prezzo, mentre per il diesel la vita divenne ogni giorno più dura. Con l’obbligo di adottare:
•    EGR, per ridurre la temperatura di combustione al minimo e limitare la formazione di NOx;
•    Marmitta catalitica ossidante, per bruciare le particelle di carbone e ridurre il particolato;
•    Filtro antiparticolato, per abbattere totalmente la presenza di PM 10 e di PM 2,5.

Errore madornale

Siamo giunti al 2008, la questione ambientale viene combattuta esclusivamente contro il diesel, nonostante sia il motore che garantisce “gratuitamente” un risparmio attorno al 30% di CO2 (che è un gas serra, non un veleno come troppi amministratori e politici hanno creduto). Ambientalisti poco informati, memori del fumo nero, trovano nel diesel il mulino a vento contro cui lanciare strali, ma anche la competizione industriale fa la sua parte. Perché Usa e Giappone limitano così tanto gli NOx pur non avendo un parco auto a gasolio di una certa consistenza? Notoriamente il diesel automobilistico è un’eccellenza europea e, neppure a farlo apposta, i cicli di misura al banco (sia quelli europei, sia quelli Usa) prevedono molte fasi col motore al minimo, proprio quando gli NOx (che sono un segnale di combustione perfetta) sono al massimo. Volete sapere ciò che pensa il legislatore americano degli NOX? Ecco:

“Gli ossidi di azoto sono una famiglia di gas molto reattivi che giocano un ruolo importante nella combinazione con composti organici volatili (VOC) che produce ozono (smog) nelle calde giornate estive. Respirare ozono può condurre a svariati problemi di salute, quali dolori al petto, tosse, irritazione di gola e congestioni. Respirare ozono può peggiorare le condizioni precedenti di bronchiti, enfisema e asma”.

Come si vede, nulla di estremamente pericoloso, anche perché tutte le combustioni producono NOx, perfino un litro di latte quando bolle sul gas. Ma, invece di sindacare sulla inopportunità dal punto di vista ambientale di abbattere ulteriormente gli NOx, nel 2008, prima Toyota e poi Mercedes presentano i loro costosi dispositivi per portare a zero gli ossidi di azoto: il catalizzatore DeNox e il catalizzatore selettivo a urea. Entrambi inventati per mostrare agli Usa che col diesel si poteva fare tutto. Entrambi tanto costosi da escluderne a priori l’impiego sulle piccole cilindrate. Entrambi così delicati e incerti da portare i tecnici dei laboratori a veri salti mortali per soddisfare le norme. E a cadere dal trapezio.

La zappa sui piedi

E fu così che Rudolf Diesel perse la guerra. O meglio l’hanno persa tutti i diesel, complici anche i media europei che hanno fatto a gara a stroncarlo. Come dire, darsi la zappa sui piedi. Chiamatela dieselgate, addebitatela alla Volkswagen, ma come facilmente si intuiva nel settembre 2015, molte altre Case (FCA, Renault, PSA) sarebbero finite nel calderone, al punto da rinfacciarsi oggi errori e complicità.

Qual è la verità? Tutti sapevano che annullare gli NOx era come scalare una parete di ghiaccio, ma avevano scommesso di riuscirci, accettando supinamente limiti Usa tre volte più severi di quelli europei. E avevano sottoscritto queste poche – importantissime - righe che compaiono quasi identiche sia nelle norme Usa (40 CFR del 1986), sia nella direttiva europea 715 del 2007:

La funzionalità dei dispositivi di controllo delle emissioni allo scarico e le emissioni per evaporazione deve essere confermata per tutta la normale durata di vita del veicolo, in condizioni di normale utilizzazione.

I controlli possono venire effettuati per un periodo di 5 anni o un chilometraggio fino a 100.000 km, a seconda della condizione che si verifica prima.

L’uso di sistemi di manipolazione che riducono l’efficacia di sistemi di controllo delle emissioni è vietato, a meno che:

•     non si giustifichi con la necessità di proteggere il motore da danni irreparabili o incidenti;
•    l’impianto (che manipola le emissioni, ndr) funzioni solo nella fase di avviamento;
•    non sia dettato da casi di emergenza.

