lunedì 29 giugno 2015

Le ragioni nascoste dietro alla crescita economica lenta: EROI in declino, energia netta vincolata

Da “Resource Insights”. Traduzione di MR (via Post Carbon Institute)

Dovrebbe apparire ovvio che ci vuole energia per avere energia. E quando ci vuole più energia per avere l'energia che vogliamo, di solito questo implica prezzi più alti dal momento che l'energia usata in ingresso costa di più. In tali circostanze rimane meno energia da usare per il resto della società, cioè, per le parti che non raccolgono energia – i consumi industriali, commerciali e residenziali di energia – di come sarebbe in caso contrario. Non dovrebbe sorprendere quindi che mentre i combustibili fossili, che forniscono più del 80% dell'energia usata dalla società moderna, diventino più energeticamente impegnativi da estrarre e raffinare; c'è una resistenza crescente all'attività economica man mano che sempre più risorse dell'economia vengono dedicate semplicemente ad ottenere l'energia che vogliamo. Un modo più formale di parlare di questo è l'EROI (o EROEI – Energy Returno on Energy Investment). Il “ritorno energetico” è l'energia che otteniamo da un particolare “investimento” di una unità di energia. Più è alto l'EROI di una fonte energetica, più economica questa sarà sia in termini energetici sia finanziari – e più sarà l'energia che resta ad uso del resto della società. Ma abbiamo assistito ad un declino permanente dell'EROI del petrolio e del gas naturale degli Stati Uniti nell'ultimo secolo, una tendenza che è probabile che si rifletta anche altrove nel mondo. Ecco un riassunto dall'abstract di uno studio del 2011:

venerdì 26 giugno 2015

La senilità delle élite: l'estrazione di carbone deve continuare, a prescindere dai costi umani

DaResource Crisis” e “Chimeras”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




La miniera di carbone di Bihar, India. Foto: Nitin Kirloskar 


Questo post è stato ispirato da un recente articolo sull'estrazione di carbone in India di David Rose su The Guardian. In India la gente sta morendo per strada a causa del calore eccessivo causato dal riscaldamento globale, ma Rose ci informa che “... per un'ampia gamma di politici di Dehli c'è unanimità. Semplicemente non c'è, dicono, la possibilità che in questa fase del suo sviluppo l'India acconsenta a qualsiasi forma di limitazione delle emissioni e di tagli nemmeno a parlarne.” In altre parole, l'estrazione di carbone deve continuare in nome della crescita economica, a prescindere dai costi umani.

Penso che sia difficile vedere un esempio più evidente della senilità delle élite mondiali. Sfortunatamente non si tratta di una cosa che riguarda solo l'India. Le élite di tutto il mondo sembrano quasi completamente cieche rispetto alla situazione disperata in cui ci troviamo tutti.

Su questo argomento ho scritto un post sul blog “Chimeras” (che segue) che descrive come la cecità delle élite non è solo tipica dei nostri tempi, ma era la stessa al tempo dell'Impero Romano: E' una discussione su come un membro della élite Romana, Rutilio Namaziano, avesse completamente frainteso la situazione degli ultimi anni dell'Impero. E la nostra caratteristica di esseri umani quella di non capire il collasso, nemmeno quando lo viviamo.

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Del suo ritorno: un patrizio Romano ci racconta come ha vissuto il collasso dell'impero. 



Il V secolo ha ha visto gli ultimi sussulti dell'Impero Romano d'Occidente. Di quei tempi difficili abbiamo solo pochi documenti ed immagini. Sopra, potete vedere uno dei pochi ritratti sopravvissuti di qualcuno che è vissuto a quel tempo: l'Imperatore Onorio, capo di ciò che restava dell'Impero Romano d'Occidente dal 395 al 423. La sua espressione sembra essere di sorpresa, come se avesse cominciato a vedere i disastri che avevano luogo durante il suo regno. 

Ad un certo punto durante i primi decenni del V secolo DC, probabilmente nel 416, Rutilio Namaziano, un patrizio Romano, ha lasciato Roma – a quel punto l'ombra della gloriosa Roma di prima – per rifugiarsi nei suoi possedimenti nel sud della Francia. Ci ha lasciato una relazione del suo viaggio intitolata “De Reditu suo”, che significa “del suo ritorno”, che possiamo leggere ancora oggi, quasi completo.

giovedì 25 giugno 2015

Il discorso di Matteo Renzi: un monito forte sulla necessità di agire contro il cambiamento climatico...... o forse no?


Tradotto e adattato da "Resource Crisis"


Qualche giorno fa, Matteo Renzi  è intervenuto in un incontro dedicato alla situazione del clima. Il suo discorso in questa occasione potrebbe essere preso come un invito ad agire contro il cambiamento climatico ma, in realtà, è un buon esempio di come un astuto politico riesce sempre a dire tante cose, senza però dire niente. E' uno stile di politica che non è tipico soltanto della situazione italiana, ma ormai universale.

Così, mi sono preso la libertà di riprendere le frasi principali del discorso di Renzi, come riportate da "La Repubblica" e espanderle con il loro vero significato (Grassetto: le parole di Renzi)



"Io non credo alla cultura della negatività e del pessimismo: sono ottimista, ma occorre assumersi della responsabilità e il tempo delle scelte è oggi" - Comincio con una bella banalità, ma non pensate che sia la sola!

"...Dire che per noi il clima è una priorità, è restituire un senso di identità al nostro paese" Il che è, ovviamente, un'altra bella banalità, ma ha uno scopo. Notate che ho detto "una" priorità e non ho detto quali sono le altre priorità. Così, come vi potete immaginare, ci saranno sempre delle priorità più prioritarie del clima (e ora vi dirò quali sono).

"Oggi, il nostro nemico è il carbone", e questo lo posso dire dato che in Italia non usiamo molto carbone; così posso prenderlo come lo spauracchio del momento senza offendere le lobby dei combustibili fossili che mi finanziano. Inoltre, mi da la scusa di dire che altri combustibili fossili sono puliti in confronto.


"Fra 40-50 anni avremo bisogno di andare ben oltre la lotta a questo combustibile" Notate che sto dicendo che tutta la lotta al cambiamento climatico si riduce alla lotta a un combustibile che in in Italia praticamente non si usa - non è una bella cosa?  Questo vuol dire che non c'è bisogno di fare niente contro il cambiamento climatico per i prossimi 40-50 anni. E questo la dice lunga su come la penso in proposito.

"Dobbiamo essere capaci di dire le cose come stanno, cioè che le rinnovabili da sole non bastano"  La solennità con la quale dico questa cosa banale non vuol dire che capisco qualcosa di energia rinnovabile. Vuol dire solo che rappresento un'altra lobby. 

"Da qui a domani mattina non finiscono né il petrolio né il gas" E questa è un'altra bella banalità ma è per farvi capire esplicitamente, nel caso siate veramente molto tonti, quali sono le mie priorità. Non siete contenti?





lunedì 22 giugno 2015

La geopolitica dei gasdotti: Nord Stream



Image credit



Guest post di Tatiana Yugay


Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha cercato di ridurre il transito di gas sul territorio ucraino. Per la Russia, l’Ucraina non è piu un partner energetico affidabile; le crisi del gas tra i due paesi nel 2006 e nel 2009 hanno rafforzato questa percezione.

La  Russia prevedeva di costruire due gasdotti per bypassare i paesi di transito pericolosi per la sicurezza della fornitura di gas. Uno di questi era il cosidetto "Nord Stream" e l'altro "South Stream". La costruzione dei gasdotti gemelli dovrebbe alleviare l'Europa dalla dipendenza pericolosa del transito del gas russo attraverso l'Ucraina, che aveva due volte bloccato la consegna dell'Unione europea.

Prima , "Gazprom" ha iniziato il progetto per costruire un gasdotto che collega direttamente la Russia e la Germania sotto il Mar Baltico.



Picture credit: http://rus.telegram.ee/wp-content/uploads/2013/07/nord-stream1.jpg

Il percorso è stato definito attraverso le zone economiche esclusive di cinque paesi — la Germania e la Russia, così come la Finlandia, la Svezia e la Danimarca. Nonostante le critiche dei paesi scandinavi e la forte resistenza di Polonia e Ucraina, tutti i documenti e permessi necessari erano stati finalmente ottenuti.

Ciononostante, la Polonia, la Bielorussia e i paesi baltici hanno lanciato una campagna rumorosa contro la pipeline. Nel 2006, il Ministro della Difesa  polacco Radek Sikorski ha chiamato il Gasdotto nordeuropeo il " Nuovo Patto Molotov-Ribbentrop", cosa che ha suscitato l'indignazione della Russia e della Germania. La Polonia insisteva sul fatto che la costruzione di un gasdotto terrestre attraverso il suo territorio, sarà più economica e non permetterà l'aumento della quota del gas russo in importazioni di gas totali in Europa. Quando  il governo polacco non era riuscito a portate la pipeline in Polonia, voleva cancellare il progetto, insistendo sul suoi diritti alle acque territoriali a sud dell'isola Bornholm, per questo in seguito era stato scelto il giro dell'isola da nord.

