domenica 30 ottobre 2011

ASPO-Italia 5: concluso il convegno

Si è concluso il convegno organizzato il 28 Ottobre a Firenze da ASPO-Italia in collaborazione con Climalteranti. Vedremo di relazionare nei dettagli con calma, nel frattempo qualche foto senza pretese di una cronaca completa

Ian Johnson, segretario generale del Club di Roma, apre i lavori con il suo intervento. A mio parere è stato nettamente il più interessante di tutto il convegno. Nella foto vedete anche Ugo Bardi (a destra, seduto) che fa la traduzione.


Toufic El Asmar, segretario di ASPO-Italia da la sua presentazione sul problema alimentare.





Questo è Stefano Caserini a rappresentare il gruppo "Climalteranti" nella sessione del mattino.



Ed ecco Luca Mercalli che non sta facendo il Karaoke, come potrebbe sembrare, ma sta dando la sua presentazione. Lo strumento sulla sinistra è del gruppo "Cambiamo" che ha fatto le pause musicali nel pomeriggio

 Il concetto di essere delle "Cassandre" si diffonde; qui nell'interpretazione di Pietro Cambi


Una delle pause musicali del gruppo "Cambiamo"




Per essere un convegno fatto in un giorno di lavoro, ha attirato un bel gruppo di persone.


Pausa pranzo al ristorante "Nerbone" nel cuore del mercato di San Lorenzo. Da sinistra a destra, si riconoscono Cristiano Bottone, Sergio Paderi, Terenzio Longobardi, Massimiliano Rupalti (dietro Massimiliano, si intravede una sua amica)


La pausa pranzo di Fabio Biagini, al mitico baracchino del lampredotto del mercato di San Lorenzo




Alcuni dei partecipanti dell'assemblea dei soci ASPO-Italia. Da destra a sinistra, Gianni Comoretto, Pietro Cambi, Francesco Aliprandi, Noemi Brogialdi, Andrea Fanelli e Lou del Bello. Dietro Andrea, si intravede Mirco Rossi.


La nuova triade dirigente di ASPO-Italia, da sinistra a destra: Toufic El Asmar (Vice-presidente), Luca Pardi (presidente) e Mauro Icardi (Segretario).




Per finire, questo oggetto era in un corridoio vicino a dove si teneva la conferenza. Non so se lo si debba interpretare come un partecipante che è rimasto scioccato dal tono catastrofista di certi interventi

giovedì 27 ottobre 2011

Convegno: Cassandra nel XXI secolo

Il Quinto convegno nazionale ASPO-Italia, Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio, organizzato insieme al gruppo "Climalteranti" si terrà Venerdì 28 ottobre 2011, dalle 9:00 alle 19:00, presso la 

Sala delle Feste – Palazzo Bastogi, Consiglio Regionale della Toscana, via Cavour, 18 a Firenze.

Il Titolo del convegno che sarà trasmesso in diretta video sulla homepage del portale del Consiglio Regionale della Toscana è “Cassandra nel XXI secolo. Clima, energia e cibo: fra informazione e disinformazione, crescita della consapevolezza pubblica e politiche appropriate”. Ingresso libero.

PROGRAMMA

Apertura e Saluti 9.00-9.30

Ugo Bardi, Presidente di ASPO – Italia

Mauro Romanelli, Consigliere, regione Toscana

09:30 Ian Johnson, Segretario generale del Club di Roma. 40 years of Limits to growth.


10:15 Nicole Foss, ricercatrice economica coeditore del blog “The Automatic Earth”. Un secolo di sfide.

10:45 -11:15 Coffee Break

11:15 Toufic el Asmar, Segretario ASPO – Italia e consulente FAO. Climate Smart Agriculture.

11:45 Enrico Euli, Università di Cagliari. Informazione, apprendimento e pedagogia delle catastrofi.

12:15 Luca Mercalli, Presidente Società Meteorologica Italiana. Prepariamoci. Consapevolezza e ritardi nella percezione dei problemi ambientali.

Break pranzo 12:45-14:30

Nella sessione pomeridiana i seminari saranno intercalati da intermezzi teatral-musicali di circa 10 minuti.

14:30- 18:00 I grandi problemi dell’Umanità su web, carta stampata, editoria, radio e televisione.

Sylvie Coyaud, Giornalista. Il clima nella rete.