I trucchi delle sale prova

Il dieselgate – e quel che ne consegue - sta tutto qui, nel non aver rispettato queste frasi. O meglio, nell’aver ritenuto sufficiente rispettarle (solo) nella prova al banco. Onde due abitudini note a chi ha frequentato sale prove e laboratori di emissioni:

•    l’esemplare sottoposto ad esame può essere scelto, preparato, alleggerito, dotato di oli speciali, con pneumatici a basso rotolamento, con accessori elettrici staccati. Perfino la pompa dell’acqua o la ventola vengono addomesticate ad hoc, tanto i controlli sul circolante non si sono (non si erano) mai fatti;
•    la centralina può essere addestrata a riconoscere se sta eseguendo la prova al banco e a modificare di conseguenza il suo comportamento. I trucchi sono tanti, quasi ogni Casa ne ha inventato uno, si va dal conoscere a memoria i punti (velocità e potenza) nei quali viene eseguito il ciclo di prova, alla apertura di un apposito interruttore sulla battuta del cofano (le prove al banco si eseguono a cofano aperto); dalla posizione del volante (se rimane in posizione fissa per qualche secondo), al conteggio dei minuti dopo la messa in moto (il ciclo di prova UE dura 11 minuti).

Nessuno aveva mai eseguito verifiche per le emissioni sul circolante, men che meno in Europa, ove ai costruttori si richiede soltanto di dichiarare i consumi di carburante misurati secondo i cicli, ma che poi nessuno controlla. Ci ha pensato l’EPA, l’agenzia Usa per la Protezione dell’Ambiente, nel 2014, quando ha scoperto che i sistemi VW per abbattere gli NOx diventavano un po’ meno efficaci una volta giù dal banco prova. Forse per farli durare più a lungo, o forse per risparmiare platino e rabbocchi di urea, fatto sta che la VW ha insegnato alla centralina come comportarsi al banco prova.

Non mantenendo così l’impegno sottoscritto, ovvero che i dispositivi presenti nell’esemplare testato sarebbero rimasti tali e quali anche nella marcia su strada.

Altre Case, più furbamente, avevano dotato le vetture di tasti “Eco” o simili, mediante i quali il rispetto delle emissioni veniva ottenuto solo in quella condizione. Che, ovviamente, non poteva rivelarsi molto brillante nelle prestazioni, ma sufficiente a passare l’esame.

La rivelazione della Bosch

Infine, qualche mese fa una rivelazione della Bosch ha fatto luce sul rovescio della medaglia, cioè l’altra faccia della guerra al diesel. Infatti, per lanciare una sua invenzione il costruttore tedesco ha affermato:

“Lo sapevate che anche i motori a benzina più avanzati sprecano circa un quinto del carburante? Soprattutto ad alti regimi, parte della benzina viene utilizzata per il raffreddamento anziché per la propulsione… in particolare quando si guida in autostrada.  E prosegue: “Al motore non deve essere consentito di surriscaldarsi. Per impedire che ciò accada, in quasi tutti i motori di oggi viene iniettato carburante in più, che evapora raffreddando le parti calde.”

Ecco che la favola del rapporto stechiometrico comincia a vacillare. Come fa l’impianto d’iniezione a non rispettare i comandi della sonda Lambda? Semplice, basta spegnerla ogni volta che la miscela va arricchita. Quando? Lo dice la Bosch, che di iniezioni se ne intende: agli alti regimi, in autostrada e – aggiungiamo noi – ogni volta che si affonda il piede. Lo avevamo scoperto nel 1992 con una nostra inchiesta, pubblicata su Quattroruote e mai smentita. Su 15 modelli a benzina provati, tutti spegnevano la sonda Lambda, istantaneamente, quando si premeva l’acceleratore e lo stesso facevano a velocità superiori a 125 km/h, cioè al di sopra di quella massima prevista nel ciclo.

Perché le Case hanno potuto immettere nei gas di scarico fino al 20% di benzina incombusta, molto più pericolosa di qualunque ossido di azoto? E perché questa notevole quantità di HC è sempre sfuggita ai cicli di omologazione?

Le valvole sono sacre

La ragione sta nella frase: “Ai motori non deve essere consentito surriscaldarsi”. Che tradotto significa: Da sempre abbiamo convenuto con i burocrati di Bruxelles che per raffreddare le valvole ed evitare danni al motore bisognava irrorare benzina liquida, che evaporando abbassava la temperatura delle valvole. Soluzione diventata normale, ma mai confessata apertamente. Il che significa che al di sopra delle blande prestazioni richieste nella prova al banco, dal tubo di scarico può uscire fino a un quinto di benzina incombusta.

