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lunedì 15 febbraio 2016

Il bello di essere uno scienziato: perché l'editoria “Open Access” non è una buona idea

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Di Ugo Bardi

"BERQ”, Biophysical Economics and Resource Quality, è una nuova rivista di Springer dedicata allo studio dei sitemi economici complessi e la loro relazione con la disponibilità di risorse naturali. Notate come la copertina alluda ai risultati dello studio del 1972 intitolato £I Limiti dello Sviluppo” che ha originato questo campo di studi. Ho grandi speranze che questa nuova rivista possa fornire una produzione di molti articoli scientifici di alta qualità. Per questa ragione ho accettato di assumere il ruolo di “editore capo” di BERQ, insieme al professor Charles Hall. Notate che questa è una rivista non necessariamente open access. In questo post spiego le ragioni di questa scelta. 


Una delle cose belle dell'essere uno scienziato è che puoi cambiare idea. Oh sì, puoi. In realtà devi! Hai nuovi dati? Allora cambi la tua interpretazione, è semplicissimo. Naturalmente, gli scienziati non sono sempre felici di ammettere di aver sbagliato, sono esseri umani, dopotutto. Ma, nel complesso, la scienza va avanti perché gli scienziati cambiano idea; come potrebbe essere altrimenti? Così, posso solo compatire i poveri politici che, quando si trovano di fronte a nuovi dati,  non hanno altra opzione se non quella di ignorarli o ridicolizzare coloro che li hanno prodotti (o in qualche caso, metterli in galera o farli fucilare).

Questo post parla del modo in cui ho cambiato idea riguardo all'editoria "open access" in campo scientifico. Probabilmente avete sentito parlare del tema, c'è un buon articolo di George Monbiot in cui accusa gli editori scientifici dicendo che “fanno sembrare Murdoch un socialista”. Monbiot non sbaglia: per prima cosa osserva che gli scienziati sono pagati dai governi (cioè dalla gente). Poi danno i risultati del loro lavoro gratuitamente ad editori commerciali. Infine, gli editori commerciali fanno pagare la gente per accedere agli articoli per cui hanno già pagato. Come affare, è paragonabile a quello di Esau che svende la sua eredità per una ciotola di lenticchie.

Già molto tempo fa avevo cominciato a ragionare come Monbiot e molti altri. L'idea era (ed è): perché gli scienziati dovrebbero pagare ditte commerciali per fare qualcosa che possono fare da soli? Perché gli scienziati non si pubblicano da soli i loro risultati? In questo modo, tutti saranno in grado di accedere ai risultati delle ricerca finanziata pubblicamente. Così, già negli anni 90, avevo allestito una rivista open access, “The Surface Science Forum”. E' stata una delle prima di quel tipo. Ancora nel 2012, ero a favore dell'editoria open access (come ho descritto in questo post).

Gradualmente, tuttavia, ho cambiato idea. Ciò che sembrava essere una buona idea all'inizio, non mi è sembrata così buona dopo averla provata. Conoscete la storia del tipo che è saltato tutto nudo in mezzo ai rovi? Diceva che gli sembrava una buona idea per raccogliere more, così l'ha messa in pratica. Subito dopo ha cambiato idea.

Così, ho provato a mettere in pratica l'idea di “editoria open access” ed ho lavorato come editore scientifico per due case editrici open access: MDPI e Frontiers. La mia esperienza con MDPI è stata ragionevolmente buona, mentre quella con Frontiers è stata orribile. In entrambi i casi, tuttavia, l'esperienza mi ha insegnato molto sull'editoria accademica. Ed ho cambiato idea sull'editoria open access.