Pietro Cambi, Geologo esperto indipendente e blogger. Il picco nella rete. La benedizione di Cassandra.

Sergio Castellari, Centro Euro – Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici / Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. IPCC, climategate e i media.

Stefano Caserini, DIIAR Politecnico di Milano. Il Clima sulla carta stampata.

Mirco Rossi, Divulgatore indipendente. Energia e futuro – le opportunità del declino. Tre lenti per leggere meglio.

18:00-18:15 Conclusioni e chiusura

domenica 23 ottobre 2011

La scienza del clima spiegata agli scettici dal capitano Kirk


Il capitano James T. Kirk dell'astronave "Enterprise". Il suo motto è "non mi metto mai in una situazione senza uscita" (I never put myself in a no-win situation). Cosa che i diversamente esperti di clima, invece, hanno fatto sostenendo che le "isole di calore urbano" falsano completamente l'idea che ci sia in corso un riscaldamento globale.


I risultati del recente studio indipendente BEST ("Berkeley Earth Surface Temperature") hanno confermato in pieno quello che già si sapeva sull'incremento della temperatura terrestre; ovvero quello che definiamo di solito "Riscaldamento Globale".

Se lo studio BEST, di per se, non ha detto niente di particolarmente nuovo in termini scientifici, quello che è riuscito a fare è stato dimostrare come la posizione dei cosiddetti "scettici" (meglio definiti come "diversamente esperti") sia basata non sulla scienza ma piuttosto sull'ideologia.

La reazione dei diversamente esperti ai risultati del BEST, e in particolare di Anthony Watts, che gestisce il sito pseudo-scientifico "Watt's up with that" è stata disastrosa per la loro immagine. Si trovavano (e si trovano) infatti in una posizione senza uscita. Che neghino o che confermino i risultati di BEST, cadono in contraddizione.

Una possibile risposta dei cosiddetti scettici al BEST poteva essere: "non avevamo mai negato che la Terra si scalda, quello che è importante è se il riscaldamento è dovuto all'attività umana".  Infatti, hanno provato a dirlo. Il problema è che questa posizione è incompatibile con quello che avevano sempre sostenuto, ovvero che l'effetto delle "isole di calore urbano" (urban heat islands, UHI) falsava completamente le misure della temperatura fatte fino ad oggi. Date un'occhiata alla discussione e questo punto apparirà chiarissima: gli scettici avevano sempre sostenuto che la Terra NON si scalda, e ora non possono più tornare indietro senza contraddirsi.

Del resto, sembra chiaro dalla posizione di Watts e dei commentatori al suo sito che loro hanno piena intenzione di continuare a negare l'evidenza, sostenendo adesso che lo studio BEST è altrettanto falso e sbagliato di tutti gli studi precedenti sulla temperatura terrestre. Ma anche questa è una posizione insostenibile. Watts stesso aveva dichiarato che avrebbe accettato i risultati di BEST "qualsiasi fossero stati." Così, Watts si è contraddetto apertamente sul suo sito, andando a dire ora che non crede ai dati di BEST e facendoci una ben misera figura. Comunque la voglaino mettere, comincia ad essere difficile sostenere che quattro studi diversi (incluso BEST) fatti da quattro team diversi, che danno tutti gli stessi risultati, sono tutti parte dello stesso complotto dei climatologi per imbrogliarci. Insomma, gli scettici si trovano in una situazione senza uscita. Avrebbero dovuto dar retta al capitano Kirk!

Certo, non basta questo studio a risolvere una questione che ormai è diventata profondamente politica e sostenuta da forze che cercano disperatamente di negare i risultati scientifici che dimostrano la realtà del cambiamento climatico antropogenico. Ma l'impatto della questione BEST sul dibattito climatico potrebbe essere dirompente sulla credibilità degli scettici/diversamente esperti. Potrebbe dare una spinta decisiva ad arrivare finalmente ad accettare anche a livello politico quello che la scienza ci dice ormai da decenni. 


Ecco alcuni link a tutta la faccenda. Per il momento, quasi tutto è in inglese, a parte il commento di Mondi Sommersi. E' in programma anche un commento su Climalteranti, ma non è ancora uscito. Metterò il link appena disponibile.



