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mercoledì 13 aprile 2016

Referendum No-Triv: il grande pasticcio



Di Ugo Bardi

Il 17 Aprile vedremo molto probabilmente un'altra sconfitta epocale per il "fronte del no a tutto".



Per cominciare, vi dico che il 17 Aprile andrò a votare e voterò si. Non per convinzione, in quanto mi rendo conto che esistono anche delle buone argomentazioni per il no su un quesito astruso e difficile a capire come quello sul quale siamo chiamati a esprimerci. Ma, nel complesso, mi sembra il caso di andare a votare per personale coerenza con quello che ho sempre sostenuto sulla necessità di una transizione la più rapida possibile verso l'energia rinnovabile.

Detto questo, fatemi dire che questa cosa del referendum è un grande pasticcio che si risolverà probabilmente in una sconfitta per tutti quelli che stanno lavorando seriamente sulla promozione dell'energia rinnovabile per salvare questo paese dal disastro economico e ambientale.

Da che parte posso cominciare per sdipanare questo pasticcio? Diciamo dal concetto stesso di "referendum abrogativo." Cosa significa esattamente un referendum del genere? Evidentemente, se la democrazia funzionasse bene non ce ne dovrebbe essere bisogno. Il fatto che i cittadini vadano alle urne e il risultato sconfessi l'operato del governo che gli stessi cittadini hanno eletto è una seria rottura di fiducia nelle istituzioni.

Ne consegue che il primo significato di ogni referendum abrogativo è proprio questo: è una misura della fiducia che i cittadini hanno nel loro governo. E per esprimersi su questa fiducia, i cittadini hanno la scelta se andare o non andare a votare. E' inutile dire che votare è un dovere civico; forse lo è, in teoria, ma, in pratica, è una scelta. Non andando a votare, i cittadini fanno una scelta abbastanza precisa. Dicono al governo, "su questo argomento, ci va bene che decidiate voi."

Dal 1997 a oggi, ci sono stati sette referendum e sono andati tutti in buca, ovvero non hanno raggiunto il quorum, escluso quello sul nucleare del 2011. E notate che, su quest'ultimo referendum, per spingere i cittadini ad andare a votare c'è voluto niente di meno che uno tsunami planetario. Dati questi precedenti, cosa ci possiamo aspettare dal referendum sulle trivelle del 17 Aprile? A meno di uno tsunami nell'Adriatico (che, ovviamente, nessuno auspica), considerata l'astruseria del quesito, è abbastanza ovvio che non raggiungeremo il quorum. Questo sarà interpretato come una vittoria per il governo e come una sconfitta per i proponenti. A questo punto, il governo si sentirà legittimato a proseguire con la sua politica a favore dei combustibili fossili. In sostanza, una sconfitta totale: l'esatto contrario di quello che i promotori del referendum speravano di ottenere. 

A questo punto, domandiamoci: "com'è che ci siamo messi in questo casino?" In effetti, le colpe non sono tutte del movimento ambientalista. Personalmente credo che l'origine di tutto quello che ci sta succedendo si possa interpretare con l'aumento delle disparità sociali ed economiche della società, un fenomeno particolarmente evidente negli Stati Uniti (come ho descritto qui). Con sempre meno trippa per gatti da distribuire, la competizione per quel poco che resta si fa più accesa e chi ha più potere si accaparra tutto. Ne consegue che la "forbice sociale" si allarga, ovvero i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. E' un fenomeno in corso da decenni in tutto il mondo, e sembra essere inarrestabile.

La reazione politica a una società sempre più divisa fra ricchi e poveri è una polarizzazione che non trova più lo spazio a compromessi (come invece era possibile ai tempi del divino Andreotti). Il risultato è un governo autoritario che non fa più quasi nessun tentativo di mediare. Lo chiamiamo anche "decisionismo" ed è una caratteristica del governo Renzi. Non credo che vi debba fare esempi per notare come questo sia il governo forse più accentratore e autoritario/decisionista dalla nascita della repubblica; anche di più dei vari governi Berlusconi. Il governo Renzi non media, impone. E se ne vanta anche.  E favorisce in tutti i modi la lobby dei fossili rispetto a quella delle rinnovabili.

