venerdì 28 aprile 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell'economia (terza parte)

(Pubblicato anche su Appello per la Resilienza, https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

In questo articolo indago la relazione fra consumi e crescita economica. In particolare, dato che i consumi della popolazione richiedono "a monte" consumi di energia, non sembra possibile ridurre i consumi per il semplice motivo che questi sono la conditio sine qua non di qualsiasi economia.
 
La consunzione come processo economico
Se si pensa all’estensione che il consumo ha assunto nelle nostre attività quotidiane è difficile non percepirlo come qualche cosa di “osceno”. La parola implica un esaurimento, una delapidazione di materia. Effettivamente è proprio questo il significato che assume nelle nostre società. Esse vivono del consumo di qualcosa in maniera tale da impedire o rendere difficoltoso il riutilizzo. E' molto interessante consultare la definizione che ne dà il vocabolario, per esempio il Treccani dice: "logorare, finire a poco a poco con l'uso" e "Ridurre al nulla un bene, un prodotto adoperandolo per particolari necessità, per il soddisfacimento di proprî bisogni, o in genere sfruttarlo per un uso determinato".

Una ri-sorsa è tale perché può rinnovarsi nel tempo. Ma bisogna prendere delle precauzioni affinchè possa continuare a generarsi. Il processo economico in quanto tale vive della “fine” o morte di un oggetto, di una merce. Questa è la condizione affichè il processo produttivo possa perpetuarsi (su questo Jean Baudrillard ha scritto pagine memorabili ne La società dei consumi). Come sarebbe possibile il consumo altrimenti? Come sarebbe possibile il “consumismo” senza la consunzione dell’oggetto? Il livello dei consumi può aumentare solo se vi è un ciclo incessante di ricreazione di oggetti (la sfida dell'economia circolare consiste nello sfruttare questa fatalità del processo economico. Sarà possibile trasformare il rifiuto in risorsa e generare addirittura maggiore valore tramite ulteriori cicli di trasformazione della risorsa? Ne parlerò nella quarta parte). Solo così si comprende il fenomeno della “obsolescenza programmata”. Tutti possono notare che le auto si rompono più facilmente di una volta. Ciò avviene affinchè se ne possano produrre e comperare regolarmente di nuove.

 

Dunque il sistema economico per definizione necessita dell’esaurirsi del “valore d’uso” di una merce affinchè sia possibile far ricominciare lo scambio. Economia è "circolazione", cominciata storicamente con la circolazione delle merci ma oggi ridotta a scambio di denaro. La nota-di-cambio di una merce (banconota) da mezzo diventa fine (valore di scambio) (si vedano gli scritti di E. Severino e U.Galimberti).

Il circolo vizioso
Abbiamo ricordato che l’obiettivo degli “ecologisti” (per riunire in un’unica categoria tutti coloro che hanno sensibilità verso le sorti del pianeta e dell’uomo) è ridurre i consumi: la cosiddetta sostenibilità, lo sviluppo sostenibile (anche se secondo alcuni la sostenibilità non dovrebbe implicare una riduzione del consumo di materia ed energia, qui interessa solo comprendere il meccanismo interno dell'economia). Ora, c’è un signore, il già citato Serge Latouche, che ha capito che questo non è possibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro, diceva.

Ovunque si sente parlare di “rilanciare i consumi”. Ebbene, come possiamo ridurli se l’economia ha bisogno di “rilanciarli” per continuare a crescere? E’ chiaro: senza vendite, senza spese, senza consumi, l’economia non può andare avanti.


Forse non abbiamo compreso tutte le implicazioni della crescita, soprattutto a livello economico. L’economia non può sussistere senza crescita perché il sistema socio-economico è una CAS (Complex Adaptive System), è adattato alla crescita, come dice David Korowicz (c'è un tasso di crescita fisso, ignoto, al di sotto del quale l'economia collassa). Che cos’è la crescita? E’ l’aumento di denaro nel mondo (come si è visto nella prima parte) a tassi esponenziali.

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Fonte: Gail Tverberg - Our Finite World

Dal grafico qui sopra però si può notare come la vera e propria crescita delle nostre economie sia avvenuta durante il "boom economico", dalla fine della seconda guerra mondiale alll'inizio degli anni '70 (in corrispondenza della prima grande crisi petrolifera). Un trentennio, "i trenta gloriosi" sono chiamati in Francia. Tale crescita non è avvenuta solamente in maniera esponenziale, ma iperesponenziale, in quanto gli stessi tassi di crescita sono aumentati. Questo non significa che in seguito l'economia abbia smesso di espandersi, ma che non si sono più raggiunti quei tassi di crescita. La crescita implica che ogni anno si produca di più del precedente, non mi stanco di ripetere questo mantra (per esempio: se nel 2017 +1%= dovremo produrre la stessa quantità di merci del 2016 e l’1% in più!). Ora, la crescita economica (insieme all'aumento di popolazione, secondo Limits to growth, I nuovi limiti dello sviluppo, 2004) genera un anello di retroazione positivo che alimenta la crescita "secondaria" degli altri settori economici.

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Il tema di questo articolo è mostrare che l'economia genera questo meccanismo autocatalitico che impedisce per definizione una diminuzione dei consumi. Possiamo considerare, nella sua essenza, il sistema economico come un circuito INPUT-OUTPUT, quello della domanda e dell’offerta. Sebbene, come hanno fatto notare alcuni, non sembrano più valere le leggi classiche della domanda e dell'offerta, ciò non cambia in nulla il fatto che da un lato ci debba essere qualcuno che produce e vende qualcosa (input) e dall'altro qualcuno che lo deve comperare (output) (su questo anche seconda parte).

Perché dunque non è possibile ridurre i consumi? Perché solo il continuo aumento dei consumi può alimentare il continuo aumento della produzione, sebbene ciò non sia possibile a lungo termine per le ragioni legate alla finitezza degli stock di materia della Terra (situazione picco dei minerali segnalata da Ugo Bardi nel 2011). Ed è proprio questo a generare il problema. Il sogno degli economisti è una crescita illimitata disincarnata dalla fisica dell'energia e della materia (lo scenario 0 di LTG 2004, per intendersi). L'economia umana è una struttura dissipativa che per mantenersi richiede flussi continui e in aumento.

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Fonte: Gail Tverberg - Our Finite World
   
La materia (non) è energia!
La crescita del PIL dipende in tutto e per tutto dal consumo di energia e secondo Gail Tverberg vi è una correlazione lineare al 99,9% fra crescita mondiale del PIL (GDP Growth) e crescita mondiale del consumo di energia (Energy growth).

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Se l'economia si serve nell'Antropocene di una quantità enorme di energia primaria (corrispondente a 17 TW di potenza nel 2013, secondo Ugo Bardi), ciò è di ordini di grandezza molto inferiori a quanto sarebbe possibile attuare tramite i PV (celle solari). Solamente coprendo 1/5 del Sahara si potrebbero ottenere 50 TW.