In parte, ho cambiato idea a causa della brutta esperienza che ho avuto con Frontiers, ma solo in parte. Dove ho notato i difetti dell'editoria open access è stato con l'attuale dibattito sul cambiamento climatico. E' un dibattito che ovviamente dovrebbe essere basato sulla scienza. Certo, ma quale scienza? Be', la maggior parte di noi direbbe che la scienza è quello che viene pubblicato nelle riviste accademiche referenziate. Ed è qui il problema. L'editoria open access è uno dei fattori (non il solo) che ha grandemente aumentato il volume delle pubblicazioni scientifiche (o cosiddette scientifiche) di bassa qualità. E questa non è una cosa buona, perché ha reso più difficile per il pubblico ed i decisori politici capire cosa sia scienza e cosa no.

Questa cosa va spiegata bene: spieghi: nella mia esperienza, il rigore delle osservazioni della revisione fra pari non viene necessariamente ostacolato dal format dell'open access. Se non altro, gli editori open access seri (come MDPI) sono estremamente rigorosi nel processo. Ma ciò è controbilanciato dalla presenza di un gran numero di editori open access non seri. Molti accettano semplicemente di tutto, se gli autori pagano. Altri si fanno semplicemente beffe del processo di revisione (una volta ho ricevuto una richiesta di revisionare un articolo e nel modello di raccomandazione non c'era l'opzione “rifiutato”). Vengono chiamati “editori predatori” e se ne può trovare un elenco esteso (ed impressionante) nel sito di Jeffrey Beal.

Si potrebbe dire che una cattiva implementazione non necessariamente significa che l'idea è sbagliata. Vero, ma il problema è in profondità nel modello dell'open access; nel fatto che gli editori più pubblicano più fanno soldi. E la tentazione di pubblicare più articoli possibile è forte. Ciò può essere ottenuto anche senza rilassare il processo di revisione. E' sufficiente pubblicare un gran numero di “titoli”, riviste teoricamente diverse, ma tutte gestite dallo stesso staff. La moltiplicazione dei titoli costa quasi niente agli editori ma apre sempre più possibilità per gli autori che, alla fine, provando diverse riviste imbroccherà il colpo grosso di una combinazione favorevole di revisori anche per un articolo scadente. Così, la qualità media delle pubblicazioni scientifiche ne può solo soffrire.

Alla fine, gli editori open access sono semplicemente parte di un problema più generale che ha condizionato la scienza dallo sviluppo di internet. Una volta, l'editoria scientifica era costosa e spesso richiedeva uno staff specializzato per aiutare nella preparazione dei manoscritti. Ma ora, con i software a buon mercato ed un sito web, è facile per chiunque produrre una caricatura di un articolo scientifico, pieno di dati e grafici e che non significa niente. Per uno scienziato, di solito è facile dire cos'è buona scienza a cosa non lo è (non sempre, comunque...). Ma per la maggior parte delle persone non è facile. Ecco di conseguenza la grande confusione nel dibattito sulla scienza del clima, dove la lobby anti-scienza è stata in grado di presentare la pseudoscienza come scienza vera e confondere praticamente tutti.

Dopo aver rimuginato l'idea per un po', penso di capire cosa ci serve. Ci serve scienza di alta qualità. E questa scienza di alta qualità deve essere riconoscibile da tutti. Sarebbe bello se potessimo avere scienza di alta qualità all'interno dello schema open access, ma non possiamo dimenticare il principio di Sturgeon (il 99% di tutto è immondizia). Dovremmo quindi premiare gli editori non in termini di numero di articoli che pubblicano ma in termini di qualità degli articoli che pubblicano. E, sfortunatamente, l'open access non va nella giusta direzione.