Né serve a molto la marmitta catalitica, perché se non c’è ossigeno (compito assicurato dalla sonda Lambda, quando è in funzione) la combustione è incompleta, anzi si formano idrocarburi HC particolarmente stabili e resistenti alla ossidazione, che non godono proprio fama di medicine contro il cancro. Sono il benzene, il toluene e lo xilene, cioè idrocarburi aromatici, che oggi sono cresciuti in percentuale nelle benzine, per sostituire gli effetti antidetonanti che una volta svolgeva il piombo. Proprio la loro elevata stabilità li rende pericolosi per l’uomo, giacché il corpo umano non li trasforma, ma li accumula. Basti pensare che il benzene da solo può indurre 18 tipi diversi di tumore.

Ancor più pericolosi – anche se emessi in quantità mille volte inferiore – sono i derivati degli aromatici: benzopirene, crisene, fenantrene, fenantracene e altri polinucleari aromatici (in sigla (IPA). 10 GRAMMI DI VELENI AL km

Bosch afferma quindi che i motori a benzina “anche i più avanzati” possono emettere dal tubo di scarico un quinto (il 20%) di benzina non bruciata, e rivela un inquinamento nascosto del quale la stampa non aveva mai parlato. Con semplici calcoli ne deriva che una vettura che consuma 10 litri per 100 km, spreca 2 litri di benzina ogni 100 km, cioè 2,0 centilitri al km, che corretti con la densità del carburante danno 17 grammi al chilometro.

Se consideriamo che:

-    nei cicli di misura i limiti alle emissioni sono da sempre al di sotto di un grammo al km, per tutte le sostanze;
-    la norma Euro 6 prevede un massimo degli idrocarburi totali HC pari a 0,1 grammo, cioè 100 milligrammi al km;
-    17 grammi di benzina incombusta sono per oltre la metà formati da composti notoriamente cancerogeni;

si scopre che ai motori a benzina è stata concessa – e lo è tuttora – ampia libertà d’inquinare in nome della salute delle valvole.

Non così per il diesel, anzi. Infatti, la quantità di NOx, misurata su strada, in condizioni reali, nelle vetture diesel sottoposte a indagine a seguito del caso Volkswagen, è risultata compresa fra 0,08 e 0,5 grammi al km. Cioè quantità inferiori al grammo, per giunta di un gas (gli ossidi di azoto) che non è cancerogeno, che non contiene particolato e che può diventare un precursore del particolato solo se incontra proprio idrocarburi HC incombusti o volatili.  In altre parole, senza HC nell’aria, gli NOx non producono neppure lo smog fotochimico.

E anche se dimezziamo i valori del nostro calcolo (non tutte le auto a benzina consumano così tanto e non sempre si viaggia ad alta velocità o con acceleratore premuto) la benzina incombusta scende a 8 grammi/km. Morale, non c’è par conditio fra i due motori.

 Strada logica

E pensare che c’era una strada, logica, per evitare di immettere nell’atmosfera tanti idrocarburi incombusti: rinunciare ad aumenti eccessivi di potenza tali da provocare surriscaldamenti. Strada che avrebbe condotto a motori di grande cilindrata e di poca potenza, come ha scelto l’industria americana. Ma in Europa, il fisco ha sempre considerato la cilindrata un parametro per ricchi e lo ha tassato e tartassato. Così la concorrenza fra le Case non ha neppure preso in considerazione questa ipotesi. Una volta ottenuto da Bruxelles il nulla osta a salvaguardare i motori, il problema (di limitare le potenze) non si è più posto. E nessuno ha indagato sull’attentato alla salute pubblica conseguente all’impiego di miscele molto ricche in HC. Anzi, nell’alternativa salute pubblica o salute dei motori, ha prevalso quest’ultima.

Perché la Bosch ha parlato solo oggi, rivelando il problema di ieri? Semplice, perché ha inventato un dispositivo che può rimediare allo spreco di benzina iniettando acqua nebulizzata ad alta pressione nel condotto di aspirazione. E per rendere appetibile l’invenzione ha svelato – in verità senza molti dettagli – come e perché, dai tempi della prima marmitta catalitica, si curavano i bollenti spiriti dei motori con dosi di benzina liquida.

Enrico De Vita
Febbraio 2017



giovedì 3 luglio 2014

Eolissea

di Marco Sclarandis





È ritornata la car-upola.