La questione si sposta: come sopperire al problema dei flussi di materia? L’economia necessita della produzione materiale per il processo di scambio, non può vivere a lungo di scambi meramente virtuali (come fa dagli anni '80: il 97% del denaro è virtuale, secondo David Korowicz). Nella quarta parte cercherò di chiarire se l'economia costituisce un "ostacolo" verso quella successiva rivoluzione metabolica che, come ha indicato Ugo Bardi, in un articolo straordinario,

"avvierebbe l'ecosfera verso un livello di trasduzione nuovo e maggiore di quello attuale"
Se è così, siamo nei guai.  
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Mi piace questa immagine dei gironi infernali di Dante. Interpretandola in modo fantasioso per raffigurare la situazione odierna, si potrebbe leggere il cerchio in basso come la base di risorse sulla quale si è edificato il castello di complessità sul quale crediamo di prosperare. Una piramide rovesciata, un gigante coi piedi d'argilla. Come dice Serge Latouche: “L’economia è una menzogna”.


(continua...)

martedì 25 aprile 2017

Perché l'energia nucleare non è un'alternativa ai combustibili fossili


Di Alice Friedmann



Da “Energy skeptic”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron e Jacopo Simonetta)

[ Le ragioni economiche sono l'ostacolo maggiore ora per le nuove centrali nucleari, con costi di capitale così alti che è quasi impossibile ottenre prestiti, specialmente quando il gas naturale è così tanto più economico e meno rischioso. Ma ci sono anche altre ragioni per le quali l'energia nucleare è nei guai. Ci sono molte più centrali in pericolo di chiusura di quante ne vengano costruite (37 o più potrebbero chiudere)]. 

Questa è una crisi di combustibili liquidi da trasporto. Il tallone di Achille della civiltà è la nostra dipendenza da camion di ogni genere, che vanno a gasolio perché i motori diesel sono di gran lunga più potenti di vapore, benzina, elettricità o qualsiasi altro motore sulla Terra (Vaclav Smil. 2010. Principali motori della globalizzazione: la storia dell'impatto dei motori diesel e delle turbine a gas. MIT Press). A miliardi camion (e macchinari) è richiesto di mantenere in funzione le catene di fornitura dalle quali dipendono ogni persona ed ogni azienda, così come estrazione mineraria, agricoltura, strade/costruzioni, camion per il legname e così via. Visto che i camion non possono andare a corrente elettrica, qualsiasi cosa che generi corrente non è una soluzione, quindi qualsiasi cosa generi elettricità non è una soluzione, né è probabile che la rete elettrica possa mai essere 100% rinnovabile (leggete “Quando i camion smettono di andare”, questa cosa non può essere spiegata così in breve), o che potremmo sostituire miliardi di motori diesel nel tempo che ci rimane.

Alice Friedemann www.energyskeptic.com autrice di “Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti”, 2015, Springer e di “Crunch! Chips e crackers di grano integrale”. Podcast: Practical Prepping, KunstlerCast 253, KunstlerCast278, Peak Prosperity, XX2 report


L'energia nucleare costa troppo

Le centrali nucleari statunitensi sono vecchie e in declino. Per il 2030, la generazione di energia nucleare potrebbe essere fonte di solo il 10% dell'energia elettrica, metà della produzione attuale, perché 38 reattori che producono un terzo dell'energia nucleare hanno superato i 40 anni di vita ed altri 33 reattori che producono un altro terzo di energia nucleare hanno più di 30 anni. Anche se ad alcuni verranno rinnovati i permessi, 37 reattori che producono metà dell'energia nucleare sono a rischio di chiusura per cause economiche, guasti, inaffidabilità, lunghe interruzioni, sicurezza e costosi aggiornamenti post Fukushima (Cooper 2013. L'energia nucleare è troppo costosa, 37 costosi reattori sono previsti in chiusura e Un terzo dei reattori nucleari moriranno di vecchiaia nei prossimi 10-20 anni).

venerdì 21 aprile 2017

Il futuro è alle nostre spalle




Il futuro è alle nostre spalle ma i grillini non lo sanno

Ho partecipato sabato al convegno Capire il futuro organizzato da Davide Casaleggio per onorare, a un anno dalla morte, la figura di suo padre. Gianroberto Casaleggio era uno strano animale, un uomo molto pragmatico (alla sua intuizione della piattaforma sul web si deve in buona parte, com’è noto, la fortuna dei Cinque Stelle) e insieme un idealista, un ottimista che credeva nel futuro dell’uomo, soprattutto attraverso lo sviluppo delle tecnologie, come ci dicono certe sue teorie che si spingevano verso un orizzonte molto lontano. 

Il Convegno, vista l’importanza dei temi che ha cercato di mettere a fuoco, aveva secondo me innanzitutto lo scopo di dimostrare che i Cinque Stelle non sono affatto quei ‘baluba’, ignoranti e impreparati, che tutti, o quasi tutti, vogliono far apparire. 

A me è toccato in sorte di trattare, nell’ultimo degli interventi degli ospiti, di un tema che, in un certo senso, ricomprendeva tutti gli altri: “Il futuro dell’uomo”. 

Innanzitutto ci sarebbe da capire se la specie umana avrà un futuro. Il problema più importante, tra l’altro molto sentito da quasi tutti, non è l’inquinamento globale. Non perché, come pensa Grillo, e molti altri con lui, attraverso nuove tecnologie troveremo, come in parte abbiamo già trovato, nuove e più pulite fonti di energia. Grillo non sa ciò che mi disse un tempo Paolo Rossi, che non è l’ex centravanti della Nazionale e nemmeno il comico, ma un importante filosofo della Scienza, e cioè che “la tecnologia, in qualunque campo applicata, come risolve un problema ne apre altri dieci ancora più complicati”. Ed è quindi un moltiplicatore di complessità e perciò di difficoltà che usurano la nostra vita. Noi ci salveremo dall’inquinamento semplicemente perché l’uomo, nel corso della sua storia, ha dimostrato di essere un animale estremamente adattabile, superato in questo solo dai topi. In Cina, a Pechino, gli abitanti vivono praticamente in una nube tossica e pur vivono.

Il vero pericolo ci viene proprio da quella Tecnologia di cui oggi tutti, non solo i grillini, sembrano entusiasti e alla quale affidiamo il nostro futuro. Un articolo da me scritto per il Gazzettino (10/10/2014) era così titolato: “Il più grande pericolo per la civiltà non è l’Isis ma la Scienza”. Naturalmente non intendevo, e non intendo qui, affermare che la Scienza in sé è il pericolo, la Scienza in sé è la conoscenza e quindi come tale consustanziale all’uomo ciò che lo distingue dagli altri esseri del Creato, ma appunto la scienza tecnologicamente applicata che è cosa diversa. I nuovi e inesausti Frankenstein stanno già lavorando a un programma, quello della società Neuralink di Elon Musk, per impiantare nel cervello umano un chip che ne sviluppi le capacità intellettive, ma questo non è che l’ultimo degli orrori, molti già applicati o in fase di applicazione e dei quali si è abbondantemente sentito parlare al Convegno.