Tutto ciò non significa che l'open access è sempre sbagliato. Al contrario, ha buone giustificazioni e se, diciamo, i risultati della ricerca medica possono aiutare i medici a salvare le persone, allora in tutti i modi dovrebbero essere accessibili ai medici e a chiunque possa trarne beneficio. Ma questo non è il caso di gran parte della ricerca accademica. E non voglio nemmeno dire che tornare al modo tradizionale di pubblicare (pagare per accedervi) si il modo perfetto per muoversi. Niente affatto, ci sono molti problemi nel sistema tradizionale; uno sono i prezzi eccessivi chiesti da molti editori. Tuttavia, a parte alcune distorsioni evidenti, l'idea che si debba pagare qualcosa per i beni che si comprano è un concetto che funziona in tutti i mercati e che incoraggia una qualità migliore. E se, come scienziati, pensate che vale la pena che il vostro lavoro venga conosciuto dal grande pubblico, avete l'opzione di diffondere i vostri risultati in un blog o in un altro formato pubblicamente accessibile. In realtà; non dovrebbe essere solo un'opzione, dovrebbe essere la regola. Se pensate che niente di ciò che pubblicate possa interessare se non qualcuno dei vostri colleghi, allora non potete lamentarvi se dicono che siete dei mangiapane a ufo assistiti dal governo.

Come nota finale, le caratteristiche dell'editoria accademica stanno cambiando in continuazione. Ci sono diversi formati di open access che potrebbero funzionare meglio di quelli attuali. Poi, gli archivi di articoli accademici come “ArXiv” e “Academia.edu” stanno rivoluzionando il campo. Non sono peer-review e ciò offre una possibilità di diffondere risultati molto innovativi ed ancora incerti senza interferire con ciò che va nelle riviste peer-review. La scienza sta cambiando e il mondo sta cambiando, forse troppo velocemente, ma dobbiamo cercare di affrontare il cambiamento meglio che possiamo.

In vista di queste considerazioni, recentemente ho accettato (*) di fare il "chief editor", insieme al professor Charles Hall, di una nuova rivista di Springer, “BERQ” (Biophysical Economics and Resource Quality). La rivista è dedicata allo studio dei sistemi economici complessi e la loro relazione con le risorse naturali. Alla fine, è un discendente del primo studio intitolato “I limiti della crescita” che ha dato inizio a tutto un campo di ricerca che molti di noi stanno ancora esplorando. Ho molte speranze in questa nuova rivista, che dovrebbe fornire una produzione di molti articoli scientifici di alta qualità dedicati a questo tipo di studi.

Se siete interessati a pubblicare su BERQ, troverete le informazioni necessarie sul sito web della rivista. BERQ opera secondo il formato tradizionale dell'editoria scientifica, ma può diventare open access se gli autori vogliono così. E' un passo lungo un percorso. La cosa importante è che possa dare un prodotto di buona qualità per le persone che fanno buona scienza.



(*) Noto: per il lavoro di chief editor di BERQ ho accettato un onorario 1500 dollari all'anno che credo sia un compenso ragionevole per il lavoro aggiuntivo che faccio per Springer. 



martedì 22 aprile 2014

“Furia recursiva”: le ragioni del passo falso di "Frontiers"

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

di Ugo Bardi

Come probabilmente sapete, l'editore scientifico “Frontiers” ha recentemente deciso di ritirare un saggio già approvato e pubblicato (“Recursive Fury”, Furia recursiva) sul tema degli atteggiamenti cospirazionisti nel dibattito sul cambiamento climatico. Questo gesto ha provocato le dimissioni di alcuni editori di Frontiers, compreso me stesso, come ho descritto in un post precedente. Qui torno sul tema più in dettaglio.


Quando sono stato contattato dallo staff di “Frontiers” e mi è stato chiesto di diventare “editore capo” con loro, ho pensato che fosse un'eccellente idea. Ero attratto, principalmente, dal fatto che la rivista fosse completamente “open access”, un'idea che ho sempre appoggiato (sono stato probabilmente uno dei primi a sperimentare con l'editoria open access in chimica). Così ho accettato l'offerta con considerevole entusiasmo ed ho cominciato a lavorare su una rivista (in realtà una sezione di una rivista) dal nome “Frontiers in Energy Systems and Policy".