Il 9 Novembre 2009 il “Wall Sreet Journal” pubblicava un articolo intitolato  “The Molotov-Ribbentrop Pipeline". Alexandros Petersen, il direttore associato del Energy Center Eurasia presso il Consiglio Atlantico, scriveva che “Il messaggio geopolitico della Russia è chiaro: Essa non si fida dei nuovi Stati membri dell'Ue, come i paesi di transito o anche come i consumatori di energia ed è disposto a sostenere i costi enormi per aggirarli. L'altro messaggio o l'implicita minaccia è che il Nord Stream permetterà il Cremlino di tagliare le forniture di gas verso l'Europa orientale attraverso le condutture attuali senza ridurre le forniture di energia in Germania”

Anche Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste erano state contro il progetto: a loro parere, la costruzione del gasdotto disturberebbe le armi chimiche nel fondo del Mar Baltico e le mine navali, e potrebbe portare a un disastro ambientale. I rappresentanti di Nord Stream hanno sostenuto che la costruzione del gasdotto terrà conto delle norme ambientali più severe, e il percorso del gasdotto non influenzerà i siti dove erano scaricati i munizioni.

Alla fine, il consorzio Nord Stream è riuscito a dimostrare che la costruzione del gasdotto non causerà danni significativi per l'ecosistema del Mar Baltico.
Un esperto di sviluppo regionale nel'ex Unione Sovietica, Sergey Artemenko, ha detto già nel 2008: «E 'chiaro che con la sua posizione di transito, l'Ucraina sta cercando di creare un banale ricatto. Nel caso della costruzione del gasdotto onshore dalla Russia alla Germania attraverso i paesi di transito, come richiedono Estonia, Lituania, Lettonia e Polonia - ci saranno altri ricattatori. "

Ogni  paese cercherà di ottenere i prezzi più favorevoli di gas a seconda di dove transita. Tutti i discorsi circa la convenienza di un gasdotto terrestre possono risultare sbagliati e il gasdotto può eventualmente generare perdite, sia per la Russia e per i consumatori europei di gas, perché sara necessario di soddisfare primo di tutto gli appetiti per gas dei paesi di transito, e solo dopo di loro dei consumatori finali.

“Con questo gasdotto proveniente dalla Russia" spiega Marzio Galeotti, economista dell’Università di Milano "si raggiunge l’obiettivo di bypassare tutta una serie di Paesi, e in particolare la Polonia, ai quali innanzitutto sarebbero dovuti dei diritti di transito. Inoltre si neutralizza qualsiasi pretesa di veto o ancora peggio di blocco delle forniture, come accadde qualche anno fa con l’Ucraina per un altro gasdotto”.

Nonostante la forte resistenza dei paesi di transito e non-transito, Gazprom ha iniziato la realizzione del progetto. Il progetto è partito nel 1997 quando Gazprom e Neste, compagnia petrolifera finlandese, hanno creato il North Transgas Oy per la costruzione del gasdotto dalla Russia alla Germania del Nord attraverso il Mar Baltico. In  seguito, gli  azionisti del Nord Stream AG erano stati il Gazprom (51%), Ruhrgas (15,5%), Wintershall (15,5%), N.V. Nederlandse Gasunie (9%) e Gaz de France-Suez (9%).

Il Nord Stream ha goduto fin dal 2000 dello status di progetto prioritario europeo nel quadro delle Reti Trans-Europee dell'Energia (TEN-E dall'acronimo inglese), cioè è fra i progetti che l'Unione europea ritiene di fondamentale importanza per la sicurezza dell'approvvigionamento e il completamento del mercato interno.

La posa della prima conduttura era terminata il 4 maggio 2011, mentre i lavori sotto il livello del mare sono terminati il mese dopo. Il 6 settembre 2011 veniva immesso il gas per la prima volta nella prima conduttura. Il condotto veniva ufficialmente inaugurato dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, dal Presidente russo Dmitry Medvedev e dal Primo Ministro francese François Fillon l'8 novembre 2011 a Lubmin. La costruzione della seconda linea termina nell'agosto 2012 con inaugurazione l'8 ottobre.

Un ruolo fondamentale nel successo del progetto ha svolto l'alleanza personale del presidente russo Vladimir Putin e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. Nell'aprile 2005, aveva avuto luogo un incontro del presidente russo Vladimir Putin e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. Le parti hanno concordato la costituzione di società russo-tedesca, che avrà una quota di "Gazprom", l'azienda chimica tedesca BASF e società del gas E.ON Ruhrgas AG - una controllata di E.ON e il più grande azionista straniero di "Gazprom". L'accordo finale sul gasdotto è stato firmato da Putin e Schroeder nel settembre 2005. Dopo la sua dimissione dalla carica di Cancelliere della Germania nel 2006, Gerhard Schroeder ha servito come presidente del comitato degli azionisti della società.



Picture credit: http://m.cdn.blog.hu/fo/fotelkalandor/image/krimi/ns_link_i.jpg

Secondo  Günther Oettinger, l'ex commissario europeo per l'energia dell'Ue, "Nord Stream è da tempo diventata un'infrastruttura europe. Il Nord Stream è stato accettato oggi". Tuttavia, la storia non era finita con il completamento del secondo ramo del gasdotto nel 2011. In precedenza, Nord Stream AG aveva l'intenzione di costruire due rotte in più per passare attraverso il Mar Baltico - arrivando nel Regno Unito e nei Paesi Bassi. Alla fine di ottobre 2014, l'Ue ha deciso di non estendere la sezione del gasdotto in Gran Bretagna nonostante il fatto che, secondo gli esperti, a causa della riduzione della produzione di gas nel Mare del Nord nel 2020, il paese dovrà ottenere il 70% del suo fabbisogno nel "combustibile blu" dalle importazioni. Un mese dopo, alla fine di gennaio 2015, anche il Gazprom ha abbandonato i piani per espandere Nord Stream al Regno Unito.

Aggiornamento:

Gazprom ha annunciato i piani per costruire due linee di un nuovo gasdotto con una capacità di 55 miliardi di metri cubi all'anno. Ciò potrebbe raddoppiare le forniture dirette di gas russo verso l'Europa. Il nuovo gasdotto avrà un percorso simile a Nord Stream. Il 18 giugno Gazprom, Shell, E.On e OMV hanno firmato un memorandum di intenti per creare le infrastrutture di trasporto del gas per garantire forniture dirette di gas della Russia per i consumatori europei.

Previous post:
La geopolitica dei gasdotti: Come la geopolitica entra nel gioco economico


venerdì 19 giugno 2015

La crisi Ucraina: se Atene piange, Sparta non ride.

di Jacopo Simonetta.

La guerra in Ucraina sta avendo effetti politici importanti e, sotto molti aspetti, sorprendenti.   Le analisi ed i pareri sono però molto più numerosi delle informazioni che, per la gente comune, rimangono confinate al campo delle opposte propagande.

Farsi un’idea realistica di cosa sia successo e di cosa stia accadendo è dunque quasi impossibile, così come immaginare i possibili sviluppi. Tuttavia, un aspetto importante di questo vasto corpo di letteratura, più o meno seria, sull'argomento è che si concentra sulle ragioni, reali o presunte, delle parti in conflitto.   Ma in guerra non vince chi ha ragione, bensì chi commette meno errori ed ho la sensazione che tutti ne stiano compiendo di catastrofici.

Apparentemente, nessuno tiene infatti in considerazione lo sgradevole fatto che l’umanità intera, e dunque tutti i paesi coinvolti nel conflitto, hanno iniziato la fase di impatto contro i Limiti della Crescita.    Ad esempio, senza essere un esperto di geopolitica, trovo assurdo parlare di una possibile nuova Guerra Fredda, senza tener conto di fatti come il picco petrolifero.

Dunque, anziché sostenere le ragioni di questo o quel contendente, vorrei qui tentare di avviare una discussione circa la situazione a partire dai tre punti seguenti:

1 – Il sistema socio-economico globale è entrato in una crisi irreversibile che porterà al collasso della civiltà industriale e ad un brutale ridimensionamento della popolazione umana mondiale.   Probabilmente la fase acuta del collasso comincerà fra 10-20 anni al massimo, ma non colpirà tutti i paesi allo stesso modo e nello stesso momento.  Un conflitto di ampia portata accelererebbe necessariamente il processo, non solo per il numero di morti nei bombardamenti, ma soprattutto per la distruzione di risorse ed infrastrutture che ben difficilmente potrebbero essere riparate o ricostruite.    In altre parole, i conflitti attuali e futuri in un modo o nell'altro finiranno, ma la ricostruzione sarà impossibile o molto parziale tanto per i vinti che per i vincitori.

2 – L’economia attuale è totalmente interconnessa.    Abbiamo visto come una crisi partita dagli stati Uniti abbia travolto l’Europa e quindi  la Russia , poi il Brasile e quindi il resto del mondo, fino a raggiungere la Cina.   Questo significa che il collasso di uno degli attori principali, trascinerebbe seco anche tutti gli altri.   Una situazione completamente opposta a quella che si verificava durante la guerra fredda.