Il fatto è che abbiamo perso il senso del limite. Ha prevalso la tanto strombazzata linea ideologica giudaico-cristiana che attraverso gli innesti della tecnologia e dell’economia ci ha alla fine portato alla società che oggi stiamo vivendo in cui si ritiene che tutto ciò che conosciamo, che tutto ciò che possiamo fare dobbiamo, prima o poi, più prima che poi, farlo.

Ma alle spalle della nostra civiltà c’è un’altra cultura molto più profonda di quella giudaico-cristiana. Ed è quella Greca. I Greci, attraverso Pitagora, Filolao e gli altri grandi matematici e pensatori, avrebbero potuto creare macchine molto simili alle nostre. Ma non lo fecero perché intuivano o piuttosto capivano che andare a manipolare e replicare la natura è pericoloso. Avevano il senso del limite. Sul frontespizio del Tempio di Delfi era scritto: “Mai niente di troppo”. E molti dei loro miti fondativi ruotano intorno a questo concetto. Parlando nei loro termini, l’ubris, vale a dire il delirio di onnipotenza dell’uomo (che è proprio ciò di cui oggi siamo preda) provoca la fzonos zeon, l’invidia dei Dei, e quindi l’inevitabile punizione (Prometeo). 

Nel nostro caso la punizione verrà repentina, improvvisa, “senza darci avvisaglia” come canta De André in un suo brano significativamente intitolato La Morte. Perché il nostro sistema è basato sulle crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Noi siamo come una lucente macchina che partita a metà del XVIII secolo con la Rivoluzione scientifica e industriale ha percorso gli ultimi due secoli e mezzo a grandissima velocità, ma ora si trova davanti a un muro che non può valicare, però si ostina a dare di gas per cui prima o poi fonde (chiunque oggi parli di crescita –mi riferisco naturalmente alle classi dirigenti non al cosiddetto uomo comune- è un criminale). 

Naturalmente poiché questo collasso non avverrà oggi né domani ma è spostato in là nel tempo, le classi dirigenti se avessero un po’ di cultura potrebbero risponderci ironicamente con Oscar Wild “ma che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Ma il fatto è che alla velocità in cui stiamo andando siamo diventati i posteri di noi stessi. In un vorticoso andamento circolare siamo arrivati alle nostre spalle e ce lo stiamo mettendo nel culo da soli. In questo sistema che ho definito ‘paranoico’ noi non possiamo mai trovare un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Raggiunto un obbiettivo dobbiamo immediatamente inseguirne un altro e un altro ancora finché “morte non ci colga”. La situazione di grande disagio esistenziale che tutti, o quasi tutti, noi avvertiamo, qualsiasi sia la classe sociale cui si appartenga, è dovuta a questo meccanismo. E quindi stress, angoscia, nevrosi, depressione, droga e ogni sorta di dipendenza per colmare questo vuoto esistenziale. Noi siamo come i levrieri, fra gli animali più stupidi della terra, con buona pace degli animalisti, che al cinodromo inseguono la lepre meccanica, ricoperta di stoffa, che per definizione non possono raggiungere. La lepre ha solo la funzione di farli correre. Se la raggiungessero il gioco, cioè il sistema, sarebbe finito.

La grande rivoluzione che accompagna quella scientifica e industriale, è quella, ancora più determinante, della concezione del tempo. Allo statico e quieto presente basato sui ritmi circolari delle stagioni, si è sostituito il dinamico futuro che non solo contiene in sé i germi della propria autodistruzione ma è precisamente la causa del nostro malessere.

In questo affannoso inseguimento dell’impossibile (la lepre meccanica della metafora) noi abbiamo perso la consapevolezza che il vero valore della vita non è né il denaro né il lavoro, ma il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre esistenze. Consapevolezza che era presente nella cultura greca e nell’Europa medievale (ma esiste anche in alcune civiltà contemporanee, almeno quelle che non abbiamo distrutto a suon di civilissime bombe).

Non si tratta di ritornare all’età delle caverne ma di recuperare alcune suggestioni delle società che ci hanno preceduto e una sapienza antica. E capire che il futuro non è davanti ma dietro di noi.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2017

lunedì 17 aprile 2017

CONFINI – 2 – La scomparsa dei confini

Abbiamo visto che qualunque sistema, di qualunque taglia e natura, necessita di una delimitazione che serve a controllare gli scambi fra ciò che è “dentro” e ciò che è”fuori”.  La dimensione e il grado di permeabilità di questa barriera devono necessariamente cambiare nel tempo, per adattarsi al divenire dalla situazione sia interna, che esterna al sistema in esame.  Pena la disintegrazione.

Nascita degli stati e degli imperi.


Passando ad osservare le società umane, vediamo che, fin dall’inizio, ogni clan o piccola tribù ha costituito un sistema (perlopiù formato da sotto-sistemi familiari), facenti parte di sistemi più grandi (popoli ed umanità).  A loro volta parte della Biosfera e così via.

I limiti erano costituiti da barriere genetiche (grado di parentela), ma più spesso da limiti immateriali come quelli culturali (lingua, religione, faide, ecc.).  A questi si associavano spesso (ma non sempre) anche limiti materiali, ad esempio geografici.

Abbiamo però visto che i sistemi più grandi e complessi sono più efficienti nell’estrazione delle risorse e nella dissipazione dell’ energia.  Ad esempio, sempre parlando di società primitive, una tribù più numerosa si può permettere persone specializzate come artigiani, guerrieri e sciamani.  E questo le può consentire di prevalere sui vicini, raziandoli; oppure eliminandoli per estendere il proprio territorio.

Vi è quindi un vantaggio notevole nella collaborazione ed integrazione fra sistemi diversi.  Una progressiva integrazione che, man mano che cresce, rende progressivamente più permeabili i confini dei sotto sistemi, rafforzando di conserva il confine comune che si va formando.

Ricordate la foglia?  Le cellule perdono buona parte della loro individualità, costituendo tessuti ed organi.   In questo modo, ogni cellula perde qualcosa in termini di “sovranità”, ma guadagna parecchio in termini di una maggiore e più regolare disponibilità di energia ed alimenti.   Un’alga monocellulare può sfruttare una frazione di millimetro cubo di acqua.   Un albero può sfruttare migliaia di metri cubi sia sopra che sotto terra.   Può anche usare la porpria ombra per uccidere altre piante concorrenti e, viceversa, favorire organismi che gli sono utili.

Analogamente, un clan familiare di contadini autosufficienti può sfruttare un paio di ettari di terra, usando attrezzi di legno e di pietra.  I grandi imperi della storia hanno costellato il Pianeta di meraviglie.