Notevole anche questo post su "Watts up with that". Richard Muller, una volta beniamino dei diversamente esperti, ora è rappresentato come "nemico del popolo" secondo la miglior tradizione della propaganda staliniana. 

    venerdì 21 ottobre 2011

    Lo scandalo dell'editoria accademica



    Con la "open access week" la settimana del libero accesso, che comincia la prossima settimana, Cassandra traduce (grazie a Massimiliano Rupalti) un recente articolo di George Monbiot, apparso sul "Guardian." In questo momento estremamente difficile per la scienza, sembra che gli scienziati stiano continuando a fare di tutto per spararsi nelle gambe da soli. Una di queste cose è di regalare il loro lavoro - pagato con fondi pubblici - agli editori scientifici che sono dei privati che ci fanno soldi sopra. E' uno scandalo sotto tutti gli aspetti che priva il pubblico della possibilità di capire e giudicare il lavoro fatto per loro (e con i loro soldi) dagli scienziati. Tutto questo da ampi spazi a chi è pagato dalle lobby anti-scienza per fare disinformazione e per la caccia allo scienziato scomodo. Considerando l'urgenza di prendere provvedimenti contro il riscaldamento globale e l'esaurimento delle risorse, se continuiamo così ci stiamo tutti quanti sparando nelle gambe da soli. Allora, dobbiamo liberare la comunicazione scientifica e renderla accessibile a tutti. Come dice Monbiot, "Abbasso il racket del monopolio della conoscenza"



    Gli editori accademici fanno sembrare Murdoch un socialista

    Di George Monbiot (Traduzione di Massimiliano Rupalti)


    Gli editori accademici addebitano elevate commissioni per accedere alla ricerca pagata da noi. Abbasso il racket del monopolio della conoscenza.'


     Sebbene le biblioteche universitarie abbiano freneticamente tagliato gli abbonamenti per sbarcare il lunario, le riviste oggi consumano il 65% dei loro bilanci ': Foto: Peter M Fisher/Corbis

    Chi sono i capitalisti più spietati del mondo occidentale? Le cui pratiche monopolistiche fanno di Walmart il negozietto sotto casa e di Rupert Murdoch un socialista? Non indovinereste la risposta neanche in un mese. Benché ci siano moltissimi candidati, il mio voto non va alle banche, alle compagnie petrolifere o a quelle di assicurazioni sanitarie, ma - aspettatevelo – agli editori accademici. 

    Il loro sembra essere un settore stantio e insignificante. Tutt'altro. Di tutte le frodi aziendali, il racket che gestiscono è quello che ha più urgente bisogno di essere rinviato alle autorità garanti della concorrenza.

    Tutti dichiarano che la gente dovrebbe essere incoraggiata a capire la scienza e le altre ricerche accademiche. Ma gli editori hanno messo un lucchetto e la scritta “Vietato entrare” ai cancelli. Vi dovreste indignare per la politica di accesso a pagamento di Murdoch, con la quale applica una tariffa di una sterlina per 24 ore per accedere al Times e al Sunday Times. Ma almeno in quel periodo puoi leggere e scaricare quello che vuoi. Leggere un singolo articolo pubblicato dalle riviste di Elsevier's ti costerà 31,50 dollari. Springer chiede 34,95€, Wiley-Blackwell 42 dollari. Ne leggi 10 e paghi 10 volte. E le riviste conservano il copyright per sempre. Vuoi leggere una lettera stampata nel 1981? Pagherai 31.50 dollari.



    Illustrazione di Daniel Pudles


    Naturalmente, puoi andare in biblioteca (se esiste ancora). Ma anche quelle sono state colpite da tasse cosmiche. Il costo medio di un abbonamento annuale ad una rivista di chimica è di 3.792 dollari. Alcune riviste costano 10.000 dollari l'anno o più a magazzino. La più cara che abbia visto è Elsevier's Biochimica et Biophysica Acta, che costa 20.930 dollari. Sebbene le biblioteche universitarie abbiano freneticamente tagliato gli abbonamenti per sbarcare il lunario le riviste oggi consumano il 65% dei loro bilanci, e ciò significa che devono ridurre il numero di libri che comprano. Le tasse delle riviste influiscono in quanto componente significativa dei costi universitari, che vengono passati ai loro studenti.