3 – I metodi di guerra attualmente utilizzati dalle potenze di primo e secondo livello (quelli che possono usare aviazione, artiglieria e mezzi corazzati) sono quanto di più dissipativo sia mai uscito dalle officine umane.   Il loro impiego comporta  una distruzione di risorse, capitale reale ed informazione spropositatamente alto rispetto alla distruzione di persone.    Questo significa che, terminato il conflitto, la popolazione superstite si troverà in condizioni ancora peggiori di quelle che avevano scatenato la violenza.    Con l’alternativa di continuare a combattere con mezzi progressivamente più semplici, o attendere che la miseria ristabilisca l’equilibrio fra popolazione e risorse.

Dunque, precisando che le notizie di base di cui dispongo sono solo quelle inaffidabili dei media, vorrei pormi una prima domanda:   ad oggi che il fronte sembra nuovamente infiammarsi, chi ha perso?   Direi quasi tutti, ma non nella stessa misura.

Più di tutti, mi pare che abbiamo perso gli abitanti del Donbass.   Indipendentemente da come andrà a finire, si troveranno a vivere in una territorio devastato, con un’infrastruttura civile ed industriale a pezzi che nessuno avrà i mezzi, né l’interesse a ricostruire.   Sia la Russia che l’Ucraina hanno un’infinità di aree industriali più o meno diroccate in cui investire (se potessero); difficilmente lo faranno per delle zone che presumibilmente rimarranno vicine ad un confine conteso.    L’entità del danno si può arguire dall'importanza dell’esodo.   Per ora, dalla regione pare siano fuggite circa un milione di persone di cui circa un terzo verso ovest e due terzi verso est.   Dove siano finiti i primi non è dato sapere, ma ai secondi il governo russo offre la scelta fra Il Chukotka [territorio artico dello Stretto di Bering] o il Kamchatka, dove l’accoglienza è stata finora ben organizzata.   Ma aumentando il flusso di profughi, qui come altrove, l’atteggiamento dei residenti sta virando dalla solidarietà all'ostilità.

Poi, in ordine, direi che comunque ha perso l’Ucraina.   Ha perduto due delle sue regioni economicamente più importanti ed è quanto meno molto improbabile che le recuperi.    E se anche le recuperasse, sarebbero oramai un peso e non un aiuto.   Inoltre, la sua economia, già in bancarotta, sarà ancora per molto tempo schiacciata da spese militari che, comunque, non potranno mai permetterle di competere con il potente vicino.   Ancora peggio, il prevedibile peggioramento delle situazione economica e le sconfitte sul campo rischiano di portare al potere i partiti ultra-nazionalisti di ispirazione neo-nazista che, per il momento, fanno gran figura sulla stampa internazionale, ma rimangono elettoralmente marginali.

Al terzo posto, direi che viene la Russia, la cui situazione necessita di qualche parola in più.  Le vittorie sul campo consolidano infatti il suo governo, ma ne aumentano l’isolamento internazionale, a tutto vantaggio delle fazioni più nazionaliste.   Cosa che riduce i suoi spazi di manovra a livello politico e pregiudica i rapporti sia con gli stati satelliti, sia con le repubbliche a maggioranza non  russa attualmente comprese nella federazione.    Anche se ricorrono alla medesima retorica, vedo infatti una grande differenza fra il patriottismo sovietico (assolutamente transazionale e basato sull'adesione ad un comune credo politico) ed il nazionalismo russo attuale(basato soprattutto sulla comunanza linguistica e religiosa).     Sostenere che “la Russia è dove ci sono dei  russi” è un approccio estremamente pericoloso.   Inoltre, l’aver  sottratto all'Ucraina le due regioni più densamente popolate da russi (in parte già possessori di doppia cittadinanza) preclude definitivamente la possibilità che a Kiev torni  un governo filo-russo.

Sul piano economico,  il calo del prezzo del petrolio ha dato un colpo formidabile alla già traballante economia russa, la cui fase di recupero era già terminata da tempo.     Se il ribasso dei prezzi dovesse durare a lungo, o ripresentarsi con una certa frequenza, gli effetti sarebbero devastanti, favorendo per altra via i partiti estremisti, a danno dei rapporti con gli stati satelliti ed i compatrioti non russi.
Al momento, l’isolamento internazionale sta spingendo la Russia a cercare l’appoggio cinese.   Al di la dei toni della propaganda,  per il momento Pechino sostiene Mosca nella misura in cui questo infastidisce gli americani e permette a loro di ottenere contratti particolarmente vantaggiosi.   Non sarà mai la Cina a sostenere i diritti di una provincia ribelle.    Tuttavia, perdurando la situazione, il quadro potrebbe cambiare ed, effettivamente, spingere Mosca ad un sodalizio strutturale con Pechino, ma non credo che sarebbe una buona cosa per i russi.    Da quando la spinta colonizzatrice russa si esaurì nella carneficina della guerra russo-giapponese, i rapporti fra i due giganti sono sempre stati  complessi ed evitare un massiccio ritorno di popolazione cinese nell’estremo oriente russo è sempre stata  una preoccupazione per Mosca.    Una partita probabilmente già persa.   Attualmente, le stime dei residenti cinesi in Russia variano fra 200.000 e 3.000.000 il che, di per se, la dice lunga sul livello di controllo che le autorità russe riescono ad avere.

L’unica cosa sicura è che si tratta di una cifra in aumento, mentre i rapporti commerciali transfrontalieri  sono diventati anche più intensi di quelli con il remoto ovest del paese.    Una combinazione a mio avviso molto pericolosa, dal momento che un mix di penetrazione commerciale ed insediamento di consistenti comunità Han è esattamente la strategia con cui Pachino sta portando avanti la colonizzazione dei suoi satelliti.    Finora, i robusti rapporti politici e commerciali con l’EU avevano dato a Mosca una sponda per contrastare il fenomeno, ma d’ora in poi?

Un altro aspetto importante è che, per sviluppare con la Cina rapporti commerciali tali da sostituire quelli attualmente in atto con l’Europa, sarebbe necessario costruire da zero una rete di migliaia di chilometri di strade, oleodotti e gasdotti, con tutte le infrastrutture annesse e connesse.   Uno sforzo titanico che non è affatto detto che in un futuro dominato dai ritorni decrescenti sempre più sfavorevoli sia possibile.   Inoltre, questo genere di infrastrutture sono particolarmente vulnerabili sia ad attacchi militari che terroristici, oltre che al vicende climatiche quali lo scioglimento del permafrost e gli incendi che, sempre di più, stanno cambiando la geografia della Siberia.

Infine, credo che occorra tenere presente che la Russia, fra alterne vicende, è una potenza in declino, come l’Europa.   La Cina è viceversa l’unica potenza emergente a livello mondiale, alla disperata ricerca di spazi geografici, politici e commerciali per espandersi, pena declinare rapidamente a sua volta.   I rapporti fra i due non possono essere simmetrici.

Al quarto posto fra i perdenti viene l’Europa nel suo complesso, ma forse meriterebbe un terzo posto ex-equo con la Russia.   Il gelo dei rapporti con Mosca ha infatti conseguenze economiche negative importanti, ma ancor peggio di ciò, sta favorendo l’emergere di un insolito sodalizio tra formazioni di estrema destra e di estrema sinistra, accomunate dall'odio per l’Europa e dall'amore per una Russia variamente idealizzata.


La cosa non sarebbe preoccupante, se non si intrecciasse strettamente con la politica attualmente perseguita dai principali governi europei.   Politica tendente a ridurre le istituzioni europee a dei semplici passa-carte delle decisioni dei governi  delle nazioni principali, oltre che comodo capro espiatorio cui accollare responsabilità che, perlopiù , sono dei governi nazionali stessi.     In pratica, la vicenda Ucraina si inserisce in un contesto  in cui i partiti europei di maggioranza stanno attaccando la costruzione europea, senza volerla però distruggere del tutto.  Mentre molte opposizioni vogliono decisamente liberarsene e nessuno pare più trovare valore alcuno nella più innovativa iniziativa politica del XX secolo.    In questo quadro,  la fiammata di popolarità di cui Putin sta godendo  sia fra la destra che fra la sinistra europee potrebbe avere conseguenze molto gravi per tutti noi.

Fra i parziali vincitori, per ora, penso che si possano annoverare gli USA, la cui presa sul vecchio continente risulta rafforzata e, soprattutto,  la Cina.   Come ho accennato, per il momento questa sta facendo ottimi affari, ma in una prospettiva di medio periodo ha buone possibilità di satellitizzare lo storico avversario.   Una prospettiva estremamente preoccupante, considerando che una Cina capace di accedere liberamente alle residue risorse russe ed in grado di utilizzare il suo tuttora immenso potenziale militare diventerebbe un avversario potenzialmente in grado di imporre la sua egemonia a buona parte del pianeta.