Di fronte a questa situazione, l'opposizione si trova ad avere sempre meno spazi di operazione a disposizione. In un certo senso è inevitabile, ma è anche vero che questi spazi ancora esistono. Bene o male, abbiamo ancora delle elezioni democratiche, abbiamo ancora un parlamento eletto dal popolo, abbiamo ancora persone in parlamento che lavorano seriamente per il paese, abbiamo ancora governi locali con persone di buona volontà. C'è ancora la possibilità di contrastare la lobby dei fossili in vari modi; per esempio in sede legislativa, dirigendo gli investimenti pubblici e privati, facendo delle scelte a livello locale. Sono tutte armi efficaci e, a lungo andare, la lobby dei fossili deve scomparire per forza.

Il problema è che l'opposizione di stampo ambientalista non si rende conto che a fare a cornate con un rinoceronte si rischia quanto meno un certo mal di testa. Così, tende a farsi del male da sola imbarcandosi in scontri diretti contro poteri molto più forti, lanciandosi in una "politica del no" che ormai dovremmo sapere che non funziona. Dire di no a tutto è un arma che si ritorce contro chi la usa; quante volte è successo? E' andata bene col nucleare - grazie allo tsunami - ma non ha quasi mai funzionato in altre occasioni.

E così il movimento ambientalista si è imbarcato allegramente in questo referendum detto "No-Triv" senza troppo ragionare sull'opportunità di farlo e sui rischi che si corrono a essere percepiti di nuovo come a) il fronte del no a tutto e b) quelli che perdono sempre.

Giusto per fare un esempio, non è mai venuto in mente a nessuno di fare un referendum contro il provvedimento "spalma incentivi" o altri provvedimenti che il governo ha preso specificatamente per distruggere l'industria fotovoltaica italiana? E invece no. Se gli "ambientalisti" si impegnano sull'energia rinnovabile è solo per dire di no: no all'energia eolica, no al fotovoltaico, no a questo e no a quello. Ci sarà mai una volta che si potrà fare un azione politica per dire di "si" a qualche cosa?

E così, andiamo a vedere come andrà questo referendum. Vi dirò che spero di sbagliarmi, che con un guizzo al fotofinish si riesca in qualche modo a passare la magica soglia del 50%. Ma anche se ci riuscissimo - e ci vuole veramente un miracolo - valeva la pena di correre questo rischio?


Nota del 17 Aprile: e infatti non ci siamo riusciti.


lunedì 11 aprile 2016

Votare si al Referendum: L'appello di "Climalteranti"


Documento del comitato scientifico del gruppo "Climalteranti"

Perché votare SÌ al referendum del 17 aprile


L’Accordo di Parigi si basa su un incremento sistematico dell’ambizione nella riduzione delle emissioni. In questo contesto, porre limiti allo sfruttamento di gas e petrolio in Adriatico diventa un modo per iniziare ad implementarlo. Climalteranti suggerisce di votare Sì al referendum del 17 aprile, per segnalare chiaramente l’urgenza di rottamare il modello energetico basato sui combustibili fossili. Una scelta strategica per una nazione come l’Italia, ricca di sole e di mare, con un turismo da salvaguardare e promuovere.





Abbiamo già raccontato in passato come molti scienziati, dopo aver individuato le cause dei cambiamenti climatici (principalmente le emissioni da fonti energetiche fossili e la deforestazione), dopo aver previsto le mutazioni del sistema climatico, dopo aver mostrato le possibilità di opzioni alternative ed averle discusse, sentono di non fare abbastanza per il clima.

Abbiamo visto gli allarmi degli scienziati trattati con sufficienza ed accantonati dal dibattito politico, intriso di attendismi e disinteresse. “Non sono uno scienziato, ma non credo che ci sia un problema climatico”, “il clima è sempre cambiato/ gli scienziati non sono del tutto sicuri”, sono ritornelli sentiti ormai troppo.