    Murdoch paga i suoi giornalisti ed i suoi editori e le sue compagnie generano gran parte dei contenuti che usano. Ma gli editori accademici ottengono i loro articoli, le loro revisioni tra pari (approvate da altri ricercatori) e persino la maggior parte della loro redazione, gratuitamente. Il materiale che pubblicano è stato commissionato e finanziato non da loro, ma da noi, attraverso finanziamenti alla ricerca e stipendi accademici.
    Ma per visionarlo dobbiamo pagare ancora ed in maniera esosa. I ritorni sono astronomici: nel passato anno finanziario, il margine di profitto operativo di Elsevier è stato del  36% (£724 su ricavi di £2 miliardi). Sono il risultato di una morsa sul mercato. Elsevier, Springer e Wiley, che hanno acquisito molti dei loro competitori, ora pubblicano il 42% degli articoli scientifici.

    Ancora più importante, le università sono costrette a comprare i loro prodotti. I saggi accademici vengono pubblicati solo in un luogo e devono essere letti da ricercatori che cercano di tenere il passo con il loro tema di ricerca. La domanda è rigida e la competizione inesistente perché riviste diverse non possono pubblicare lo stesso materiale. In molti casi gli editori obbligano le biblioteche a comprare una gran quantità di riviste, che le vogliano in così grande quantità o meno. Forse non sorprende che uno dei più grandi truffatori che abbia mai truffato questo paese – Robert Maxwell – ha fatto gran parte dei suoi soldi attraverso le pubblicazioni accademiche.

    Gli editori dichiarano di dovere addebitare tali commissioni a causa del costo di produzione e distribuzione e che loro aggiungono valore (nelle parole di Springer) perché “sviluppano i marchi delle riviste e mantengono e migliorano l'infrastruttura digitale che ha rivoluzionato la comunicazione scientifica negli ultimi 15 anni”. Ma un'analisi della Deutsche Bank giunge a conclusioni differenti. “Crediamo che gli editori aggiungano un valore relativamente piccolo al processo editoriale... se il processo fosse veramente complesso, costoso e di valore aggiunto, come contestano gli editori, il 40% di margine non sarebbe disponibile”. Lontani dall'assistere la divulgazione della ricerca, i grandi editori la impediscono, così come i loro lunghi tempi di consegna possono ritardare l'uscita delle scoperte di un anno o più.

    Quello che vediamo è puro capitalismo di rendita: monopolizzare una risorsa pubblica per poi addebitare commissioni esorbitanti per usarla. Un altro termine per questo fenomeno è parassitismo economico. Per ottenere il sapere per il quale abbiamo già pagato dobbiamo cedere le armi ai proprietari terrieri dell'apprendimento. Ciò è abbastanza negativo per gli accademici, è peggio per gli altri. Mi riferisco ai lettori e revisori, sul principio che le dichiarazioni debbano essere seguite dalle fonti. I lettori mi raccontano di non essere in grado di permettersi di giudicare da soli se ho rappresentato o no la ricerca onestamente. I ricercatori indipendenti che cercano di informarsi riguardo a importanti problemi scientifici devono esibirne migliaia. Questa è una tassa sull'educazione, un ostacolo allo spirito pubblico. Sembra violare la dichiarazione universale dei diritti umani, che dice che “tutti hanno il diritto di essere liberi di....condividere i progressi scientifici ed i loro benefici”.

    L'editoria ad accesso libero, nonostante le sue promesse e qualche eccellente risorsa come la biblioteca Pubblica della Scienza ed il database fisico arxiv.org, ha fallito nel rimpiazzare i monopolisti. Nel 1998 l'Economist, rilevando le opportunità offerte dall'editoria elettronica, predisse che "i giorni dei margini di profitto del 40% saranno presto defunti come Robert Maxwell".Ma nel 2010 i margini operativi di profitto di Elsevier erano gli stessi (36%) di quelli del 1998.

    La ragione è che i grandi editori si sono impadroniti delle riviste con i fattori di impatto accademico più elevato, nelle cui pubblicazioni è essenziale per i ricercatori provare ad ottenere sovvenzioni e progredire nella loro carriera. Puoi cominciare leggendo riviste ad accesso aperto, ma non puoi fare a meno di leggere quelle chiuse.