Fin qui lo stato delle cose, ma quali le prospettive?   Molti vagheggiano un ritorno alla Guerra Fredda che, a quanto pare, ha molti nostalgici su entrambi i fronti della barricata.   Ma i tempi sono cambiati e con essi le prospettive.    Per capire quanto, suggerisco di considerare che, piaccia o non piaccia, il peso geo-politico di un paese è molto approssimativamente correlato con il suo potenziale industriale-militare.   Quindi, sempre molto approssimativamente, con la quantità di energia che riesce ad utilizzare e dissipare.    (I grafici sono estratti da un post di Paul Chefurka, il quale, a sua volta, li ha ricavati dai dati pubblicati dalla BP.   Il dato relativo alla Russia nel 1970 manca nell'originale e lo ho estrapolato molto indicativamente dai dati relativi alla Russia del 1990, data alla quale la produzione industriale russa era circa la metà di quella sovietica di 20 anni prima.)  

Dunque si può molto sommariamente arguire che nel 1970 la dissipazione di energia in USSR fosse poco superiore  a quella EU.   Circa la metà della somma USA+EU, ma con un potenziale militare pari (o forse superiore) per la molto maggiore percentuale di risorse che i sovietici devolvevano alle forze armate.   In ogni caso, la Cina era un nanerottolo termodinamico, di taglia addirittura inferiore a quella del Giappone e della sola Germania.


Si voglia confrontare la situazione nel 2013.


Il nanerottolo oggi è la Russia, mentre USA ed EU sono entrambe state surclassate dalla Cina, che non nasconde più le sue ambizioni imperiali su buona parte dell’Asia e dell’Africa.    Si noti anche che nel 1970 la maggior parte dei “magnifici 7” erano europei, mentre oggi sono asiatici e che il cosiddetto club dei “BRICS” è composto da una super potenza (la Cina) e da quattro "mezze cartucce” che, tutti insieme, non arrivano alla metà del “dragone”.    È ovvio che un eventuale sodalizio fra loro sarebbe, di fatto, il riconoscimento di un’egemonia cinese sugli altri stati, analogamente a quanto è avvenuto fra gli USA ed gli altri paesi occidentali.

Tornando ad un’ipotetica guerra fredda 2, potrebbe accadere se il mondo tornasse a dividersi in due blocchi di potenza industriale e militare circa equivalenti, cosicché nessuno dei due osi attaccare l’altro direttamente.   Allo stato attuale delle cose sembrerebbe possibile solamente se le due parti fossero USA +EU da un lato e Cina dall'altro.   Un “grande gioco” in cui  La Russia avrebbe delle buone opportunità facendo del cerchiobottismo fra i due schieramenti.   Per quanto industrialmente drasticamente ridimensionata, la Russia è infatti ancora una potenza militare di primo piano e dispone di risorse rilevanti.   Entrambi gli ipotetici schieramenti avrebbero quindi interesse a coltivarne l’”amicizia”.    Viceversa, se la scelta fosse  quella di attaccarsi stabilmente al carretto cinese, credo che la Russia finirebbe con il diventare, in buona sostanza, una colonia di Pechino.    Una specie di contrappasso storico, a 100 anni circa di distanza.

Ma non credo che questo sia uno scenario realistico, perlomeno non nell'immediato futuro.   Semplicemente perché la reciproca dipendenza economica tra tutte le parti in causa è troppo elevata affinché uno dei giocatori si possa permettere di buttare all'aria le carte.   Insomma, fra i tanti svantaggi della globalizzazione, ci sarebbe anche un vantaggio importante: il fatto di rendere praticamente impossibile una guerra mondiale.

Questo finché rimane in piedi il "Business As Usual".    Nonappena le curve dell’economia e della disponibilità energetica globali saranno abbassate in misura sufficiente, il sistema comincerà a disgregarsi, presumibilmente a partire dei livelli di complessità maggiori, per riorganizzarsi in sistemi  progressivamente più piccoli e meno dissipativi.

Il livello maggiore in assoluto è ovviamente quello globale, che già mostra segni evidenti di senescenza.    Subito dopo vengono i mega-stati o meta-stati: USA, Russia, EU, India e Cina.   Di questi, la Russia ha già subito un primo round di disgregazione e sembra quasi matura per un secondo.   India, Europa ed USA si contendono il posto di prossimo candidato ad un analogo destino, forse anche prima della Russia.   Anche la Cina non è poi quel monolite assoluto che cerca di sembrare, ma non c’è dubbio che la triade partito-esercito-polizia abbia per ora la situazione in pugno.   Finché questa triade non vacillerà, la Cina non si sfascerà.   Sembra quindi che un periodo di egemonia cinese su buona parte del mondo sia oramai ineluttabile.   Salvo che gli ci vorrebbero almeno altri 20 anni per arrivarci e probabilmente non ce li ha.    Personalmente, vedo infatti due grossi ostacoli verso l’affermazione di un “Impero Giallo Mondiale”.

Il primo è che in un mondo in cui la crescita economica è oramai da tempo un gioco a somma negativa, la crescita della Cina può avvenire solamente a spese degli altri paesi del mondo, soprattutto di USA e UE  (esattamente come è avvenuto nei 20 anni scorsi).   Ma abbiamo visto che il deterioramento delle economie occidentali danneggia anche quella cinese.   Dunque se la Cina vince troppo, rischia di andare a rotoli.

La seconda è che, se davvero l’evoluzione del sistema globale procederà come previsto, il collasso avverrà prima che la Cina abbia potuto consolidare il suo impero.   O , perlomeno, questo sarà di assai breve durata.
L’aspetto negativo è che, collassando il sistema globale, tutti i giocatori si troveranno ridimensionati, ma anche meno interdipendenti.  Di conseguenza, le probabilità di un conflitto ad elevata intensità aumenteranno considerevolmente.  Anche perché attaccare i paesi vicini potrebbe diventare la disperata alternativa allo scoppio di guerre civili.   In parecchi paesi, fra cui Russia ed USA, si direbbe che siamo già vicini a questo limite.

Dunque, per tornare al conflitto ucraino, se tutti i diretti interessati hanno già perso, ancor più sarà quello che perderanno se, come pare che vogliano fare, continueranno sulla strada attuale.   Trovare un ragionevole compromesso e saldare una coalizione anti-cinese  sarebbe, a mio avviso, l’unica ipotesi ragionevole tanto per la Russia, quanto per EU ed USA.   Questo non impedirebbe la loro disintegrazione, ma potrebbe permettergli di guadagnare tempo e di limitare i danni.

Ma non mi pare che sia questo l’orientamento in nessuna delle capitali coinvolte.


lunedì 15 giugno 2015

Il futuro della razza umana: estinzione o alveare umano?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Questo post è il risultato di una discussione iniziata da RE di Doomstead diner 



“L'alveare di Hellstrom”, scritto da Frank Herbert nel 1973, è una delle poche disamine solide di come una società umana “eusociale” potrebbe  essere modellata sulla base dello stile di vita degli insetti sociali, come le api e le formiche. Potrebbe essere questo che il futuro remoto ha in serbo per la razza umana? E' impossibile dirlo ma io, per quanto mi riguarda, do il benvenuto ai nostri nuovi signori dell'alveare. 


Non ho dubbi sul fatto che siamo diretti a tutta velocità verso un grande collasso dell'ecosistema. Stiamo distruggendo il clima e la biosfera, avvelenando i mari, disperdendo metalli pesanti ovunque, creando isotopi radioattivi che non sono mai esistiti nei 4 miliardi di anni della storia della terra. Qualsiasi cosa accadrà, non sarà una bel vedere per coloro che saranno vivi per vederla.

Ma il collasso in arrivo significa la fine della specie umana? Questo non può essere escluso e il concetto di “Estinzione a Breve Termine” (Near Term Extinction -NTE) è persino diventato piuttosto popolare oggigiorno (*). Ma il problema rispetto all'estinzione umana non è quanto sia probabile. Il problema è che è noiosa. Ci estinguiamo ed è tutto, fine della storia. Potremmo persino distruggere l'ecosistema così gravemente da sterilizzare l'intero pianeta, facendo morire tutto il resto con noi. Ancora più noioso, non credete?

Eppure, il futuro rimane un soggetto affascinante e il futuro remoto (o “profondo”) è quello più affascinante. Supponiamo quindi che non muoiano tutti nel grande collasso; quale futuro è in serbo per l'Homo Sapiens? (**).

Come prima ipotesi, il grande collasso potrebbe non essere così grande, dopotutto. Potrebbe essere soltanto un sobbalzo nel cammino verso il futuro, più o meno come è stato il medioevo per l'Europa. Quindi gli esseri umani potrebbero riemergere nel dopo-collasso ancora come qualche miliardo di persone e avendo ancora gran parte delle tecnologie che abbiamo oggi. Potrebbero avere energia dalle rinnovabili a sufficienza per andare avanti sotto forma di società industriale. Ma ciò implicherebbe una capacità di pianificazione a lungo termine che non pare che abbiamo.