Una volta diventato editore, ho scoperto la struttura peculiare del sistema di Frontiers. E' un enorme schema piramidale in cui ogni rivista ha delle sotto-riviste (chiamate “specialties” nel gergo di Frontiers). La piramide si estende alle persone coinvolte: comincia con i “capi editori”, che supervisionano i “capi editori di specialità”, che supervisionano gli “editori associati”, che supervisionano i “revisori”. Visto che ogni passaggio coinvolge una crescita di un fattore 10-20 nel numero di persone coinvolte, potete capire che ogni rivista della serie di Frontiers può coinvolgere diverse migliaia di scienziati. L'intero sistema potrebbe contare, probabilmente, decine di migliaia di scienziati.

Perché questa struttura barocca? La spiegazione ufficiale è che questo rende il processo della revisione più rapido. In questo, la struttura piramidale di Frontiers sembra apparentata in qualche modo a un sistema militare di “comando e controllo” che è, di fatto, progettato per accelerare il processo di comunicazione/azione. Naturalmente, se sei arruolato come editore su Frontiers, non ti vengono dati ordini dai livelli superiori; ciononostante vieni continuamente tormentato da comunicazioni e reminder su quello che devi fare e devi passare queste comunicazioni ai livelli inferiori al tuo. Tutti questi messaggi tendono a stimolarti a completare i tuoi compiti.

Ma la mia impressione è che la struttura piramidale di Frontiers non è stata creata solo per la velocità, aveva un obbiettivo di marketing. Di sicuro, coinvolgendo così tanti scienziati nel processo crea un'atmosfera di partecipazione che li incoraggia a sottoporre i loro saggi alla rivista ed è qui che gli editori fanno soldi, naturalmente. Non posso provare che la struttura di Frontiers si stata concepita in questi termini dall'inizio ma, apparentemente, non sono alieni all'uso di tattiche di promozione aggressive per i loro affari.

Come potete immaginare, un sistema così complesso porta molti problemi. Primo, la pletora di sotto-riviste rende l'intero sistema di Frontiers simile all' “Emporio Celeste della Conoscenza Benevola” descritto da Borges – in breve, un casino. Poi, in caso di sistemi molto grandi, il problema del controllo è praticamente irrisolvibile: vedi il caso delle “Guerre Stellari” di Reagan come esempio. Forse Frontiers non è così complesso come la vecchia iniziativa di difesa strategica americana (SDI), ma i problemi sono gli stessi. Il loro sito internet dovrebbe gestire l'attività di migliaia (o forse decine di migliaia) di scienziati ma, nella mia esperienza, non ha mai funzionato decentemente bene. E gestire tutto il sistema deve richiedere un considerevole staff permanente. Di conseguenza, pubblicare con Frontiers non è a buon mercato.

Così, dopo quasi un anno di lavoro con Frontiers, sono diventato sempre più perplesso. Ho avuto la sensazione di essere solo un ingranaggio in una gigantesca macchina che non funzionava molto bene e che aveva il solo scopo di fare soldi per i livelli alti della piramide. Per favore, non mi fraintendete. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato nell'idea di fare soldi nel business dell'editoria: assolutamente no. E' chiaro anche che se gli editori sono un'impresa commerciale, allora loro un suo diritto decidere cosa pubblicare e cosa non pubblicare. Il modo in cui Frontiers si è comportato con “Recursive Fury” mostra questo atteggiamento in modo cristallino. Il loro management ha ascoltato solo i loro avvocati ed ha preso una decisione che ha comportato il rischio finanziario minore per loro. Non è stata solo una gaffe occasionale, è stata la conseguenza della struttura decisionale dell'editore.

Una volta chiarito questo punto, mi è sembrato anche chiaro quale fosse il problema: dato per scontato che un editore commerciale può pubblicare quello che vuole, chi difende la scienza (e in particolare la scienza del clima) dai gruppi di interesse, dalle lobby dai gruppi assortiti contro la scienza e dai vari pazzoidi individuali? Non si può chiederlo a un'impresa commerciale che è (correttamente) concentrata sul profitto. Ma si può chiedere perché così tanti scienziati dovrebbero regalare il proprio tempo e il loro lavoro ad un'impresa commerciale che non sembra essere realmente interessata a difendere la scienza. A questo punto, la mia scelta era ovvia. Mi sono dimesso come editore di Frontiers. Altri hanno fatto lo stesso per ragioni analoghe.