    I governi, con poche eccezioni, hanno fallito nei loro confronti. Gli Istituti Nazionali per la Salute negli Stati Uniti obbligano tutti a prendere le loro sovvenzioni per mettere i loro saggi in un archivio ad accesso libero. Ma il Consiglio della Ricerca inglese, la cui dichiarazione sul libero accesso è un capolavoro di chiacchiera insignificante, si basa “sull'assunto che gli editori manterranno lo spirito delle loro politiche correnti”. Puoi scommetterci. A breve termine, i governi dovrebbero riferire sugli editori ai loro cani da guardia della concorrenza ed insistere che tutti i saggi provenienti da ricerche finanziate pubblicamente vengano inserite in un database pubblico ad accesso libero. A lungo termine, dovrebbero lavorare con i ricercatori per tagliare fuori completamente gli intermediari, creando - seguendo le linee proposte da Björn Brembs della Freie Universität di Berlino - un unico archivio globale della letteratura e dei dati accademici. La revisione tra pari sarebbe supervisionata da un corpo indipendente. Potrebbe essere finanziato dai bilanci delle biblioteche che sono al momento dirottati nelle mani dei privati.

    Il monopolio del sapere è così ingiustificato ed anacronistico quanto le leggi sulla bardatura dei cavalli da guerra. Buttiamo fuori questi feudatari parassiti e liberiamo la ricerca, che ci appartiene.

    martedì 18 ottobre 2011

    Credo perché è assurdo



    Il climatologo Hans Schellnhuber viene minacciato con un nodo scorsoio mentre sta tenendo una conferenza (link al video). Sono gli scienziati i nuovi nemici, l'obbiettivo di una nuova crociata? (traduzione dall'inglese di Massimiliano Rupalti, da Cassandra's legacy)


    All'inizio del terzo secolo D.C., Tertulliano, campione della Cristianità contro il Paganesimo, ci ha fatto una sorprendente rivelazione sulla rottura fra la vecchia e la nuova visione culturale. Dei sui scritti ricordiamo le parole "Credo quia absurdum” che significa “Io credo perché è assurdo”. Queste non sono le parole esatte di Tertulliano, ma la frase riassume bene il suo pensiero. Tertulliano usava l'assurdità come arma contro il vecchio paradigma. Era un apostata, un rivoluzionario, un sovversivo.

    Ripensando a quei tempi antichi, è impressionante notare quanto siano simili alla rottura del paradigma dei nostri tempi che è spesso espresso nei termini di ciò che chiamiamo”le teorie del complotto”. Fino a poco tempo fa, la rottura contro la vecchia visione culturale era espressa in forme ideologiche complesse e strutturate: comunismo o socialismo, per esempio. Ma quello che stiamo vedendo ora non è nulla di strutturato o complesso. E' semplicemente la negazione di qualsiasi cosa possa dare l'impressione di essere “dimostrata scientificamente”. Dalle scie chimiche al climategate, vediamo la diffusione di un atteggiamento basato sul concetto che “se è scienza, deve essere una truffa”. Se Tertulliano fosse vivo oggi, la sua ricerca di assurdità creative sarebbe espressa, forse, sostenendo che gli aerei che ci volano sopra stiano diffondendo veleni terribili su di noi o che l'idea che la CO2 prodotta dagli esseri umani stia riscaldando il pianeta sia un elaborato inganno per spaventarci.

    E' grottesco, sicuro. Ma per qualsiasi cosa esista, c'è una ragione per la sua esistenza. Questo è vero anche per le teorie del complotto, ora e nei tempi antichi. Ai tempi di Tertulliano, la prosperità materiale di Roma e dei Romani era spesso vista come il risultato del favore degli Dei Pagani. Quando questa prosperità è scomparsa è stato uno shock: Roma non era più nei favori dei vecchi Dei. Il risultato è stato un movimento di idee che vedeva gli antichi Dei come “il male” proprio come quelle persone che continuavano ad adorarli. Ricordiamo la storia della filosofa pagana Ipazia, uccisa e fatta a pezzi da una folla inferocita. Ciò è accaduto solo un paio di secoli dopo Tertulliano, quando la frattura fra nuovo e vecchio paradigma non era più il dominio di sovversivi isolati; era diventato un'onda di furore, un vero tsunami.