Più probabilmente, gli esseri umani riemergerebbero dalla grande transizione come pochi, poveri e malconci. Si ritroverebbero bloccati su un pianeta gravemente esaurito in quanto ad energia e risorse minerali rispetto a quelle che avevano prima del collasso. Cosa potrebbe accadere loro, quindi?

Molto dipende da quale sarà il clima del dopo-collasso. Dopo il grande “impulso” di riscaldamento generato dalla combustione di combustibili fossili, la Terra rimarrà molto calda per un lungo periodo – perlomeno per qualche migliaio di anni. Gradualmente, si raffredderà ma mano che il biossido di carbonio atmosferico creato dalla rivoluzione industriale verrà riassorbito – molto gradualmente – nella crosta terrestre. Potrebbero anche volerci centinaia di migliaia di anni per tornare alla concentrazione di CO2 preindustriali. Solo a quel punto potremmo avere le condizioni climatiche che erano tipiche di una Terra imperturbata dalle attività umane; forse con un ritorno alla serie di ere glaciali del “Pleistocene”, che erano state la regola per circa 2,5 milioni di anni.

Quindi possiamo dire che i nostri discendenti del dopo-collasso (se ce ne saranno) vivranno in un clima caldo, probabilmente estremamente caldo. Ma la Terra è grande, quindi sarebbe possibile che trovino delle aree sufficientemente fresche in cui potrebbero sopravvivere, forse nell'estremo nord o persino in Antartide. Nel complesso, possiamo aspettarci che, dopo il grande collasso l'umanità potrebbe affrontare diverse decine di migliaia di anni di condizioni in cui si può sopravvivere, forse anche qualche centinaio di migliaia di anni.

Possono succedere molte cose in diverse decine di migliaia di anni, ma possiamo essere ragionevolmente certi di una: gli esseri umani non vedranno un'altra rivoluzione industriale. I combustibili fossili saranno un ricordo e ci vorranno milioni di anni, come minimo, perché l'ecosistema li ricrei. Il mondo del dopo-collasso sarà quindi gravemente esaurito in quanto a risorse minerali. I nostri discendenti non avranno miniere, anche se potranno recuperare ciò che i loro predecessori hanno lasciato fra le rovine delle loro città. Avranno moltissimo ferro proveniente dagli scheletri dei vecchi ponti ed edifici, forse potranno mettere le mani su qualche antico caveau pieno di lingotti d'oro. Il loro limite sarà il carbone vegetale che servirà loro per lavorare il metallo che recuperano. Per loro, i metalli saranno sempre rari e costosi.

Possiamo quindi immaginare che gli esseri umani futuri dovranno stabilire stili di vita semplici. Forse dovranno tornare ad essere cacciatori-raccoglitori, ma potrebbero anche essere in grado di coltivare la terra, anche se non possiamo essere certi che il clima futuro sarà sufficientemente stabile per farlo. Qualsiasi cosa accadrà sarà un mondo a bassa tecnologia. Non sembra un futuro molto stimolante. La caccia-raccolta da parte degli ominidi è andata avanti per milioni di anni, sempre più o meno uguale, E le società agricole sono statiche, gerarchiche, oppressive e sono sempre state descritte come “contadini governati da briganti” (attribuito ad Alfred Duggan). E' questo che dobbiamo aspettarci nei prossimi 100.000 anni? Non necessariamente.

Il fatto è che gli esseri umani possono evolvere. E  possono evolvere velocemente, cambiando in modo sostanziale in poche migliaia di anni. I risultati della ricerca genomica hanno aperto un vaso di Pandora di scoperte. I nostri antenati si sono evoluti, oh sì, lo hanno fatto! L'idea che siamo ancora gli stessi tipi che cacciavano i mammut durante l'era glaciale richiede urgentemente un aggiornamento. Siamo simili a loro, ma non gli stessi, niente affatto. Sono successe molte cose agli esseri umani durante la transizione da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori ed allevatori. Abbiamo perso un buon 3-4% di capacità cranica, molti di noi sono diventati capaci di digerire il latte, abbiamo sviluppato una resistenza a molte malattie e la capacità di vivere di una dieta che è stata molto diversa e molto più povera di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi cambiamenti sono stati genetici, risultato della necessità di adattarsi a diversi stili di vita ed a società più complesse.

Quindi, se gli esseri umani possono sopravvivere al grande collasso ed andare avanti per altri millenni – forse molti più millenni – c'è un sacco di tempo per altri cambiamenti. Infatti gli esseri umani cambieranno tanto in un lasso di tempo così lungo. Come cambieranno? Naturalmente, è una domanda difficile, ma possiamo identificare almeno qualche tendenza. In particolare, possiamo immaginare che alcune tendenze presenti, che oggi siamo portati a vedere come principalmente culturali, alla fine potrebbero diventare inscritti al genoma umano.

Una cosa che potrebbe succedere è che la razza umana possa speciare. Vale a dire, potrebbe gradualmente suddividersi in due o più specie, talmente diverse che i membri di una potrebbero non essere in grado di procreare con quelli dell'altra. Abbiamo già visto specializzazioni considerevolmente divergenti fra almeno tre diversi gruppi umani: cacciatori-raccoglitori, allevatori e agricoltori. Ognuna di  quete tre branche sfrutta diverse nicchie ecologiche/economiche ed ha sviluppato adattamenti culturali (in parte anche genetici) ai diversi stili di vita. Estrapolate questa tendenza nel lontano futuro ed avete due (o anche tre) specie di ominidi coesistenti sul nostro pianeta, ripetendo la situazione che era comune molto tempo fa, quando diversi ominidi coesistevano. I Neanderthal e i Sapiens, infatti, hanno vissuto in tempi sovrapposti ed avevano capacità limitate (anche se non nulle) di riprodursi fra loro.

Se il futuro vedrà più di una specie di “homo”, allora ognuna si specializzerà indipendentemente e si adatterà al suo ambiente. I cacciatori-raccoglitori probabilmente torneranno ad essere i già ottimizzati costruttori di attrezzi del Pleistocene. Gli allevatori diventeranno sempre più esperti delle loro vite da nomadi in aree che sono poco produttive per l'agricoltura. Gli agricoltori continueranno a vivere in villaggi e città con alte densità di popolazione. Costruiranno città, templi e palazzi. Creeranno eserciti, si combatteranno fra loro e costruiranno regni ed imperi. Ed è qui che le cose hanno una possibilità di farsi interessanti.

L'evoluzione genetica e culturale passata degli esseri umani agricoli è stata per tutto il tempo lo sviluppo di caratteristiche più “sociali”: un aumento della capacità di vivere in grandi gruppi di categorie molto differenziate (agricoltori, soldati, artigiani, preti...). Se la tendenza continua, potremmo vedere alcune caratteristiche culturali diventare sempre più incorporate nel genoma della specie. Sul (molto) lungo termine, potremmo assistere alla nascita di una razza umana “eusociale”, lo stesso tipo di struttura sociale di api, formiche e termiti. Vale a dire, una società di lavoratori e soldati sterili, “regine” che generano gran parte degli individui e maschi stupidi (in quanto a quest'ultima caratteristica, siamo già piuttosto avanti). Non è impossibile. Esistono già dei mammiferi la cui organizzazione sociale è eusociale, uno è la talpa nuda dell'Africa Centrale. Quindi, forse il futuro degli esseri umani non comporterà aggeggi tecnologici avanzati (di cui siamo così appassionati) ma, piuttosto, comporterà ingegneria sociale avanzata, con lo sviluppo di società sempre più efficienti e stratificate.

Il futuro dell'umanità è un alveare? Non possiamo dirlo, ma sembra sempre più probabile che alcuni dei vecchi modi di vedere il futuro ora siano del tutto obsoleti. Probabilmente, i nostri discendenti non avranno macchine volanti, niente navi spaziali, niente maggiordomi robot che portano loro dei cocktail mentre si rilassano ai bordi della piscina. Ma i poteri di un alveare umano potrebbero essere comunque impressionanti anche senza i gadget dei nostri tempi. Forse la “superintelligenza” che alcuni vedono svilupparsi nei nostri computer potrebbe in realtà apparire in una organizzazione umana eusociale (questo è uno dei temi del racconto di Frank Herbert “L'alveare di Hellstrom”). Queste entità superintelligenti eviteranno gli errori che abbiamo fatto noi? Non possiamo dirlo. Naturalmente questa è una cosa che nessuno di noi vedrà mai, ma l'interesse per il futuro è parte del fatto di essere umani e, forse, i nostri discendenti dell'alveare avranno a loro volta questa caratteristica.

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L'opinione di Geroge Mobus sull'evoluzione futura della razza umana

George Mobus  ha contribuito alla discussione iniziata da RE di doomstead diner con queste considerazioni che riproduco qui col suo permesso. 

Rispetto alle idee sull'estinzione come possibile risultato, vorrei ripetere che l'estinzione di specie apparentemente è inevitabile. Circa il 99% di tutte le specie che sono mai esistite (si stima) che si siano estinte e che l'attuale lotto di biodiversità non ha probabilmente più di un milioni di anni, in media.