Vantaggi e svantaggi dell'integrazione


Dunque, il punto qui è che un sistema più ampio permette una maggiore abbondanza e regolarità nei flussi di materia e di energia sia in entrata che in uscita.

Per esempio, nelle economie locali semi-autosufficienti bastano due-tre cattivi raccolti di seguito, oppure una calamità importante, e la gente comincia a morire di fame.   Mentre lo sviluppo dei commerci e dei trasporti su grande scala e distanza, così come la nascita di grandi stati e potenti organizzazioni sovra-nazionali,  rendono possibile far affluire nelle zone di crisi il surplus di altre.

Il rovescio della medaglia è però che, in questo modo, ogni sotto-sistema dipende da altri.   Trattando di società umane, la perdita di sovranità è il prezzo da pagare per aumentare le proprie potenzialità di difesa, di crescita e di contenimento delle crisi.

Sempre parlando di società umane, aumentare la complessità significa anche la nascita e lo sviluppo della specializzazione professionale e, di conseguenza, delle classi sociali.  Man mano che i confini interni si erodono, aumenta infatti la produzione complessiva di beni e servizi, ma questi non sono mai ugualmente distribuiti, in nessuna società complessa.   Ed il livello di ineguaglianza tende a crescere con le dimensioni del sistema ed il suo grado di integrazione.   L’Impero Romano di Traiano, fortemente integrato e centralizzato, era molto meno egalitario dell’Impero Carolingio, basato su una miriade di capi locali legati fra loro da un giuramento. Ovviamente, non è questo l’unico fattore, ma è una tendenza.

In pratica, le sperequazioni presenti fra i sistemi separati che si integrano tendono a sparire, mentre ne sorgono altre, diversamente distribuite.  Per questo, la creazione degli stati nazionali ha richiesto l’eliminazione, spesso violenta, delle società precedenti.  Per fare un esempio, la formazione della Francia, fra Luigi XIII e XIV, ha comportato la sostituzione di gran parte della classe dirigente di tradizione feudale con un’altra formata da burocrati e proto-capitalisti.  Mentre la formazione della Francia moderna è passata attraverso il Terrore e le guerre napoleoniche.

Un esempio di natura diversa, ma analogo, è lo sviluppo del capitalismo industriale che eliminò ogni traccia delle tradizioni che davano identità e resilienza alle classi popolari.  Queste si adattarono, creando un nuovo confine culturale: l’identità della classe operaia.  Il capitalismo finanziario ha eliminato anche questa.   Il primo passaggio era stato ampiamente previsto da Marx ed Engels, il secondo assolutamente no.

In sintesi, l’integrazione di sotto-sistemi in sistemi maggiori comporta un vantaggio complessivo, ma necessariamente questo avviene a danno di alcuni elementi, per il maggior vantaggio di altri.   Un “effetto collaterale” che può essere fortemente mitigato scaricando i danni ad altri soggetti esterni.  Finché questi soggetti sono altre società umane, la cosa è crudele, ma sostenibile.  Quando il “soggetto esterno” è invece la Biosfera (come di norma, almeno in parte) è più problematico.  Infatti, anche se siamo abituati a considerare la Biefera come esterna al nostro sistema socio-economico, è invece il nostro sistema umano ad essere interno all’ecosistema globale.  In altre parole, danneggiando la Biosfera necessariamente danneggiamo noi stessi.

Il pericolo più insidioso è quindi che la maggiore crescita economica e demografica che accompagna la complessità metta sotto crescente stress il sistema maggiore di cui le società umane fanno parte (ecosistema e financo la Biosfera).   Ci torneremo.

Internazionalizzazione


Nel XVIII secolo, i principali stati europei avevano raggiunto un notevole grado di integrazione interna, ma il commercio internazionale era assai limitato.  Lo sviluppo di questo fu indicato da David Ricardo e dagli altri padri dell’economia liberale come una delle chiavi di volta per la crescita economica ed il progresso.   In estrema sintesi, si sostenevano due punti fondamentali.

Il primo è quello già citato della possibilità di sopperire con il surplus di alcuni alle carenze di altri.

Il secondo era che i diversi paesi e le diverse regioni hanno vocazioni produttive diverse.   Per esempio, in Sicilia si fa del vino migliore che nello Shropshire, mentre le pecore inglesi producono una lana migliore di quella siciliana.   Parimenti, i giacimenti di minerali e le fonti energetiche (all’epoca soprattutto il carbone) non sono uniformemente distribuiti.  Rendere i confini statali più permeabili alle merci  poteva quindi consentire ad ogni paese di specializzarsi nelle produzioni per le quali era più vocato, aumentando l’efficienza e quindi la ricchezza complessiva delle popolazioni.  Inoltre,  aumentando il grado di interdipendenza, diminuiva il rischio di conflitto.

Una teoria coerente con quello che oggi sappiamo sulla dinamica dei sistemi e, difatti, ha sostanzialmente funzionato, anche se non sempre così bene come Ricardo sperava.


Europeizzazione

La formazione di una struttura sovrastatale europea ha seguito una schema analogo, ma con alcune importanti novità.  Tanto per cominciare, l’integrazione è avvenuta in modo volontario, sulla base di trattati approvati dai parlamenti nazionali e non, come di solito avviene, tramite un’invasione militare e/o l’imposizione di una nuova classe dirigente.

Un secondo punto importante è che, fino al 1995, l’integrazione è avvenuta in modo molto graduale.

Il terzo è che non ha riguardato solo accordi commerciali, ma che politici.  Di conseguenza, la permeabilità dei confini è cresciuta non solo nei confronti delle merci, ma anche delle persone e dei capitali.

Come in tutti i processi di trasformazione, anche questo ha avuto i suoi perdenti, ma nel complesso, l’Europa occidentale è diventata la società di gran lunga più prospera e pacifica dell’intera storia dell’umanità.  Un dato di fatto che è di moda dimenticare.

Con l’integrazione dei paesi dell’ex-impero sovietico (nel 2004 e nel 2007) furono invece commessi diversi errori.   I due principali penso che siano stati la scelta sbagliata dei valori fondanti e la fretta.   I valori fondanti di Coudenhove-Kalergi e, successivamente, di Shuman, de Gasperi e gli altri “padri fondatori”  erano soprattutto la fine delle guerre in Europa e lo sviluppo di una società liberale.   Viceversa, negli anni '90 e 2000, fu in nome del benessere materiale che società ed economie furono sconvolte nel giro di pochi anni.   Ovviamente, il contraccolpo generò una serie di squilibri che siamo lontanissimi dall’aver recuperato.

Globalizzazione


Ma in quegli anni, tutto questo era invisibile per una classe dirigente completamente ebbra di vittoria (in occidente). Oppure completamente sedotta dalla prospettiva di una facile ricchezza (in tutti gli altri paesi).