Un po’ auto e un po’ casupola.

Chiunque segua l’avventura della Eolo, la vetturetta ad aria, compressa però, ideata da un ingegnere francese ormai oltre un decennio fa, può legittimamente avere la sensazione di trovarsi a seguire se non un’odissea almeno una saga.

Di certo, l’idea fondamentale di muoversi spinti dalla semplice aria fresca, letteralmente parlando, anche se di purezza aleatoria, dipende dal luogo da cui viene pompata, è meritoria ed attraente allo stesso tempo.

Ma come in tutte le fiabe, c’è un orco in agguato, è se non è un orco, è una strega o una sfilza di trabocchetti, messi da qualche maligno che potresse essere pure defunto, ma non il suo operato, ancora perfettamente funzionante.

Non essendo pagato da nessuno, tanto meno dalla fabbrica italiana del mezzo in questione, non intendo fare pubblicità sia favorevole o contraria alla Eolo, che devo per forza nominare.Sarebbe ridicolo alludervi con labirinti di parole.

Ciò che mi preme di dire è che a causa di ineluttabili leggi termodinamiche, non c’è da aspettarsi da questa automobilina delle entusiasmanti prestazioni.Quando si accumula per compressione del gas e l’aria, notoriamente è una miscela di gas vari, una parte dell’energia adoperata nella compressione si trasforma in calore, che è praticamente impossibile da recuperare del tutto, e molto difficile da recuperare in gran parte.

Chi vuole per curiosità, diffidenza , pignoleria o sana sete di conoscenza, può trovare in rete tutte le spiegazioni fisico-matematiche che chiariscono in modo definitivo il perché di questo impossibile se non difficile recupero.Quindi, l’efficienza della Eolo, è necessariamente bassa, paragonabile alle vetture elettriche con accumulatori al piombo-acido, (vedi: http://www.aspoitalia.it/documenti/bardi/eolo.html) quelli che tutti conosciamo per averne uno sotto il cofano dell’automobile a gas detonanti, come i vapori di benzina e gasolio.Cioè “l’auto”                                

Detto ciò, tutto il resto viene di conseguenza come il conto in pizzeria dopo una lauta cena.

Che si chiami Eolo, Atmos, Brezza, Zefiro o Respiro, (ma non venga in mente a qualcuno di di chiamarla “Rantolo” anche se richiama i sette nani) qualsiasi mezzo che si muova in condizioni tipiche del traffico urbano, e sia mosso da aria accumulata e necessariamente compressa, ha e avrà delle prestazioni che sono una modesta imitazione di quelle a cui da oltre un secolo ci ha abituato l’auto mossa da un motore endotermico, “l’auto”, qualunque sia il combustibile adoperato.

Potrebbe allora essere la Eolo la garibaldina ribalda di una epocale rivoluzione dei trasporti urbani, suburbani, e planetari?

In teoria, ma avrebbe dei seri concorrenti.Che con tecnologie più complicate avrebbero però vantaggi decisamente superiori, e con tecnologia molto meno complicate vantaggi almeno equivalenti.     

Auto e scooter ibride ed elettriche, bici e pure tri-quadricicli e monopattini elettrici, oltre che a ordinari pedali.

Ma, ed è forse la considerazione più importante, è la mobilità individuale ma in massa che ha bisogno d’una rivoluzione.Tutta questa frenesia di muoversi per andare in luoghi dove non ci sarebbe nessuna necessità di recarsi è la strega cattiva della fiaba.Un conto è il viaggio, un altro lo spostamento che nella splendida parola francese si chiama “routine” ovvero “piccola strada”.Vorremmo sempre avere la cosidetta botte piena e la moglie ubriaca, o ancora meglio dal punto di vista femminile, il marito sobrio che non ricorra mai alle botte, e quindi avere un mezzo che vada bene sia per il Tour il “grande viaggio” che per la “routine” la quotidiana piccola trasferta.

Nell’inevitabile rivoluzione, già in atto e già evidente proprio in Italia, crescerà un serraglio di automezzi che porteranno le giungle cittadine ad assomigliare  a quelle delle epoche premotorizzate.                                 

E qualche pressaerociclo  vi scorrazzerà allegramente.

Ma i tre orchi inesorabili che sono i tre  principi della termodinamica non saranno incatenati, ma solo appena ammansiti e sempre in agguato.       

E nemmeno Eolo può soffiarli via.