Ma ci sono percorsi alternativi all'estinzione e dei conseguenti risultati alternativi. Molto ha a che fare con “l'evolvibilità” della riserva di specie. Ho postato un pezzo su quest'idea qualche tempo fa.

L'evoluzione umana è ancora in corso, ma è strettamente legata all'evoluzione culturale, cioè la co-evoluzione sta guidando la selezione reciproca sia nel mondo della specie biologica che in quello del mondo artefatto costruito dagli esseri umani. L'evoluzione biologica è ancora molto più lenta dell'innovazione culturale a causa di una minore produzione di tasso di novità (vedi mutazione genetica). Ciononostante, noi umani stiamo ancora attraversando adattamenti biologici (non adattamenti individuali) alle influenze culturali.

La capacità di evolvibilità, tuttavia, si permette molti tipi di opportunità che le specie si diffondano anche quando occupano lo stesso ambiente geografico ed ecologico (vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Sympatric_speciation ed un articolo su Scientific American, vol. 312, numero 4 su “La straordinaria evoluzione dei Ciclidi”.

Tutto questo mi porta ad aspettarmi (e sperare) che una qualche forma di ominide, specificamente derivata dal nostro attuale genoma, sopravviverà al quasi certo cambiamento nella devoluzione dovuta al declino dell'energia ed agli stress ambientali dovuti al cambiamento climatico e, col tempo necessario, produrrà una nuova specie di Homo, di fatto forse diverse nuove specie, nei prossimi milioni di anni. Tecnicamente, quindi, l'Homo Sapiens, per come capiamo ora la nostra specie, si estinguerà anche mentre nuove specie continueranno sotto le future condizioni di selezione che ci saranno.

Anche se è speculativo (cercare predire la natura è sempre uno sparo nel buio!), ho usato alcuni schemi evolutivi storici dell'emersione della cooperazione nella storia della vita (dalle origini della vita all'eusocializzazione fra gli esseri umani) per visualizzare alcune possibilità future. Vedete qui. Tutto questo è buono e bello e stimola a pensarci. Ma penso comunque che la preoccupazione immediata sia per le dinamiche del collasso. Il collasso può essere “gestito” in modo da minimizzare, in qualche modo concreto, la sofferenza che ne deriverà?

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(*) Le ragioni della popolarità del concetto di NTE (estinzione a breve termine) sono un tema affascinante in sé stesse. Una ragione potrebbe essere che molti di noi vengono realmente stanchi delle tante cose orribili che stiamo facendo a questo pianeta (e a noi stessi). Così tanto che l'estinzione umana non sembra così terribile, di fatto diventa quasi un sollievo. Ma l'estinzione a breve termine potrebbe essere vista come una forma estrema di BAU. Vale a dire, alcune persone sembrano incapaci di concepire che possa esserci vita per la razza umana in forme diverse da quella attuale. Alcune di queste persone si rifugiano nel BAU tecnologico, nella speranza che l'attuale società possa essere conservata per sempre per mezzo del progresso. Altri sembrano rendersi conto dell'impossibilità del sogno tecnologico e si rifugiano quindi nel nichilismo. E' un po' come i molti cittadini giapponesi che si sono suicidati dopo la resa del Giappone alla fine della seconda Guerra Mondiale. Non potevano concepire un mondo in cui il Giappone era stato sconfitto ed hanno deciso di lasciarlo. 

(**) Le considerazioni qui fatte sulla specie Homo Sapiens sono abbastanza a lungo termine da poter essere applicabili ad altre specie simili. Quindi se gli esseri umani si estinguono, la strada verso l'eusocialità potrebbe essere intrapresa da altri primati, come gli scimpanzé e i bonobo (i secondi potrebbero essere ben più avanzati di noi nelle tecnologie sociali). Anche qualche specie non-primate, le iene per esempio, sono molto avanzate in termini di organizzazione sociale. Poi, ci sono mammiferi che sono già eusociali. Le talpe nude possono conquistare il pianeta? Perché no? 



sabato 13 giugno 2015

Abbiamo 5 anni per smettere di costruire centrali a carbone e macchine a benzina

Da “Motherboard”. Traduzione di MR (via Alexander Ač)

Ecco le spaventose implicazioni di uno studio di riferimento sulle emissioni di carbonio: nel 2018, nessuna nuova auto, casa, scuola fabbrica o centrale elettrica potranno essere costruite da nessuna parte nel mondo, mai più, a meno che non siano o sostituzioni di altre vecchie o a impronta di carbonio zero. Altrimenti le emissioni di gas serra spingono il riscaldamento globale oltre i 2°C di aumento della temperatura in tutto il mondo, minacciando la sopravvivenza di molte persone che attualmente vivono sul pianeta. Tutti gli esperti di clima vi diranno che ci troviamo all'interno di un bilancio di carbonio molto ristretto – cioè che si possono pompare nell'atmosfera una quantità definita di biossido di carbonio prima che il clima globale si surriscaldi. Abbiamo già riscaldato le temperature di 0,85 °C dai livelli preindustriali e il numero aumenta ogni anno. Mentre nessuno pensa che i 2°C siano sicuri di per sé, è più sicuro che andare ancora più in alto e correre il rischio che il riscaldamento diventi una spirale completamente fuori controllo. Lo scorso anno, l'ultimo rapporto del IPCC ha stabilito il bilancio globale di carbonio per la prima volta. Ha essenzialmente dichiarato che a partire dal 2014, il carbonio che possiamo permetterci arriva a circa 1.000 miliardi di tonnellate di CO2. In altre parole, le nostre auto, fabbriche e centrali elettriche possono emettere solo 1.000 miliardi di tonnellate (1.000 Gt, o gigatonnellate) di CO2 nell'atmosfera se vogliamo avere una possibilità più alta del 50% di mantenere il nostro clima al di sotto dei 2°C di riscaldamento.

Anche considerando che l'umanità ha pompato 36 Gt di CO2 nell'atmosfera solo lo scorso anno, 1.000 Gt sembra ancora una grande quantità. Potrebbe anche sembrare che ci avanzi dello spazio. Forse no. Una nuova ricerca mostra che potremmo non aver fatto attenzione all'intero quadro delle emissioni di CO2. Abbiamo contato solo le emissioni annuali e non il fatto che costruire una nuova centrale a carbone o a gas è in realtà un impegno a pompare CO2 per il lasso di vita di una data centrale – che di solito va dai 40 ai 60 anni. Queste emissioni future sono conosciute come 'impegno di carbonio'. Un nuovo studio ha conteggiato gli impegni di carbonio di tutte le centrali a carbone e gas guardando le loro emissioni annuali di CO2 e l'attuale età. Lo studio ipotizza una vita operativa di 40 anni. Una centrale a carbone di 38 anni avrà delle emissioni future di gran lunga inferiori, quindi un impegno di carbonio inferiore di una costruita oggi. Lo studio, “Conteggio degli impegni di emissione di CO2”, ha determinato che la maggior parte delle nuove centrali elettriche che sono entrate in funzione nel 2012 hanno un impegno di carbonio molto ampio – 19 Gt di CO2. Costruire nuove centrali elettriche significa più impegni di carbonio che intaccano il nostro bilancio di carbonio per i 2°C. Costruiamo sufficienti centrali  a carbone giganti oggi e le loro emissioni future vincoleranno l'intero bilancio, senza lasciare spazio a qualsiasi altra fonte di emissione di CO2. Nel frattempo, il tasso al quale le nuove centrali vengono costruite supera di gran lunga quello della chiusura delle vecchie centrali. Molte centrali a carbone degli Stati Uniti funzionano per più di 40 anni; la più vecchia ha attualmente circa 70 anni. “In tutto il mondo, abbiamo costruito più centrali elettriche a carbone nell'ultimo decennio che in qualsiasi altro decennio precedente e le chiusure delle vecchie centrali non stanno tenendo il passo con questa espansione”, ha detto il coautore Steven Davis dell'Università della California di Irvine.


Immagine: Flickr

Impegno di carbonio delle centrali elettriche a combustibili fossili: 300 Gt
Nello studio, Davis e il coautore Robert Socolow dell'Università di Princeton hanno calcolato che l'impegno del carbonio delle centrali elettriche a carbone e gas risulta essere molto grande – più di 300 Gt.