Sorse così l’idea di estrapolare un processo simile a quello europeo a livello mondiale. Era nata la globalizzazione.   Nei sogni dei suoi promotori, avrebbe dovuto integrare tutti i paesi della Terra in un unico mercato, governato da organismi internazionali indipendenti e sovraordinati agli stati.  Col tempo, si diceva, ciò avrebbe portato anche ad un’unica società, con un’unica lingua, un'unica cultura, un unico governo, eccetera.  L’intera umanità finalmente affratellata in una sorta di villaggio globale grazie al commercio ed alle nuove tecnologie.

Sappiamo che è andata diversamente per una lunga serie di fattori. Limitandoci qui al punto di vista sistemico, si può però dire che è accaduto esattamente quello che ci si poteva aspettare.

Nell’internazionalizzazione, capitali e persone rimangono ancorati al loro luogo d’origine. Ciò significa che chi si arricchisce con il commercio internazionale è costretto a investire nel proprio paese e questo, almeno in linea di principio, crea lavoro per la popolazione locale che è anch’essa vincolata al proprio territorio.  Non solo; i capitalisti si posso arricchire a dismisura, ma non possono lasciare il proprio paese, pena perdere tutto.  Inoltre, se si rendono sufficientemente odiosi, potrebbero anche subire delle conseguenze molto sgradevoli, come molte volte è effettivamente accaduto nella storia.

Nell'europeizzazione, i confini dei singoli stati veniìvano progressivamente erosi, ma contemporaneamente si formava e rafforzava un confine esterno comune. In pratica, anche se il processo di europeizzazione e quello di globalizzazione vengono spesso confusi, sono intrinsecamente antitetici.

Gli accordi di globalizzazione permettono lo spostamento ovunque sia dei capitali finanziari, sia del capitale culturale (in particolare know-how e tecnologie). Permettono altresì ai capitalisti di spostarsi quasi liberamente da un luogo all’altro in quello che, per loro, è effettivamente un villaggio globale.   E permettono anche lo spostamento di masse di manodopera, creando un mercato globale del lavoro che, in pratica, diventa un sistema di crumiraggio mondiale.

Paradossale ed istruttivo è il fatto che la UE e gli USA furono fra i principali promotori di questa follia planetaria.   Senza rendersi conto che  i loro stessi confini ed i loro stessi sistemi socio-economici sarebbero stati  fra quelli che avrebbero subito il contraccolpo maggiore.   In un processo di integrazione rapida a tutti i livelli, ci sono infatti necessariamente sotto-sistemi (regioni, gruppi di persone, imprese, o altro) che avranno il più dei vantaggi, se non tutti.  Mentre altri soggetti avranno gli svantaggi corrispondenti.  In altre parole, si crea un mondo di vincenti e perdenti assoluti.  E dovremmo sapere tutti da un pezzo che la civiltà industriale è un "gioco" in cui chi ha le manifatture vince, chi ha le cave, le miniere e le discariche perde.  Esattamente quello che, guarda caso, è accaduto.   Nessuna sorpresa.

Il seguito, al prossimo post.

giovedì 13 aprile 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell'economia (seconda parte)

 (Pubblicato anche su Appello per la Resilienza: https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

 Post di Michele Migliorino

 

DISEGUAGLIANZE ECONOMICHE

Vi sono molti aspetti connessi con la nostra difficoltà di trovare soluzioni ai cambiamenti climatici e al problema delle risorse. Come cerco di dimostrare in questa serie di articoli, ciò sembrerebbe essere causato dal fatto che il sistema economico impedisce uno sviluppo etico e sociale autentico.

In questi ultimi anni si è fatto sempre più evidente il crescente divario dei redditi. Si tratta di una situazione generata dal funzionamento del sistema o è temporanea e risolvibile? In che modo va ad incidere questo sulla nostra capacità di trovare risposte pratiche ai problemi globali?

Non può esistere economia senza crescita. Ciò significa che la quantità di denaro nel mondo deve continuamente aumentare. Ma come si distribuisce la ricchezza?

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fonte: www.lteconomy.it

Il tema della disuguaglianza è anche emerso nel corso degli incontri al World Economic Forum a Davos (19 gennaio 2015), quando, Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam International, ha presentato i risultati di una delle ultime pubblicazioni di Oxfam sulla disuguaglianza, ‘Wealth: Having It All and Wanting More,’ evidenziando che la ricchezza aggregata dell’ 1 per cento più ricco della popolazione mondiale supererà quella del restante 99 per cento entro il 2016. 

Nella prima parte avevo argomentato che il sistema economico si basa sulla crescita del capitale. Tutto ciò è noto sotto il nome di Capitalismo. Vediamo un paio di grafici la cui idea è mettere in relazione la grandezza del continente, la % di popolazione e la % di ricchezza. Qui sotto la situazione nel 1990.

fonte: www.wordmapper.org

Vediamo di seguito invece come sia cambiata nell'arco di quasi 30 anni. Il Sud del mondo si assottiglia ancora di più a favore del Nord, ma dopo 30 anni è l'Asia che sta crescendo, non l'Occidente.

fonte: www.wordmapper.org. La situazione odierna, nel 2015.

Ma sappiamo bene che è all'interno dei singoli paesi che si manifestano la diseguaglianze. Non v'è una distribuzione egualitaria della ricchezza e questo, secondo Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo; Income inequality in the US, 1913-1998) e Gail Tverberg (Why we have a wage inequality problem - Our finite world) è una componente fondamentale - se non primaria - dell'attuale crisi economica.

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fonte: google immagini.

L'Occidente e il mondo intero è travagliato dal problema delle diseguaglianze. Lo hanno dimostrato le lotte degli ultimi due secoli fra ricchi/poveri, capitalisti/comunisti. Sembra che il sistema sociale debba scindersi, per via delle condizioni necessarie alla creazione di capitale: chi stipendia e chi è stipendiato; chi possiede i mezzi per poter produrre e chi lavora; produttori e consumatori (è evidente che anche i "produttori" sono consumatori. Qui si allude a quella divisione dei redditi che avviene a monte del semplice atto di acquisto. Come produttori si intendono gli "imprenditori". Ogni imprenditore è anche consumatore, in quanto vivente, e ogni consumatore contribuisce a produrre dei beni. Ciò non toglie che i capitali si spostino - come si vede qui di seguito - dalla parte di chi possiede i "mezzi di produzione"). 

E' questa spaccatura la matrice di tutte le disuguaglianze sociali in quanto i profitti si spostano necessariamente dalla parte di chi possiede i "mezzi di produzione". Da chi viene prodotta la ricchezza e in quali tasche finisce? Ai lavoratori o agli imprenditori? Questo spostamento graduale dei redditi è ben documentato.