Ora il voto referendario sulle concessioni petrolifere entro le 12 miglia dalla costa pone una scelta secca, che riguarda anche le politiche climatiche ed energetiche dei prossimi anni.

Qui sotto sono riportate le ragioni per cui il Comitato Scientifico di Climalteranti ritiene che sia necessario votare Sì.



1. La scienza chiede azioni urgenti e radicali per ridurre le emissioni


Il Quinto rapporto dell’IPCC ha mostrato come, se si vuole limitare l’incremento di temperatura, è necessario ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. Si sta chiudendo la finestra temporale di opportunità nella quale possiamo contenere l’aumento delle temperature medie entro i 2°C. Il Sommario per i decisori politici del Quinto Rapporto termina mostrando i percorsi divergenti, le scelte dicotomiche che a breve siamo tutti chiamati a prendere; la prima, l’Accordo di Parigi, è già stata fatta (con un invito a imboccare un preciso percorso di riduzione delle emissioni – art. 4).


2. La produzione di energia è la fonte principale delle emissioni di gas climalteranti, a meno che non si basi su energie rinnovabili


Le statistiche mostrano che ogni volta che petrolio, carbone e gas naturale dominano nella composizione del mix energetico, le emissioni pro-capite sono elevate. In ogni Stato il settore energetico deve compiere una radicale transizione verso le rinnovabili. L’Europa prevede già la decarbonizzazione di questo settore entro il 2050, un impegno senza precedenti e dalla portata rivoluzionaria. Se si vuole raggiungere questo obiettivo, non è più possibile tentennare o prendere tempo.

Il referendum spezza il silenzio assordante nel quale il nostro Paese ha smantellato il sistema di incentivazione alle rinnovabili, che aveva portato grandi successi e 100.000 posti di lavoro, drasticamente ridotti dalle successive scelte governative. E lo fa con un ostacolo peraltro molto blando allo sviluppo delle fonti fossili: con il Sì si vuole impedire ai titolari di concessione per produzione e per ricerca entro le 12 miglia di operare anche oltre la scadenza della concessione.


3. Le riserve di carbone e petrolio devono rimanere in larga misura sotto terra se si vuole che le concentrazioni in atmosfera non superino soglie incompatibili con gli obiettivi di incremento massimo della temperatura media globale

Se una gran parte delle riserve fossili conosciute deve rimanere sotto terra (più di 4/5 delle riserve di carbone, più di metà di quelle di gas e più di un terzo di quelle petrolio), è necessario iniziare da subito lo smantellamento del sistema dei combustibili fossili; con il Sì al referendum si impediscono nuove attività di prospezione e ricerca, e il rinnovo sine die di concessioni già ampiamente sfruttate.


4. L’Accordo di Parigi obbliga ad aumentare il livello di ambizione nelle politiche climatiche ed energetiche


Con l’Accordo di Parigi (qui la traduzione italiana con commenti), sottoscritto da praticamente tutti i governi del mondo (e a breve ratificato da Stati Uniti e Cina, India e Europa), si sono posti degli obiettivi molto ambiziosi alle politiche 

climatiche ed energetiche“mantenere l’incremento della temperatura media mondiale ben sotto i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali e fare sforzi per limitare l’incremento della temperatura a 1,5 °C”. Questi obiettivi obbligheranno gli Stati a rivedere al rialzo i loro impegni di riduzione delle emissioni, ogni qual volta ne abbiano l’opportunità. Ad esempio anche gli attuali impegni dell’Unione Europea, inclusa la riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030, sono insufficienti e dovranno essere aumentati.


Quindi l’Italia deve fare di più, perché non ha ancora definito una politica energetica in linea con gli obiettivi sottoscritti a Parigi, e dovrà rivedere al rialzo le sue promesse settore per settore. L’attuale Strategia Energetica Nazionale non è compatibile con lo scenario post-COP21.