Impegno di carbonio non legato a centrali elettriche: 400 Gt
La realtà dell'impegno di carbonio vale per ogni infrastruttura che brucia combustibili fossili, compresi edifici adibiti ad uffici e case che usano riscaldamento a gas o automobili ed aerei che bruciano combustibile per i jet. Tutti hanno una vita operativa di diversi o molti anni durante i quali emetteranno CO2 da adesso a quando vengono 'pensionati'. Queste emissioni future contano a loro volta come impegno di carbonio. In un altro studio in arrivo, Davis ha calcolato gli impegni di carbonio di altre fonti di CO2, compreso da trasporto, industria, settori commerciale e residenziale. Davis stima che che già dal 2013 questo impegno di carbonio superava le 400 Gt. Insieme all'impegno delle centrali elettriche di 300 Gt disposte nell'attuale studio, si tratta di più di 700 Gt di impegni di carbonio su un bilancio globale di carbonio di 1.000 Gt. Ciò lascia meno di 300 Gt per le future centrali elettriche, acciaierie, cementifici, edifici e altre cose che bruciano combustibili fossili. Agli attuali tassi avremo usato la rimanenza del bilancio in soli 5 anni. Eccone la composizione:

Emissioni annuali stimate 2014-2018: 200 Gt
Le emissioni globali di CO2 da tutte le fonti sono state di 36 Gt nel 2013. Le emissioni annuali sono cresciute ad un tasso del 2-3% all'anno. Senza grandi sforzi per ridurre le emissioni, verrebbero emesse altre 200 Gt di CO2 fra il 2014 e il 2018.

Nuovi impegni di carbonio 2014-2018: 100 Gt
Davis e Socolow hanno determinato che gli impegni di carbonio da parte delle nuove infrastrutture che bruciano combustibili fossili saranno in media almeno 20 GT all'anno, un totale di 100 Gt in cinque anni.

300 + 400 +200 +100 = 1.000 Gt di carbonio bloccate per il 2018
A meno che le centrali a carbone e a gas o le grandi fonti di CO2 vengano chiuse prima della fine del loro ciclo di vita, il bilancio complessivo di 1.000 Gt di carbonio sarà pienamente assegnato intorno al 2018. Nessuno lo noterà, perché le cose non saranno né sembreranno molto diverse da oggi. Il CO2 è simile ad un veleno lento e transgenerazionale. Gli impatti climatici dell'esaurimento del bilancio di carbonio non saranno percepiti fino al 2030-2040  e sentiti per molto tempo dopo. Anche gli esperti di clima non lo noteranno tanto, perché le emissioni annuali di CO2 sono state il solo focus del processo dei paesi e delle Nazioni Unite per affrontare il cambiamento climatico, ha detto Davis. “E' come guidare sull'autostrada e guardare solo dal finestrino laterale”, mi ha detto Davis. I politici, i capi delle imprese, gli investitori, i pianificatori, i burocrati e una gran quantità di altre persone dovrebbe guardare davanti e fare attenzione alla dura realtà degli impegni di carbonio. Se i calcoli di Davis e Socolow sono giusti, significa che non può essere attivata nessuna centrale a carbone o a gas dopo il 2018 a meno che non sostituisca centrali che chiudono. Ciò significa bloccare le dimensioni della flotta mondiale di automobili e i settori industriale e commerciale, a meno che non aumenti la loro efficienza energetica. E così via. Il fatto che gran parte dell'infrastruttura attuale e futura porti con sé enormi impegni di carbonio è palesemente ovvio, ma riceve poca attenzione.

Non si risolve un problema peggiorandolo
“Se si costruisce, ci saranno emissioni anno dopo anno. Questa dovrebbe essere una parte fondamentale della decisione di costruire la maggior parte delle cose”, ha detto Davis. Ignorare la realtà degli impegni di carbonio significa che stiamo investendo pesantemente in tecnologie che peggiorano il problema, ha detto. “Abbiamo nascosto a noi stessi quello che sta succedendo: un futuro ad alto tenore di carbonio è implicito negli investimenti di capitale del mondo”, ha detto il coautore Robert Socolow. Qualsiasi piano o strategia per tagliare le emissioni di CO2 deve dare una prominenza di gran lunga maggiore a quegli investimenti. Adesso i dati mostrano che “stiamo abbracciando i combustibili fossili più che mai”, mi ha detto Socolow. Cosa possiamo fare quindi per cominciare a prepararci per un bilancio di carbonio strapieno? Per prima cosa dobbiamo smettere di costruire centrali che dipendono da combustibili fossili. Sorprendentemente, sembra che l'Australia sia pioniera in questo, nonostante il recente ritiro della sua pionieristica carbon tax. Grazie all'adozione diffusa di energia solare su abitazioni ed aziende, l'uso di elettricità del paese è in netto declino. Per la prima volta nella sua storia, non sarà necessaria nessuna nuova capacità elettrica alimentata a carbone o a gas per mantenere l'offerta nei prossimi 10 anni, secondo l'Operatore del Mercato Energetico Australiano. Anche la Germania sta adottando rapidamente fonti di energia pulita come eolico e solare, in modo da evitare di costruire centrali a carbone o nucleari. Poi, abbiamo bisogno di pensare di soddisfare la domanda di energia migliorando l'efficienza, piuttosto che costruendo più potere di generazione elettrica. Sono possibili miglioramenti potenziali dell'efficienza energetica del 50% in molti settori e in molti paesi, ha detto Socolow e potrebbero ridurre il numero di centrali elettriche a combustibili fossili. Gli Stati Uniti sono i re dello spreco energetico secondo la maggior parte delle stime. Questo costa agli americani 130 miliardi di dollari all'anno, secondo la Alleanza per Risparmiare Energia. Ma nonostante il potenziale per riduzioni dei costi e delle emissioni, i governi quasi ovunque mettono quasi tutti i loro sforzi nella ricerca energetica per trovare nuove fonti di energia come nuove centrali piuttosto che aiutare a sviluppare auto, edifici e elettrodomestici energeticamente efficienti. Il loro studio internazionale del 2012 ha scoperto anche che migliorare l'efficienza energetica fornisce di gran lunga il miglior rapporto qualità-prezzo per la sicurezza energetica, per il miglioramento della qualità dell'aria, per la riduzione degli impatti ambientali e sociali e per la riduzione delle emissioni di carbonio. Tuttavia, i miglioramenti dell'efficienza richiedono tempo e c'è poco tempo prezioso per far sì che i tagli alle emissioni di CO2 rimangano al di sotto dei 2°C, ha detto Socolow. Mentre si rifiuta di dire che un pianeta di 2°C più caldo sia inevitabile, Socolow ha detto che tutti gli sforzi per ridurre le emissioni devono essere intrapresi il prima possibile: “3°C è molto meglio di 5°C, la strada sulla quale ci troviamo attualmente”.

mercoledì 10 giugno 2015

Pensieri sul futuro: estinzione per la specie umana?


Di Giorgio Nebbia (nebbia@quipo.it)


Poche cose hanno attirato l’interesse degli esseri umani come l’interrogarsi sul futuro: quanti abitanti può “sostenere” il nostro pianeta ? ci sarà cibo e acqua e energia per tutti ?

Come è ben noto, una popolazione di esseri viventi animali, e quella umana è una di queste, vive ricavando dall’ambiente dei beni materiali, alcuni rinnovabili come l’acqua o i vegetali, altri non rinnovabili, come il carbone, altri trasformati dalla “tecnica”. Per il principio di conservazione della massa e dell’energia tutto quanto “entra” in un processo, come quello vitale, esce nella stessa quantità ma “degradato”, non più utilizzabile come tale, sia energia, o gas, o acciaio e carta, eccetera, e addirittura sotto forma di scorie dannose per l’ambiente.

Dal momento che, nel caso del pianeta Terra, l’ambiente è fisicamente limitato, a mano a mano che aumenta la popolazione, diminuisce la quantità di beni disponibili e peggiora la “qualità” dell’ambiente stesso. Tutte i discorsi sull’ecologia, la decrescita, eccetera, hanno la loro base nelle leggi della vita che si studiano nei corsi di biologia nel capitolo sulla dinamica delle popolazioni, elaborata negli anni trenta del Novecento dagli studiosi Lotka, Volterra, Kostitzin, Gause.

Tali leggi spiegano che, in un ambiente di dimensioni limitate, il numero degli individui di una popolazione dapprima cresce rapidamente, quando sono abbondanti cibo e spazio; a poco a poco tale numero cresce più lentamente (cioè diminuisce il tasso di crescita percentuale annuo). Il rallentamento della crescita di una popolazione vivente è direttamente proporzionale alla diminuzione della massa di beni materiali disponibili, dovuta alla sottrazione delle risorse naturali dall’ambiente, e alla conseguente crescita della massa di rifiuti tossici immessi nell’ambiente.

Il tasso di crescita r di una popolazione P diminuisce, quindi, a mano a mano che diminuisce la massa dei beni disponibili K, e che cresce l’intossicazione dell’ambiente, espressa da un termine a∫Pdt che dipende dal numero di individui che hanno occupato in passato tale ambiente, moltiplicato per un coefficiente a corrispondente all’inquinamento lasciato da ciascuno di loro:

dP/dt = rP [1 – P/K – a∫Pdt]

Questa equazione integrodifferenziale è stata proposta nel 1934 dal grande matematico Vito Volterra. L’intera storia è raccontata nel libro di Umberto D’Ancona, “La lotta per l’esistenza”, Torino, Einaudi, 1940, che riassume il lavoro di Volterra e quello di Vladimir Kostitzin, il quale ha approfondito lo stesso problema negli stessi anni.