Spero che queste righe aiutino a chiarire la mia posizione in questa storia. Come ho detto nel mio commento precedente, le mie dimissioni non avevano niente a che fare con le virtù (o i difetti) del saggio intitolato “Recursive Fury”. Non sono qualificato per giudicare in quel campo e, comunque, non è questo il punto. Il punto che ho voluto sostenere – e spero che si sia compreso – è che dobbiamo reagire al clima di intimidazione che sta fagocitando la scienza. Questo clima di intimidazione assume molte forme e il caso di “Recursive Fury” mostra che ora ha raggiunto anche l'editoria scientifica. Il problema, qui, non è di uno specifico editore. E' che siamo bloccati da un modello vecchio di un secolo di comunicazione: costoso, inefficace e, peggio ancora, facilmente sovvertito dai gruppi di interesse particolare (su questo punto, vedete per esempio questo post di Dana Nuccitelli).

Quindi, cosa possiamo fare? All'inizio l'open access mi sembrava una buona idea per migliorare il processo editoriale, ma è diventato sempre più chiaro che potrebbe causare più danni che guadagni. In aggiunta all'aver generato centinaia di “riviste predatorie” di bassa qualità, gli editori tradizionali se ne sono appropriati e l'hanno trasformato in un modo per estrarre ancora altro denaro dai bilanci della ricerca scientifica.

Credo ancora nell'editoria open access, ma credo che ci sia molto lavoro da fare se vogliamo che diventi la rivoluzione della comunicazione scientifica che speravamo diventasse. Per questo ci vorrà tempo e, al momento, siamo bloccati in un sistema basato sull'editoria commerciale che non è necessariamente desiderosa di difendere la scienza in questo momento difficile. Ma possiamo almeno combattere astenendoci dal pubblicare con riviste che non difendono la scienza e possiamo anche andarcene come editori, come ho fatto con Frontiers. Questo dovrebbe dar loro almeno una spinta nella giusta direzione.




venerdì 21 ottobre 2011

Lo scandalo dell'editoria accademica



Con la "open access week" la settimana del libero accesso, che comincia la prossima settimana, Cassandra traduce (grazie a Massimiliano Rupalti) un recente articolo di George Monbiot, apparso sul "Guardian." In questo momento estremamente difficile per la scienza, sembra che gli scienziati stiano continuando a fare di tutto per spararsi nelle gambe da soli. Una di queste cose è di regalare il loro lavoro - pagato con fondi pubblici - agli editori scientifici che sono dei privati che ci fanno soldi sopra. E' uno scandalo sotto tutti gli aspetti che priva il pubblico della possibilità di capire e giudicare il lavoro fatto per loro (e con i loro soldi) dagli scienziati. Tutto questo da ampi spazi a chi è pagato dalle lobby anti-scienza per fare disinformazione e per la caccia allo scienziato scomodo. Considerando l'urgenza di prendere provvedimenti contro il riscaldamento globale e l'esaurimento delle risorse, se continuiamo così ci stiamo tutti quanti sparando nelle gambe da soli. Allora, dobbiamo liberare la comunicazione scientifica e renderla accessibile a tutti. Come dice Monbiot, "Abbasso il racket del monopolio della conoscenza"



Gli editori accademici fanno sembrare Murdoch un socialista

Di George Monbiot (Traduzione di Massimiliano Rupalti)


Gli editori accademici addebitano elevate commissioni per accedere alla ricerca pagata da noi. Abbasso il racket del monopolio della conoscenza.'