    Oggi, vediamo i sintomi dello stesso tipo di rottura, di uno tsunami di furore montante nella nostra società. Pensate alla nostra prosperità: tendiamo ad attribuirla non agli Dei pagani, ma alla nostra abilità tecnologica. Adoriamo la capacità degli scienziati di creare macchinari nuovi e migliori. Ci diciamo che qualsiasi problema può essere risolto dagli scienziati che possono inventare un modo intelligente per uscirne. Non c'è abbastanza petrolio? Perforiamo più in profondità, inventiamoci biocarburanti, creiamo la fusione nucleare in bottiglia. Non c'è abbastanza cibo? Qualcuno inventerà nuovi fertilizzanti, organismi geneticamente modificati, nuovi pesticidi. Inquinamento? Dotiamoci di nuovi e migliori filtri per gli scarichi delle automobili e per le ciminiere degli inceneritori. Cancro? Presto avremo la pillola magica che lo cura.

    Ma ora sta accadendo qualcosa di diverso, qualcosa di mai sentito. Gli scienziati ci stanno dicendo che non ci sono soluzioni rapide per problemi come l'esaurimento delle risorse ed i gas serra nell'atmosfera. Che più cresciamo, più i problemi diventano seri. Che rischiamo spazzare via la razza umana dal pianeta facendo esattamente le stesse cose che siamo stati orgogliosi di saper fare, finora. Che abbiamo bisogno di cambiare i nostri modi prima che sia troppo tardi.

    E' la rottura completa del vecchio paradigma. Per la maggior parte di noi è totalmente disorientante sentirci dire che abbiamo sbagliato tutto e sentirlo dalle stesse persone, gli scienziati, che ci hanno mostrato come fare quello stavamo facendo. Questo può essere visto solamente come un tradimento e non è un strano che il furore monti contro quegli infidi e infedeli scienziati del male. Storie come quella del “Climategate” sono segni di questo furore. E' un furore terribile, qualcosa che non può essere spiegato se non con la perdita di un quadro comune di pensiero. E' una società che sta perdendo il rapporto maestro-alunno. Questo significa perdere saggezza, sapienza e auctoritas.

    Quando la gente perde la saggezza, la via d'uscita più facile sembra essere trovare un nemico. I nostri nuovi nemici sembrano essere gli scienziati. Non abbiamo ancora assistito al linciaggio di climatologi da parte di una folla inferocita, come è accaduto a Ipazia molto tempo fa, ma sembra che ci stiamo avvicinando a qualcosa di simile. Il furore di quella gente che chiamiamo i “teorici del complotto” è ancora ad una stadio informe di negazione di tutto, ma potrebbe svilupparsi in forme che potremmo descrivere come una specie di nuova crociata in cui, questa volta, i nemici sono gli scienziati. Non sarebbe la prima volta che gli scienziati diventano l'obbiettivo di movimenti politici, dai tempi del MaCarthysmo negli Stati Uniti alla “Rivoluzione Culturale” in Cina. Questi movimenti alla fine si sono placati, ma forse non abbiamo ancora visto il furore anti-scienza apparire con tutta la sua forza.

    La trasformazione della Società Romana dal Paganesimo alla Cristianità è durata secoli ed ha implicato ogni sorta di lotte violente fino a che non si è insediato un nuovo paradigma ed una nuova saggezza. Mille anni dopo Tertulliano, il mondo ha visto quel fiorire di pensiero che chiamiamo filosofia scolastica che comportava la riscoperta della vecchia saggezza e la sua fusione con la nuova. Oggi stiamo vedendo l'inizio di un nuovo ciclo e, nel tempo, dovremo riscoprire una nuova saggezza ed una nuova auctoritas. Quello che vediamo oggi in modo oscuro, come in uno specchio, lo vedremo faccia a faccia.


    Questo post è una sintesi di un post più lungo intitolato "Tertulliano non credeva agli allunaggi" pubblicato su "Effetto Cassandra" nel Marzo 2011. Ringrazio Ludovico Pernazza per una correzione al testo



    mercoledì 12 ottobre 2011

    La maledizione di Cassandra: come sono stati demonizzati “I Limiti dello Sviluppo”

     

    Come parte di una mini-serie sui “Limiti dello Sviluppo” (i post precedenti qui , qui e qui ) ripropongo (con qualche lieve modifica) un post che ho pubblicato su “The Oil Drum” nel marzo 2008. Sopra: un'immagine da un vaso rosso di Atene del quinto secolo avanti Cristo dove vediamo la profetessa Cassandra mentre cade vittima del normale destino di coloro che dicono verità scomode. (Traduzione dall'inglese di Massimiliano Rupalti)