Risultati immagini per oxfam disuguaglianza

Al consumatore, ironicamente, viene lasciato il "potere d'acquisto" e l'illusione di poter partecipare attivamente alla vita economica mentre è del tutto eterodiretto dalle logiche commerciali globali (cosa può il piccolo agricoltore contro la FAO?). Ma come avviene questo spostamento? Un illustre sociologo italiano, Luciano Gallino, ha ben chiarito la questione nel libro Il colpo di stato di banche e governi (Einaudi, 2015) (e in Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai miei nipoti - Einaudi, 2015). Dopo aver parlato delle origini strutturali della crisi attuale (2007-2008) - che hanno avuto origine negli anni '80 quando è cominciato un predominio della finanza sull'economia reale come risposta alla crisi del regime di accumulazione - egli spiega che l'accumulazione è la:

crescita del capitale esistente mediante nuove dosi di altro capitale derivante da eccedenza del valore realizzato della produzione sul consumo in un determinato periodo. 

E continua dicendo:

L'accumulazione accresce costantemente la frazione di capitale investita in mezzi di produzione mentre diminuisce proporzionalmente la frazione investita in forza lavoro. 

Queste due citazioni difficili ci dicono che il capitale si accresce solo perché una parte sempre maggiore di profitto resta in mano all'imprenditore, mentre una sempre minore in mano al dipendente. E' questo il processo che ha generato la grande disoccupazione di questi anni e la tendenza alla meccanizzazione/robotizzazione delle aziende: ridurre i costi di sussistenza dei lavoratori. I robot non hanno bisogno di stipendio! Qui di seguito Gail Tverberg mostra il trend di discesa dei redditi dal 2000.

  

Fonte: Gail Tverberg - Our Finite World. Rapporto fra i redditi (wage) e il PIL (GDP).

La maggior parte dei profitti generati dalla forza-lavoro finiscono all'imprenditore. Si alimenta sempre più il divario fra una popolazione disoccupata e con sempre minor salario e degli imprenditori ultra-ricchi. Si è visto sopra come questa situazione sia omogenea su tutto il pianeta per via del mercato "unico", la globalizzazione. Una sola è la legge che unifica il Nord ricco e il Sud povero. Ma è una situazione che può durare? Il capitalismo può continuare ad esistere in eterno?

(La divisione che abbiamo creato fra i membri della nostra specie (infraspecifica, in termini ecologici), comporta un surplus di distruttività che si aggiunge a quella "naturale" relazione interspecifica che già da sola creava molti guai. Si veda per esempio la storia della diffusione nel pianeta dell'uomo cacciatore-raccoglitore come descritta da Jared Daimond nei primi capitoli di Armi, acciaio e malattie).

Marx credeva che il capitalismo portasse in sé i germi del suo superamento e che ciò sarebbe avvenuto già a fine XIX secolo attraverso una socializzazione della produzione ad opera delle masse dei lavoratori. Ciò non è avvenuto e un secolo di lotte comuniste si è risolta infine in una netta vittoria del neo-liberismo. Oggi del comunismo resta solo uno spettro. Perché ha perso? In definitiva il marxismo-comunismo restava solidale con quella "colossale visione del mondo" del suo acerrimo nemico capitalista. Non viene mai meno l'esigenza produttiva - e il capitalismo si è dimostrato più potente nel portare avanti questa logica.

Come hanno mostrato - fra gli altri - Jean Baudrillard e Naomi Klein, esso utilizza ogni mezzo per fortificarsi, persino la critica che gli viene rivolta - le lotte rivoluzionarie; il pensiero critico - viene ri-prodotta dal sistema per autoalimentarsi.

Voi potete redistribuire tutti i redditi che volete; potete regolare l'economia in maniera da facilitare le classi più povere e potete persino (forse) allungarne la vita in maniera che possa sembrare un sistema sempiterno, ma ciò non toglie che un sistema che vuole crescere indefinitamente dovrà prima o poi crollare. E' l'effetto Seneca, una semplice legge di natura.

(continua...)

venerdì 7 aprile 2017

CONFINI – 1. Confini dei sistemi

di Jacopo Simonetta

I confini politici sono qualcosa di particolarmente complicato.   La loro posizione e le loro caratteristiche cambiano infatti rapidamente (rispetto ai tempi storici) e dipendono da un insieme molto vasto di fattori fisici e geografici, ma anche storici, culturali, economici ecc.

La dinamica dei sistemi è solo uno dei molteplici approcci possibili alla questione, ma può essere utile per mettere in luce degli aspetti spesso trascurati.  Tenterò di chiarire questo punto in una serie di post di cui questo è il primo.

Confini dei sistemi.


Secondo la definizione di Ludwig von Bertalanffy, padre della teoria dei sistemi, "Un sistema è un complesso di elementi che interagiscono fra loro" (1968).   Una definizione successivamente integrata da numerosi altri autori, fra cui James Grier Miller, che per primo focalizzò il punto essenziale in questa sede: “Un sistema è una regione delimitata nello spazio-tempo" (1971).   Concetto ripreso ed ampliato da J. Gougen e F. Varela: “Un sistema origina attraverso una distinzione che divide il mondo in due parti, come quello e questo, oppure ambiente e sistema" (1979).

In altre parole, possiamo analizzare come un “sistema” qualunque cosa sia composto da vari elementi che interagiscono fra loro all’interno di un confine, anche immateriale, che permette di distinguere un “dentro” da un “fuori”.

Matrioske


Ovviamente, il “dentro” sarà spesso suddiviso in sotto-sistemi, ognuno dei quali delimitato in qualche modo.  

 Ed il “fuori” altro non è che il meta-sistema di cui il sistema che stiamo osservando è parte.

Se vogliamo essere pignoli, in realtà esiste infatti un unico sistema: l’universo (o, per essere ancora più pignoli: almeno un universo) e non sappiamo se ha dei limiti.  Non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché dei limiti li ha invece l’universo conoscibile.   Per la felicità di S. Tommaso, questo è una sfera geocentrica, avente per raggio la distanza percorsa da un fotone in circa 13,7 miliardi di anni.   Quello è infatti il limite, in espansione costante,  da cui in via del tutto teorica ci possono giungere delle informazioni.

All’interno di questo sistema, entro certi limiti oggettivo, ci sono miliardi di sottosistemi rappresentati da galassie, nebulose e molto altro, ognuno dei quali contiene miliardi di stelle, molte delle quali con i loro sistemi di pianeti e così via, a scendere di scala fino ad arrivare alle cellule che compongono gli organismi.   Ci sono altri livelli organizzativi più piccoli, ovviamente, ma il loro grado di complessità diminuisce e non è detto che siano definibili come “sistemi”.   Men che meno come “sistemi complessi”.

Il sistema minimo


Per fare un ragionamento su come sono fatti e come funzionano i sistemi, forse conviene partire proprio dall’estremo minimo della gamma, dalla matriosca più piccola e cioè dalla cellula.   Non solo per omaggio a von Bertalanffy (che era un biologo), ma anche perché è più facile.