6. L’estensione senza termine delle concessioni è un sussidio alle fonti fossili


I sussidi alle fonti fossili sono da tempo nell’occhio del ciclone, criticati dall’OCSE, dal G20 e dal G8 come una parte da eliminare subito. Durante un side-event alla COP21 sono stati stimati come circa 4 volte maggiori dei sussidi alle rinnovabili, senza contare i decenni passati. Quindi il SÌ inizia a cancellare parti dei sussidi che andrebbero in ogni caso eliminati per evitare una distorsione della concorrenza tra fonti di energia a svantaggio di quelle che producono i minori impatti ambientali. Obbligando ad esempio i detentori di concessioni a smantellare le piattaforme alla fine delle concessioni, non lasciandole operative anche se non funzionanti o con utilizzi molto limitati.


7. Nessun atto individuale può fare la differenza, ma questo non è una scusa per non ridurre qui e subito produzione e consumi di combustibili fossili


Con l’Accordo di Parigi si è riconosciuto che tutti i Paesi e tutti i settori devono fare la propria parte. Non si possono nascondere dietro un dito puntato su altri Paesi ed altri settori. “Tocca a lui per primo e io nel frattempo non faccio niente” è un argomento superato: tutti devono agire. Indipendentemente dall’effetto misurabile, ma proprio per non offrire alibi agli altri.


Le concessioni senza termine consentono di estrarre fino all’ultimo risorse che andranno ad incrementare la concentrazione dei gas climalteranti. Il SÌ – che ne impedisce il rinnovo e quindi lascia sotto il mare quel che resterà alla data di scadenza delle concessioni attuali e di eventuali limitate proroghe possibili – mette appunto un “limite” prima dell’esaurimento totale. Ha quindi un forte valore simbolico (ed un effetto pratico molto superiore ad azioni personali che ciascuno di noi invece compie ogni giorno – rinunciando ad un tragitto in auto, abbassando il riscaldamento in casa, ecc.); rappresenta un chiaro indirizzo politico e strategico nella giusta direzione.


8. Quantità piccole


La quota di consumi di gas e petrolio coperta dalla ventina di centri estrattivi attivi compresi nell’arco delle 12 miglia e che chiuderebbero nell’arco di 10 anni da oggi, man mano che terminano le concessioni e fatte salve alcune proroghe limitate che sarebbero comunque possibili, è fra l’1 e il 2% dei consumi energetici totali del paese; si tratta quindi di una quota molto piccola e per di più diluita in 10 anni da oggi (dati MISE elaborati da Aspo Italia).


9. Qualità scarse e costi alti

Il materiale estratto è sia qualitativamente (il petrolio italiano è ricco di zolfo) che quantitativamente (il costo di estrazione è alto superiore ai prezzi correnti e l’EROEI relativo – cioè il rapporto fra energia ottenuta e energia spesa per produrla – è basso) poco attraente come fonte energetica, per cui conviene estrarlo solo a chi paga royalties basse (fra il 7 e il 10%, il regime di royalty italiano è estremamente favorevole a chi estrae). Spesso conviene tenere bassa la produzione, per non pagare nulla o quasi sfruttando i dettagli delle regole delle concessioni, che prevedono condizioni di franchigia di 80 milioni di metri cubi iniziali, cioè più di un anno di produzione gratis, e nessuna royalty sotto certi livelli produttivi (dati da Il paese degli elefanti, di Luca Pardi, ed. Luce 2 edizione).


10. Il sistema fossile è inevitabilmente destinato ad arrivare al capolinea: il referendum permette di affrontare seriamente il problema


Il referendum riguarda 26 concessioni, alcune delle quali prevedono possibilità di potenziamento senza necessità di aprire una nuova concessione (cosa già vietata entro le 12 miglia marittime). La vittoria del Sì limiterà nuove perforazioni, ma non potrà impedirle del tutto, perché in alcuni casi (come “Rospo di Mare” o “Vega A”) queste sono già previste all’interno delle concessioni esistenti. Con il ritorno in vigore della normativa precedente (art. 9 comma 8 legge 9 del 1991), sarà possibile avere proroghe di una concessione alla sua scadenza; le proroghe tuttavia dovrebbero avere carattere eccezionale.