    Nel 1972, lo studio “I Limiti dello Sviluppo” è arrivato in un mondo che aveva conosciuto più di due decenni di crescita ininterrotta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Era un periodo di ottimismo e fede nel progresso tecnologico che, forse, non è mai stato così forte nella storia dell'umanità. Con l'energia nucleare in espansione, senza nessun segno di scarsità delle risorse minerali e con la popolazione in crescita rapida, sembrava che i limiti dello sviluppo, se mai fossero esistiti, erano così lontani nel futuro che non c'era alcun motivo di preoccuparsene. E, anche se questi limiti erano più vicini di quanto si credesse generalmente, non avevamo forse la tecnologia che ci avrebbe salvati? Se potevamo raggiungere la Luna, come abbiamo fatto nel 1968, quale problema potevano essere inezie come l'esaurimento delle risorse e l'inquinamento? Il futuro non poteva che essere per sempre splendente.

    In contrasto con questo sentimento generale, i risultati de “I Limiti dello Sviluppo” sono stati uno shock. Il futuro non era affatto splendente come si riteneva. Gli autori avevano sviluppato un modello che poteva tener conto di un grande numero di variabili e delle loro interazioni quando il sistema cambiava con il tempo. Scoprirono che l'economia mondiale tendeva al collasso per il 21° secolo. Il collasso era causato da una combinazione di esaurimento di risorse, sovrappopolazione e crescente inquinamento (quest'ultimo elemento lo possiamo oggi vedere in relazione al riscaldamento globale). Solo misure specifiche volte ad arginare la crescita e a limitare la popolazione potevano evitare il collasso.

    C'è una leggenda persistente sul primo libro dei “Limiti” che vuole che sia stato ridicolizzato come un'ovvia ciarlataneria subito dopo la sua pubblicazione. Non è vero. Lo studio è stato dibattuto e criticato, com'è normale per una nuova teoria o idea. Ma provocò un'enorme interesse e ne sono state vendute milioni di copie. Evidentemente, nonostante il generale ottimismo del tempo, lo studio aveva dato visibilità ad un sentire che non veniva espresso spesso ma che era nella mente di tutti. Possiamo veramente crescere per sempre? E se non possiamo, quanto a lungo durerà la crescita? Lo studio forniva una risposta a queste domande; una risposta non piacevole, ma tuttavia una risposta.

    Lo studio I Limiti dello Sviluppo aveva tutto il necessario per diventare un grande passo avanti nella scienza. Proveniva da un'istituzione prestigiosa come l'MIT; era sponsorizzata da un gruppo di intellettuali influenti e brillanti, il Club di Roma; usava le più moderne ed avanzate tecniche di computazione e, infine, gli eventi che hanno avuto luogo pochi anni dopo la pubblicazione, la grande crisi petrolifera degli anni 70, sembravano confermare la visione degli autori. Tuttavia, lo studio non generò ulteriori ricerche e, un paio di decenni dopo la pubblicazione, l'opinione generale sul libro era completamente cambiata. Lontano dall'essere considerato la rivoluzione scientifica del secolo, negli anni 90 i Limiti dello Sviluppo erano diventati lo zimbello di tutti: niente di più che il ruminare di un gruppo di eccentrici (e probabilmente un po' toccati) professori che avevano realmente pensato che la fine del mondo fosse vicina. Per farla breve, dei menagramo con un computer.

    Il rovesciarsi delle fortune de “I Limiti dello Sviluppo” è stato graduale ed ha innescato un dibattito durato decenni. All'inizio, i critici reagirono con poco più che una serie di dichiarazioni di discredito. Solo pochi scritti iniziali hanno portato le critiche ad un livello più profondo, in particolare da William Nordhaus e da un gruppo di ricercatori dell'università del Sussex che andava sotto il nome di “Gruppo del Sussex” (Cole, 1973). Entrambi gli studi hanno sollevato un numero di punti interessanti ma hanno fallito nel loro tentativo di dimostrare che lo studio dei Limiti fosse viziato nei suoi presupposti di base. Già questi primi testi di Nordhaus e del Gruppo del Sussex, mostravano una vena di astio che è diventata comune nel dibattito da parte dei critici. Le critiche politiche, gli attacchi personali e gli insulti, così come la rottura delle regole di base del dibattito scientifico. Per esempio, l'editore della rivista che aveva pubblicato il saggio di Nordhaus che attaccava i “Limiti”, rifiutò di pubblicare una smentita.