Una cellula è composta da diversi organuli che svolgono varie funzioni, immersi in un citoplasma delimitato da una membrana.   Perlopiù contengono un sotto-sistema, il nucleo, ma non sempre e qui lo ignoreremo.

Dunque torniamo alla membrana cellulare: come è fatta e a che serve?   La cellula, per restare funzionale, deve mantenere sotto il proprio controllo una serie di parametri interni, ad esempio la pressione osmotica.   Se ci sono troppi ioni, la cellula si risecchisce e muore, se c’è troppa acqua la cellula scoppia.   A questo serve la membrana: regolare gli scambi con il meta-sistema di cui la cellula fa parte secondo le necessità vitali di questa.   Per questo la membrana è semipermeabile.  Cioè consente il passaggio di alcune cose (ad esempio l’acqua), ma non altre (ad esempio ioni e virus).   Ma per controllare l’ambiente interno e nutrire la cellula non basta.   La membrana contiene dunque delle strutture specializzate che, dissipando energia, sono in grado di “mangiare”, oppure di espellere singoli ioni, acqua, molecole ed altro in modo da mantenere l’omeostasi necessaria.  In altre parole, la membrana è una struttura funzionale che, dissipando energia, protegge la cellula, assicurandone l’integrità e la funzionalità.

Salendo di scala


Saliamo di scala.   In una foglia, ad esempio, troviamo che le cellule non sono tutte uguali.   Quelle esterne sono blindate e svolgono la funzione specializzata di proteggere il tessuto interno che, al contrario, è assai più tenero e biologicamente attivo.   Anche a questo livello, abbiamo un confine che delimita il sistema foglia, costituito dall'epidermide (più eventuali elementi esterni) la cui funzione è quella di proteggere l’interno dall’esterno.   Ma abbiamo visto che nessun sistema vivente può esistere se isolato. Dunque l'epidermide ha dei fori, gli stomi, controllati da strutture apposite che lasciano passare la quantità di aria necessaria per la fotosintesi.  Nel frattempo, i pigmenti dell'epidermide fanno passare la quantità giusta di luce.  Né tanta da bruciare le cellule, né poca da farle morire di fame.  Cioè, la foglia è avvolta da qualcosa che, sempre dissipando energia, la mantiene funzionale.

Mutatis mutandis, lo stesso, identico schema si ripropone ai livelli crescenti di complessità a cui si organizzano la Vita ed il Pianeta nel suo insieme.   La più esterna delle barriere protettive terrestri è la ionosfera, che ci protegge dai raggi gamma, ma lascia passare la luce ultravioletta, visibile ed infrarossa.


A cosa servono i confini


Un punto fondamentale è dunque questo: qualunque sistema, per esistere, necessita di una barriera che lo delimita e deve quindi dissipare energia per costruire e far funzionare tale barriera.   Questo perché è necessario che le condizioni interne siano controllate.   D’altronde, Carnot ci ha insegnato che un sistema isolato vedrebbe la sua entropia crescere fino ad un massimo, mirabilmente definito da Nietzsche “morte termica”.

Dunque, se nessun sistema può esistere se non delimitato, nessun sistema può esistere se isolato.   In altre parole, ogni confine, dalla membrana di una singola cellula alla ionosfera ed oltre, ha la funzione non di isolare il sistema, bensì quello di controllarne gli interscambi con il sistema più ampio di cui fa parte, il quale a sua volta avrà i suoi propri confini e così via.

Questo è il secondo punto fondamentale: ad ogni livello di organizzazione corrisponde una diversa delimitazione, con differenti funzioni.    Se ogni cellula avesse la permeabilità di quelle dell'epidermide foliare, la pianta morirebbe, anzi non esisterebbe neppure.   Dunque è necessario che le cellule si differenzino per svolgere funzioni specializzate.  In altre parole, per aumentare la propria efficienza, un sistema deve dissipare energia per aumentare la propria complessità.   Cioè diventare un più ampio insieme funzionale di elementi e di relazioni.

Livelli superiori di complessità consentono di assorbire e dissipare maggiore energia.  Dunque di prevalere nella competizione con altri sistemi e sotto-sistemi, ma richiede più risorse.  Per questo su di una roccia nuda nascono dei licheni. Non appena si forma un po’ di suolo, le erbe sostituiscono i licheni e quando c’è abbastanza terra, gli alberi prevalgono sull’erba.

Si badi bene che tutto questo non ha niente a che fare con questioni etiche e scelte umane, ma solo con quello che Tommaso Campanella chiamava il “senso delle cose” e che noi chiamiamo “gradiente termodinamico”. (Ai fisici non piace sentirselo dire, ma buona parte del loro lavoro consiste nel mettere a punto e chiarire le intuizioni dei migliori maghi del rinascimento).

Ma se livelli superiori di organizzazione hanno maggiori potenzialità,  necessitano anche di maggiori risorse e, di conseguenza, scaricano maggiore entropia nel meta-sistema di cui fanno parte.   Vale a dire che erodono più rapidamente le riserve di energia ed informazione del loro ambiente.  Riserve che possono essere reintegrate a scapito dei meta-sistemi via via sovraordinati, fino alla matrioska più grande: l’universo conoscibile.
Molto si discute del se e come, entro o fuori di questo, vi siano “fabbriche” di entropia negativa.   Oppure se tutto esista ed evolva solo grazie alle scorte di bassa entropia che abbiamo ereditato dal “big bang”.   Ma tutto questo, per quanto affascinante, ci riguarda molto poco.   A noi basta sapere che sulla Terra abbiamo una sola “macchina” che pompa l’entropia al contrario: la vegetazione.   Tutto il resto, compresi noi, dipende da lei.  Ovviamente, ciò avviene a spese del Sole e fra un paio di miliardi di anni saranno guai.

Ma non credo siano in molti a preoccuparsene. Piuttosto, nei prossimi post vedremo invece di utilizzare questi concetti per capire come ha funzionato la globalizzazione e come, in grandissime linee, probabilmente funzionerà la de-globalizzazione.

lunedì 3 aprile 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell'economia (prima parte)

Guest Post di Michele Migliorino. 


Introduzione

Forse non abbiamo ancora compreso fin dove arriva il "problema umano" dietro a tutta questa faccenda delle risorse e del picco del petrolio.

In accordo con la nostra epoca scientifica, siamo convinti che per poter dare risposte alla "crisi" siano sufficienti i mezzi tecnici, mentre dovrebbe apparire evidente - dopo secoli di guerre e distruzione ambientale - che la tecnologia nelle mani dell'uomo può portare più danni dei benefici che crea.
E' importante ricordare l'avvertimento di quel grande pensatore che ha dato inizio allo studio del Sistema-Terra in maniera così innovativa, Dennis Meadows:

"Ci comportiamo come se il cambiamento tecnologico possa sostituire il cambiamento sociale". (fonte: http://ugobardi.blogspot.it/2014/06/dennis-meadows-e-troppo-tardi-per-lo.html)

Bisognerebbe chiedersi dunque, che cosa blocca lo sviluppo sociale? Il che equivarrebbe a domandare: perché i nostri tentativi di operare dei cambiamenti concreti (la transizione alle rinnovabili) non riescono ad arrivare a buon fine? Perché la società è così lenta nel cercare di salvare se stessa?