Il problema della perdita di posti di lavoro è limitato, e va considerato che ci sarà lavoro per smantellare le piattaforme diventate inutili (molte sono già ferme da tempo e non vengono smantellate) e sarebbe possibile definire un programma di riconversione dei posti di ingegneri e tecnici, investendo nei settori di produzione energetica rinnovabile, che offrono più posti e potenziale produttivo.





Il Comitato Scientifico di Climalteranti


Tags: COP21, Italia

venerdì 18 marzo 2016

I ricercatori di Energia per l'Italia sul referendum del 17 Aprile




Referendum 17 aprile: una politica energetica per il paese ai tempi della COP21

"Chi vuole dare un segnale politico, fa politica", dicono i due vice segretari del PD. Noi ricercatori di Energia per l'Italia abbiamo svolto un’azione politica chiedendo al Presidente del Consiglio e ai Ministri interessati di aprire un costruttivo dibattito sulla Strategia Energetica Nazionale che l’attuale Governo ha ereditato da quelli precedenti e che poi ha sostanzialmente peggiorato con una serie di decreti.  Non abbiamo mai avuto risposta. Il referendum ha certamente un significato politico perché contesta una Strategia che ignora lo stato di degrado e di pericolo in cui si trova il pianeta evidenziato  dagli scienziati, sottolineato da papa Francesco nell'enciclica Laudato sì e oggetto dell'accordo alla Cop 21 di Parigi, firmato dalle delegazioni di 185 paesi fra cui l'Italia.

Finché c’è gas, ovviamente è giusto estrarre gas. Sarebbe autolesionista bloccarle dopo avere costruito gli impianti, … licenziare migliaia di italiani e rinunciare a un po’ di energia disponibile, Made in Italy. Col risultato che dovremmo acquistare energia nei paesi arabi o in Russia, a un prezzo maggiore scrivono i due vice segretari.

Nel Regno Unito si sta svolgendo la campagna “Keep it in the ground” (letteralmente lasciali nel sottosuolo), perché lo spazio per i rifiuti nella casa comune Terra è quasi esaurito: vi è posto solo per le emissioni di CO2 che corrispondono a un quinto dei combustibili fossili che si trovano nel sottosuolo. Se ne estraiamo più di un quinto, l’aumento di temperatura supererà i 2 °C, la soglia che unanimemente è stata riconosciuta come un limite invalicabile nella conferenza di Parigi. Ecco, perché NON è giusto estrarre gas ed è invece giusto investire sul risparmio energetico e sulle energie rinnovabili.

Sostenere il SI al referendum significa anche definire gli indirizzi strategici della politica industriale del paese. Il principale risultato atteso è la conversione delle aziende del settore oil&gas verso le nuove tecnologie.

Il costo dell’energia è stabilito dal mercato globale e da complessi meccanismi finanziari ed economici. Ad esempio, l’energia in eccesso prodotta dalle fonti rinnovabili, ovvero non consumata da chi la produce, viene venduta a prezzi molto inferiori al costo di mercato. 

Inoltre, l’estrazione di idrocarburi in Italia ha margini di profitto relativamente bassi, perché le quantità totali sono esigue (pari al fabbisogno energetico del paese per 2-3 anni) e perché richiedono procedimenti complessi per la tutela ambientale, quali la re-immissione di acqua per ridurre la subsidenza e l’erosione delle coste.  

Non è chiaro, quindi, perché la produzione italiana dovrebbe ridurre i costi dell’energia per gli utenti finali.

Il referendum è una grande opportunità che il fronte politico riformista dovrebbe cogliere per progettare una transizione energetica coerente con gli accordi di Parigi e che avrebbe conseguenze molto positive sulla nostra economia.