 Sebbene le biblioteche universitarie abbiano freneticamente tagliato gli abbonamenti per sbarcare il lunario, le riviste oggi consumano il 65% dei loro bilanci ': Foto: Peter M Fisher/Corbis

Chi sono i capitalisti più spietati del mondo occidentale? Le cui pratiche monopolistiche fanno di Walmart il negozietto sotto casa e di Rupert Murdoch un socialista? Non indovinereste la risposta neanche in un mese. Benché ci siano moltissimi candidati, il mio voto non va alle banche, alle compagnie petrolifere o a quelle di assicurazioni sanitarie, ma - aspettatevelo – agli editori accademici. 

Il loro sembra essere un settore stantio e insignificante. Tutt'altro. Di tutte le frodi aziendali, il racket che gestiscono è quello che ha più urgente bisogno di essere rinviato alle autorità garanti della concorrenza.

Tutti dichiarano che la gente dovrebbe essere incoraggiata a capire la scienza e le altre ricerche accademiche. Ma gli editori hanno messo un lucchetto e la scritta “Vietato entrare” ai cancelli. Vi dovreste indignare per la politica di accesso a pagamento di Murdoch, con la quale applica una tariffa di una sterlina per 24 ore per accedere al Times e al Sunday Times. Ma almeno in quel periodo puoi leggere e scaricare quello che vuoi. Leggere un singolo articolo pubblicato dalle riviste di Elsevier's ti costerà 31,50 dollari. Springer chiede 34,95€, Wiley-Blackwell 42 dollari. Ne leggi 10 e paghi 10 volte. E le riviste conservano il copyright per sempre. Vuoi leggere una lettera stampata nel 1981? Pagherai 31.50 dollari.



Illustrazione di Daniel Pudles


Naturalmente, puoi andare in biblioteca (se esiste ancora). Ma anche quelle sono state colpite da tasse cosmiche. Il costo medio di un abbonamento annuale ad una rivista di chimica è di 3.792 dollari. Alcune riviste costano 10.000 dollari l'anno o più a magazzino. La più cara che abbia visto è Elsevier's Biochimica et Biophysica Acta, che costa 20.930 dollari. Sebbene le biblioteche universitarie abbiano freneticamente tagliato gli abbonamenti per sbarcare il lunario le riviste oggi consumano il 65% dei loro bilanci, e ciò significa che devono ridurre il numero di libri che comprano. Le tasse delle riviste influiscono in quanto componente significativa dei costi universitari, che vengono passati ai loro studenti.

Murdoch paga i suoi giornalisti ed i suoi editori e le sue compagnie generano gran parte dei contenuti che usano. Ma gli editori accademici ottengono i loro articoli, le loro revisioni tra pari (approvate da altri ricercatori) e persino la maggior parte della loro redazione, gratuitamente. Il materiale che pubblicano è stato commissionato e finanziato non da loro, ma da noi, attraverso finanziamenti alla ricerca e stipendi accademici.
Ma per visionarlo dobbiamo pagare ancora ed in maniera esosa. I ritorni sono astronomici: nel passato anno finanziario, il margine di profitto operativo di Elsevier è stato del  36% (£724 su ricavi di £2 miliardi). Sono il risultato di una morsa sul mercato. Elsevier, Springer e Wiley, che hanno acquisito molti dei loro competitori, ora pubblicano il 42% degli articoli scientifici.

Ancora più importante, le università sono costrette a comprare i loro prodotti. I saggi accademici vengono pubblicati solo in un luogo e devono essere letti da ricercatori che cercano di tenere il passo con il loro tema di ricerca. La domanda è rigida e la competizione inesistente perché riviste diverse non possono pubblicare lo stesso materiale. In molti casi gli editori obbligano le biblioteche a comprare una gran quantità di riviste, che le vogliano in così grande quantità o meno. Forse non sorprende che uno dei più grandi truffatori che abbia mai truffato questo paese – Robert Maxwell – ha fatto gran parte dei suoi soldi attraverso le pubblicazioni accademiche.