E qui troviamo un aspetto ancora del tutto incompreso che cercherò di chiarire, infatti: il problema è l'Economia. Non perché non abbiamo abbastanza denaro da mettere in campo - ora che siamo al termine della partita? - ma perché pretendiamo di risolvere il problema esattamente nel modo in cui l'abbiamo creato. Ricordiamo le parole di Einstein:

"Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo"

Infatti il problema non è il petrolio di per sé (o qualsiasi altra fonte energetica), bensì il fatto che ne abbiamo subordinato l'estrazione e l'utilizzo alle dinamiche economiche, le quali sviluppano un sistema e una logica che non dipende più dagli attori che vi partecipano, ma che li trascende (in un sistema il tutto è "maggiore" della somma delle parti).

Sebbene abbia generato una enorme "complessità" in termini di sviluppo scientifico e sociale, l'Economia è quella cosa che ci impedirà di giungere all'obiettivo di una "società solare" basata su energie rinnovabili (nel senso indicato per esempio da Ugo Bardi nel libro La Terra svuotata) - obiettivo che sarebbe degno di una specie umana compiuta.

In questi cinque articoli cercherò di mostrare che Economia non è una così bella parola e non può aiutarci nel viaggio verso un futuro sostenibile - un futuro che sembra drammaticamente vicino in realtà, perché come ci ricorda sempre Dennis Meadows:

"è tardi per lo sviluppo sostenibile, dobbiamo mettere più enfasi sulla resilienza del sistema" (fonte: articolo sopra citato)

La domanda che si pone è dunque a) se è possibile può fare la transizione energetica all'interno del sistema economico, e b) se non lo è, che soluzioni ci rimangono? Perché ci è così difficile pensare in termini diversi da quello che Serge Latouche chiamava "immaginario economico"?

Il cambio di paradigma che ci serve non riguarda il tipo di energia che dobbiamo utilizzare o quali tecnologie mettere in campo, bensì la necessità di uscire dalla "legge del valore". La nostra cultura erige lo scambio monetario a valore imprescindibile, ma questo è basato su di un meccanismo che lo porta ad una accumulazione senza via d'uscita (la ben nota "crescita"). Ovviamente, non si tratta di qualcosa di così semplice nè da comprendere nè da accettare, perché coinvolge l'intera cultura sopra la quale "prosperiamo".


Crescita e sistema monetario

"Dal 1820 al 2003 l'economia è cresciuta con un tasso medio del 2.25% l'anno" (fonte: David Korowicz, Trade-off. Financial System Supply-chain Cross Contagion - a Study in Global Systemic Collapse, www.davidkorowicz.com).

Lo scopo primario di un'economia oltre alla produzione di merci, lo sappiamo tutti, è ottenere denaro. Ora, non c'è crescita senza aumento di denaro. La produzione di merci è contrassegnata nel nostro sistema da un simbolo, la moneta, che utilizziamo per valutare (dar-valore) le merci. Siamo abituati a considerare in termini monetari quasi ogni attività che facciamo. Per questo il PIL (in inglese GDP) è considerato l'indicatore principale delle economie.

Ma al di là di questo vi sono questioni decisive connesse all'uso del denaro come mediatore delle attività economiche. Esser parte del sistema economico significa condividerne implicitamente alcuni assunti. Qualunque attività commerciale o azienda, pubblica o privata, per sussistere dovrà adeguarsi ad una regola fondamentale: il capitale finale deve essere più grande del capitale iniziale.

E' evidente: se dalla mia attività non ho ricavato un surplus, o sono in pareggio o sono in rosso, entrambi risultati negativi. L'unico risultato possibile in economia è il profitto. Ogni azienda, ogni attività che produce reddito ha questa esigenza. Tutti devono "crescere", ciò implica che: la quantità di denaro pro capite deve aumentare progressivamente




Anche una persona povera dovrà avere alla fine di più di quanto aveva all'inizio (in intervalli di tempo), altrimenti dovrà affidarsi ad altri o perirà. Il passo successivo è comprendere le implicazioni di questo meccanismo a livello macroeconomico, infatti: la quantità totale di denaro nel mondo deve aumentare progressivamente 

https://www.blia.it/debitopubblico/grafico2012.png

fonte:www.blia.it. A sinistra la percentuale debito/PIL in % visualizzata dalle colonne in blu. L'andamento del grafico illustra la serie storica per l'ITALIA dal 1861 al 2012.

Il grafico mostra la tendenza alla crescita, macroscopica soprattutto nella parte destra in corrispondenza della fine della Seconda guerra mondiale e del boom economico. Condizione della crescita oltre alla disponibilità di risorse naturali, è il "debito". Per far si che il denaro nel mondo possa aumentare continuamente vi deve essere un meccanismo che ne permette l'espansione. (Su questo Gail Tverberg: https://ourfiniteworld.com/2016/05/02/debt-the-key-factor-connecting-energy-and-the-economy/ la quale cita Kenneth Rogoff: http://voxeu.org/article/debt-supercycle-not-secular-stagnation ).

Come "produrre" denaro se tutti devono ottenere un aumento relativo del loro capitale? Ciò è possibile solamente tramite lo scambio del denaro stesso. Il denaro è debito di per se stesso! Come si vede dal grafico, vi è una netta correlazione fra la crescita della moneta e la crescita del debito. Ciò non è un effetto casuale prodotto dal sistema ma è il funzionamento stesso della moneta, in quanto è necessario che lo scambio di denaro-con-merce produca un surplus del denaro iniziale, altrimenti non si potrebbe creare alcuna "circolazione" e non vi sarebbe crescita.

Tale meccanismo è possibile grazie all'ammontare di una quantità di denaro "fantasma" - il debito appunto - che funge da "pompa" (leva finanziaria) per la crescita. Ebbene, i debiti non possono venire ripagati perché è il debito che fornisce al sistema la possibilità stessa dello scambio di denaro e dunque gli permette di crescere.

Scopriamo così che la struttura stessa della nostra economia si regge su di un meccanismo paradossale. In quanto fornitrici di credito, gli istituti bancari sono i principali strumenti di leveraggio della nostra economia (nonchè dello Stato, che così si trova in posizione scomoda di sudditanza). E' noto quale è stato il loro ruolo in numerose crisi finanziarie (fenomeni di "bank run"). Per ulteriori spiegazioni: Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi; anche Il denaro, il debito e la doppia crisi, oppure Chris Martenson, Crash course visibile su https://www.youtube.com/watch?v=Ec85sWSn7iQ&list=PLB048101DAAD68046&index=10
(continua)