Confermiamo la nostra piena disponibilità a progettare con il Governo questa transizione.

Vincenzo Balzani
coordinatore di Energia per l’Italia


giovedì 2 aprile 2015

10 buone ragioni per non trivellare

Un interessante articolo di Giuliano Garavini che si fa tutte le domande giuste. Dal blog dell'associazione "Paolo Sylos Labini"



Un articolo di Giuliano Garavini

Il decreto legge chiamato “sblocca Italia”, tra le altre cose, è anche un decreto “sblocca trivelle”.  Le decine di migliaia di cittadini che vi sono opposti in tutta Italia sono stati definiti con disprezzo “comitatini”.

Ecco dieci buone ragioni per interrompere da subito esplorazioni e trivellazioni sia in Adriatico che sulla terraferma.

1. Oggi l’offerta mondiale di petrolio è maggiore della domanda. Il prezzo del Brent si aggira sui 55 dollari al barile, meno della metà della sua quotazione a giugno del 2014. In queste circostanze lasciare il petrolio sottoterra è il modo migliore per valorizzarlo. Estrarlo è invece il modo migliore per sperperare una ricchezza non rinnovabile che in futuro varrà di più.

2. Non solo non si dovrebbe procedere a nuove trivellazioni, ma lo Stato dovrebbe imporre ai pozzi in funzione di ridurre la produzione. Se c’è troppo petrolio e i prezzi calano in modo abnorme, bisogna produrne di meno in previsione di tempi migliori. Si può fare e si deve fare: la regolazione statale della produzione l’hanno inventata e imposta per primi negli anni ’30 quel paradiso dei petrolieri che sono gli Stati Uniti, attribuendo il potere di controllo ad un’istituzione chiamata Texas Railroad Commission.

3. Le royalty pagate in Italia sulla produzione di greggio sono oltraggiosamente basse: tra il 7 e il 10 per cento per il petrolio su terra e il 4 per cento per quello in mare. A questo si aggiunge lo scandalo che le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotto su terraferma e 50mila prodotte in mare sono del tutto esenti royalties! Le royalties non hanno nulla a che vedere con le tasse (quelle che le società pagano sui loro profitti). Esse rappresentano il corrispettivo che gli operatori (società petrolifere) pagano al proprietario del terreno per sfruttare una risorsa naturale esauribile. In tutto il mondo (tranne negli Stati Uniti) il proprietario del terreno è lo Stato. l voler seguire l’esempio della Germania le royalty pagate in Bassa Sassonia sono oggi del 37 per cento! La prima cosa da fare è raddoppiare le royalties al 20 per cento. Ogni punto di royalty meno del 20 per cento è un furto ai danni dei cittadini italiani. La produzione del tutto esente da royalty è un furto con scasso.

4. Gli italiani non traggono alcun beneficio diretto dal consumare petrolio prodotto sul territorio nazionale. Al consumatore italiano non cambia nulla, una volta che fa il pieno dal benzinaio, che il petrolio venga dalla Basilicata o dal Golfo Persico. Tanto vale comprarlo nei Paesi dove esso può essere prodotto con minori danni per l’ambiente e a costi molto più bassi. Quelli che parlarono di “sicurezza energetica” in relazione al gas e al petrolio prodotto in Italia sono comici involontari. L’Italia potrebbe garantirsi la “sicurezza energetica” solo in due modi: smettendo di utilizzare del tutto le energie fossili o tornando a colonizzare la Libia.

5. Secondo gli studi di Nomisma, gli unici effettuati (Prodi è tra i grandi sponsor delle trivellazioni), lo Stato incasserebbe da un raddoppio della produzione di idrocarburi circa 1,2 miliardi di euro l’anno per i prossimi dieci anni. Ma lo studio era del 2014, prima del tracollo dei prezzi del petrolio! Oggi queste stime andrebbero per lo meno dimezzate a 600 milioni di euro l’anno. Dunque si tratterebbe di un introito, certo interessante in tempo di vacche magre, ma assolutamente irrisorio se comparato alla liquidazione delle riserve italiane: un patrimonio per le generazioni future cui finora abbiamo lasciato in eredità solo un bel cumulo di debito pubblico.