Naturalmente anche la disponibilità di risorse K è funzione della popolazione P proprio come lo è il degrado ambientale qui schematizzato come “inquinamento”. E anche l’intossicazione ambientale dipende dalla capacità della natura di assorbire le sostanze generate dalle attività umane e diminuisce quando diminuisce la popolazione P (gli oceani assorbono parte dei gas generati in precedenza, la radioattività di origine antropica lentamente decade, eccetera).

A questo sistema di equazioni integrodiffenziali si è ispirato, trent’anni dopo, Jay Forrester nella sua analisi dei sistemi utilizzata per le “previsioni” di possibili futuri esposte nel libro del Club di Roma sui “Limiti alla crescita”.

Con un poco di calcoli è facile vedere che, nell’ambiente ipotizzato, per qualsiasi valore positivo di r, K e a, una popolazione P, dopo avere raggiunto un massimo diminuisce e poi scompare. Volterra nel 1938 ha intitolato un suo saggio proprio: “Crescita della popolazione, equilibrio e estinzione”. A questo punto la disponibilità delle restanti risorse naturali resterebbe (abbastanza) stabile e l’intossicazione e il degrado dell’ambiente rallenterebbero e anzi diminuirebbero.





Per gli umani la rapida crescita dalla popolazione è stata resa possibile dagli eventi che, dal Seicento in avanti, hanno assicurato, anche con le scoperte geografiche, a un crescente numero di persone una crescente disponibilità di spazio in cui abitare, di “risorse naturali” da “sfruttare” per ricavarne cibo e di beni materiali.

Da un certo periodo in avanti, diciamo dalla seconda metà del Novecento, si sta osservando un rallentamento del tasso di crescita della popolazione umana (non del numero totale degli individui), una “transizione demografica” dovuta al fatto che in molti paesi industriali le donne lavorano, che la prolificità non è più un valore e che mancano le abitazioni. Al rallentamento del tasso di crescita r della popolazione umana P contribuiscono anche (a) la crescente difficoltà di procurarsi cibo, energia, materie prime e merci, a causa dell’impoverimento delle riserve di risorse naturali (petrolio, terre fertili, foreste, minerali), e (b) il peggioramento della “qualità” dell’aria, delle acque, del suolo e degli spazi abitabili in molti paesi a causa del continuo aumento di agenti inquinanti e di danni ambientali che ogni anno si aggiungono a quelli dovuti alle generazioni precedenti.

Il rallentamento della crescita della popolazione umana comporta anche continue modificazioni non solo del numero totale di individui, ma soprattutto della loro distribuzione per età, con un aumento degli “anziani” e una diminuzione dei “giovani”, il che significa una diminuzione della frazione in età lavorativa e una modificazione del lavoro, dalla produzione di oggetti ai servizi. Fenomeni vistosi nei paesi industrializzati ma che si manifestano ben presto anche in quelli oggi poveri.

Del resto anche una ipotetica società stazionaria, in cui il numero di nati fosse uguale al numero dei morti, non sarebbe sostenibile a causa della diminuzione delle risorse naturali da cui trarre beni materiali e dell’intossicazione dell’ambiente.

Mi rendo conto che la prospettiva del declino di una popolazione, dei consumi, della disponibilità di risorse è sgradevole per una società basata sul principio che soltanto più persone-consumatori e più beni materiali assicurano più ricchezza monetaria, considerata l’unico indicatore del benessere, cioè dello stare bene; la massa di scorie che inevitabilmente accompagna questo cammino è solo un secondario ”irrilevante” disturbo nel cammino della crescita. Tale società si affanna a diffondere la certezza che la scienza, la tecnologia e la stessa crescita della ricchezza qualche soluzione troveranno, il che è poco credibile alla luce sia delle leggi della vita sia della storia dei viventi.

La constatazione che anche la nostra specie umana ubbidisce alle stesse leggi di crescita e declino di tutti gli esseri viventi è motivo non di disperazione, ma di stimolo a cercare il “benessere” non nel continuo sfruttamento e degrado del pianeta per il possesso di più merci, ma nella solidarietà, nel rispetto degli altri, nel vivere “bene”. Del resto perfino il Papa Francesco, in una “lettera” al giornalista Scalfari nell’estate del 2013, ha scritto che un giorno la nostra specie finirà. Quando e come questo avverrà per la popolazione umana --- centinaia, migliaia di anni ? --- non è possibile sapere: innumerevoli specie viventi sono comparse, cresciute e scomparse nella Terra; non scomparirà comunque la vita, almeno fino a quando il Sole diffonderà un po’ delle sue radiazioni di luce e energia.

lunedì 8 giugno 2015

DRAGHI 2: un archetipo fra passato e futuro.


di Jacopo Simonetta

In un precedente post ho preso spunto da un “pesce d’Aprile”  pubblicato su Nature per parlare del ritorno dei draghi, non certo in quanto animali, bensì in quanto simbolo delle forze indomabili della
Natura.

Circa un mese dopo, mi sono capitati sottocchio ben tre articoli, stavolta serissimi, sull'origine e la diffusione del mito del Drago.    L’autore, Julien d’Huy, uno studioso di mitologia ed archeologia africana, ha utilizzato i metodi della tassonomia statistica per costruire un’ipotesi circa l’origine e la diffusione globale del mito del Drago sulla base delle citazioni letterarie antiche e delle tradizioni dei diversi popoli.   I risultati sembrano confermati dagli scarsi dati archeologici e linguistici disponibili.

Secondo l’autore, il mito avrebbe origini paleolitiche, nella forma di un serpente gigantesco capace di volare, dotato di corna e, forse, anche di capelli umani.   In origine, si sarebbe trattato di uno spirito/divinità legata alle acque, in particolare alle sorgenti, e capace di scatenate tempeste.   Nella ricostruzione del d’Huy, il mito avrebbe avuto origine in Africa settentrionale e si sarebbe diffuso dapprima verso est e poi in praticamente tutto il mondo, seguendo le varie ondate del popolamento umano, alla fine dell’ultimo periodo glaciale.

Naturalmente sono possibili anche altre ipotesi, ma se così effettivamente fosse, il Drago risulterebbe essere uno degli archetipi più antichi e profondi  della nostra mente.   Addirittura potrebbe essere nato insieme con la capacità di pensiero simbolico.   Vale a dire che potrebbe essere nato con la nostra stessa specie, circa 50.000 anni or sono, e da allora nostro compagno nel bene e nel male.   Un ipotesi estremamente affascinante, soprattutto alla luce dell’evoluzione che questo archetipo ha subito, particolarmente nella cultura occidentale oggi dominante a livello globale.   Da sempre simbolo di forze incontrollabili, il Drago è stato infatti gradualmente demonizzato, fino a diventare simbolo stesso del Diavolo, sconfitto ed ucciso da un eroe oppure da una Vergine, a seconda delle versioni.    Con il trionfo dell’illuminismo e del positivismo, i draghi sono stati accantonati nella polverosa soffitta della mitologia desueta, dove solo archeologi e scrittori stravaganti vanno a frugare, mentre i nuovi miti della Macchina, della Velocità e del Progresso davano forma e senso alla civiltà industriale.    In modo definitivo, si sarebbe detto fino a pochi anni or sono e  forse è davvero così, ma forse no.

Oramai da oltre un decennio, infatti, il Drago sta tornando di prepotenza nell'iconografia e nella cultura popolare attraverso immagini, giochi e narrativa, anche se spesso di mediocrissima lega.   Potrebbe rivelarsi una semplice moda fra le tante, ma se invece si dimostrerà un fenomeno duraturo e radicato, potrebbe essere un indicatore del massimo interesse per antropologi e sociologi.

Oggi, infatti accanto all'immagine classica del Drago nemico e distruttore, se ne trovano altre dove il Drago viene mostrato come una forza incontrollabile, ma non necessariamente ostile.     Anzi è spesso alleato dell’eroe od è esso stesso l’eroe, assurgendo perfino a simbolo di speranza.   Un cambio di significato in un archetipo di tale antichità significherebbe che qualcosa di molto profondo sta cambiando nel nostro inconscio collettivo.

Certo, ipotizzare che ci troviamo all'alba di una cambio radicale nei paradigmi mentali dell’umanità sarebbe a dir poco esagerato.   Ma nulla ci impedisce di pensare che ci potremmo trovare di fronte ad un “germe” della mitologia che darà sostanza e significato alle civiltà che, presumibilmente,  si svilupperanno nei secoli seguenti il collasso della civiltà attuale.   Se, infatti, possiamo trovare poco conforto in scienze come la Fisica, l’Ecologia o la Dinamica dei sistemi,

possiamo trovarne nell'archeologia.
Per costruire una società complessa ed una civiltà sono necessari fondamentalmente quattro soli ingredienti: suolo, acqua, biodiversità  e mitologia.   Coloro che oggi si occupano di resilienza danno molta importanza soprattutto ai primi due, ma anche del terzo alcuni tengono conto.   Del quarto ingrediente per ora non credo che si occupi nessuno o quasi.   Tuttavia, senza che neppure ce ne accorgiamo, è proprio su questo che forse stiamo facendo dei progressi interessanti.