Gli editori dichiarano di dovere addebitare tali commissioni a causa del costo di produzione e distribuzione e che loro aggiungono valore (nelle parole di Springer) perché “sviluppano i marchi delle riviste e mantengono e migliorano l'infrastruttura digitale che ha rivoluzionato la comunicazione scientifica negli ultimi 15 anni”. Ma un'analisi della Deutsche Bank giunge a conclusioni differenti. “Crediamo che gli editori aggiungano un valore relativamente piccolo al processo editoriale... se il processo fosse veramente complesso, costoso e di valore aggiunto, come contestano gli editori, il 40% di margine non sarebbe disponibile”. Lontani dall'assistere la divulgazione della ricerca, i grandi editori la impediscono, così come i loro lunghi tempi di consegna possono ritardare l'uscita delle scoperte di un anno o più.

Quello che vediamo è puro capitalismo di rendita: monopolizzare una risorsa pubblica per poi addebitare commissioni esorbitanti per usarla. Un altro termine per questo fenomeno è parassitismo economico. Per ottenere il sapere per il quale abbiamo già pagato dobbiamo cedere le armi ai proprietari terrieri dell'apprendimento. Ciò è abbastanza negativo per gli accademici, è peggio per gli altri. Mi riferisco ai lettori e revisori, sul principio che le dichiarazioni debbano essere seguite dalle fonti. I lettori mi raccontano di non essere in grado di permettersi di giudicare da soli se ho rappresentato o no la ricerca onestamente. I ricercatori indipendenti che cercano di informarsi riguardo a importanti problemi scientifici devono esibirne migliaia. Questa è una tassa sull'educazione, un ostacolo allo spirito pubblico. Sembra violare la dichiarazione universale dei diritti umani, che dice che “tutti hanno il diritto di essere liberi di....condividere i progressi scientifici ed i loro benefici”.

L'editoria ad accesso libero, nonostante le sue promesse e qualche eccellente risorsa come la biblioteca Pubblica della Scienza ed il database fisico arxiv.org, ha fallito nel rimpiazzare i monopolisti. Nel 1998 l'Economist, rilevando le opportunità offerte dall'editoria elettronica, predisse che "i giorni dei margini di profitto del 40% saranno presto defunti come Robert Maxwell".Ma nel 2010 i margini operativi di profitto di Elsevier erano gli stessi (36%) di quelli del 1998.

La ragione è che i grandi editori si sono impadroniti delle riviste con i fattori di impatto accademico più elevato, nelle cui pubblicazioni è essenziale per i ricercatori provare ad ottenere sovvenzioni e progredire nella loro carriera. Puoi cominciare leggendo riviste ad accesso aperto, ma non puoi fare a meno di leggere quelle chiuse.

I governi, con poche eccezioni, hanno fallito nei loro confronti. Gli Istituti Nazionali per la Salute negli Stati Uniti obbligano tutti a prendere le loro sovvenzioni per mettere i loro saggi in un archivio ad accesso libero. Ma il Consiglio della Ricerca inglese, la cui dichiarazione sul libero accesso è un capolavoro di chiacchiera insignificante, si basa “sull'assunto che gli editori manterranno lo spirito delle loro politiche correnti”. Puoi scommetterci. A breve termine, i governi dovrebbero riferire sugli editori ai loro cani da guardia della concorrenza ed insistere che tutti i saggi provenienti da ricerche finanziate pubblicamente vengano inserite in un database pubblico ad accesso libero. A lungo termine, dovrebbero lavorare con i ricercatori per tagliare fuori completamente gli intermediari, creando - seguendo le linee proposte da Björn Brembs della Freie Universität di Berlino - un unico archivio globale della letteratura e dei dati accademici. La revisione tra pari sarebbe supervisionata da un corpo indipendente. Potrebbe essere finanziato dai bilanci delle biblioteche che sono al momento dirottati nelle mani dei privati.

Il monopolio del sapere è così ingiustificato ed anacronistico quanto le leggi sulla bardatura dei cavalli da guerra. Buttiamo fuori questi feudatari parassiti e liberiamo la ricerca, che ci appartiene.