6. Nessuno ci ruba il nostro petrolio. Questo lo dicono i gran maestri delle trivellazioni con in testa (scusate il gioco di parole) Chicco Testa. Testa e sodali affermano che in Adriatico, se non lo fanno gli italiani, saranno i Croati ad estrarre il nostro gas e il nostro petrolio ciucciandocelo via da sotto il naso. Cito il Presente di Federpetroli Marsiglia che di idrocarburi dovrebbe intendersene: “Un giacimento è molto vasto, formato da vari pozzi. Sono stupidaggini di persone non competenti quando si legge che la Croazia ci ruberà il nostro petrolio. Non perdiamo idrocarburo”.

7. Argomento ricorrente dei trivellatori è che gas e petrolio italiani ridurrebbero la bolletta energetica degli italiani. A parte che questo sarebbe vero solo se a produrre idrocarbuti fosse unicamente l’ENI (cosa che non è). Bisogna poi capire quanti dei soldi intascati dall’ENI restino effettivamente nel nostro Paese reinvestiti per creare occupazione e nella ricerca, quanti finiscano nella casse di società controllate di ENI, magari in Olanda, o peggio vengano utilizzati per pagare tangenti in Algeria o in Nigeria.

8. Il patrimonio paesaggistico, storico e artistico dell’Italia è, oltre che un bene comune da preservare, anche una fonte di reddito indiscutibilmente superiore a qualsiasi possibile incasso dalle vendita di idrocarburi. Visitando una piattaforma ENI in Adriatico posso testimoniare che l’azienda presta la massima attenzione alla sicurezza e che il personale tecnico della società è degno della massima fiducia. Ma si riuscisse pure a scongiurare ogni possibile fuoriuscita di gas o di olio, si riuscisse a mitigare l’impatto sull’ambiente marino delle trivellazioni, come si fa a non tenere in considerazione l’impatto di centinaia di piattaforme in mezzo al piccolo mare Adriatico? E cosa resterà di questo cimitero di ferro arrugginito una volta terminato il proprio lavoro di suzione? Difficile non ritenere questo scenario una terribile pubblicità negativa per il turismo.

9. L’Italia è un Paese densamente popolato, a forte rischio idrogeologico, soggetto a terremoti. Ogni volta che la terra si scuote riprendono i dibattiti scientifici sul ruolo delle estrazioni di petrolio e di gas e delle “reiniezioni” nei pozzi nello stimolare i terremoti. Ancora una volta: perché non comprare petrolio da Paesi che sono semidesertici e che dai proventi della vendita degli idrocarburi, pagati il loro giusto prezzo, possono ricavare le risorse che servono sia per sostentare al meglio la propria popolazione che per approfittare della manifattura e delle competenze italiane? Anche in Paesi come l’Algeria, che dipendono in tutto dagli introiti degli idrocarburi, vi sono vivaci e coraggiosissime proteste contro il fracking in pieno deserto. Non dovremo dare l’esempio anche noi prendendoci cura del nostro territorio?

10. La vera fonte energetica del futuro, prima ancora delle rinnovabili, è il “risparmio energetico”. Questa è una frontiera che ha praterie davanti a sé e nella quale dovrebbero investire le imprese energetiche italiane, diversificando opportunamente la propria attività. A me, per esempio, fa piacere vedere ENI associata al car-sharing. Solo dal risparmio energetico può nascere un vero beneficio per la bolletta energetica dell’Italia, accoppiata ad miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Il binomio perfetto. Occorre permettere alle società energetiche di guadagnare sul risparmio energetico, sulle nuove tecnologie e sull’efficienza delle infrastrutture. Regalare loro petrolio va nella direzione opposta.