    Col tempo, il dibattito sul libro virava sempre di più su un piano politico, Nel 1997, l'economista italiano Giorgio Nebbia notava che la reazione contro lo studio stava arrivando da almeno quattro fronti diversi. Uno era costituito da coloro che vedevano il libro come una minaccia alla crescita dei loro affari e industrie. Un secondo da economisti professionisti, che lo vedevano come minaccia al loro predominio come consulenti in materie economiche. La Chiesa Cattolica forniva ulteriori munizioni ai critici, essendo colpita dalla conclusione che la sovrappopolazione era una delle maggiori cause dei problemi. Poi la sinistra politica, nel mondo occidentale, vedeva lo studio come una truffa della classe dominante, progettata per fregare i lavoratori facendo loro credere che il paradiso proletario non era un obbiettivo pratico. E questa è chiaramente un lista incompleta; dimentica la destra politica, coloro che credono in una crescita infinita, politici in cerca di soluzioni facili a tutti i problemi e molti altri. Tutti insieme, questi gruppi hanno costituito una coalizione formidabile che ha garantito una forte reazione contro lo studio dei Limiti dello Sviluppo. Questa reazione alla fine è riuscita a demolire lo studio agli occhi della maggioranza del pubblico e degli specialisti allo stesso tempo.

    La caduta dei Limiti dello Sviluppo è stata grandemente aiutata da un fattore che inizialmente aveva rafforzato la credibilità dello studio: la crisi petrolifera mondiale degli anni 70. La crisi ha raggiunto il picco nel 1979 ma, negli anni seguenti, nuove risorse petrolifere cominciavano a fluire abbondantemente dal Mare del Nord e dall'Arabia Saudita. Con i prezzi del petrolio che precipitavano, a molti è sembrato che la crisi fosse stata nient'altro che un imbroglio; il tentativo fallito di un gruppo di sceicchi fanatici di dominare il mondo usando il petrolio come arma. Il petrolio, sembrava, era, ed era sempre stato, abbondante ed era destinato a rimanere tale per sempre. Con il collasso dell'Unione Sovietica nel 1991 e l'apparire della “New Economy”, tutte le preoccupazioni sembravano essere finite. La storia era finita, e tutto quello che avevamo bisogno di fare era di rilassarci e di godere i frutti che la nostra scienza e la nostra tecnologia ci stavano fornendo.

    A questo punto, un effetto perverso ha cominciato ad operare nella mente della gente. Nei tardi anni 80, tutto ciò che ci si ricordava del libro dei Limiti dello Sviluppo, pubblicato quasi due decenni prima, era che avesse predetto una qualche catastrofe in qualche momento nel futuro. Se la crisi petrolifera mondiale dovesse essere quella catastrofe, come era sembrato a molti, il fatto che questa fosse terminata era la confutazione della predizione stessa. Questo fattore ha avuto un grande effetto nella percezione della gente.

    Il cambiamento dell'atteggiamento è stato graduale ed è durato qualche anno, ma possiamo probabilmente identificare una data ed un autore come vero punto di svolta. E' accaduto nel 1989, quando Ronald Bailey, editore scientifico del magazine Forbes, pubblicava un attacco sarcastico (Bailey 1989) contro Jay Forrester, il padre della Dinamica dei Sistemi, il metodo usato nello studio dei Limiti. L'attacco è stato diretto anche al libro che, diceva Bailey, era “tanto pervicace quanto è possibile esserlo”. Per provare il suo punto di vista, Bailey riprese un'osservazione che era già stata fatta da un gruppo di economisti sul “New York Times” (Passel 1972). Bailey diceva che: “I Limiti dello Sviluppo” predicevano che ai tassi di crescita del 1972 il mondo avrebbe finito l'oro nel 1981, il mercurio nel 1985, lo stagno nel 1987, lo zinco nel 1990, il petrolio nel 1992il rame, il piombo ed il gas naturale nel 1993”.

    Nel 1993 Bailey ha ripetuto le sue accuse nel libro intitolato “Ecoscam” (Ecotruffe). Questa volta era in grado di sostenere che nessuna predizione dello studio dei Limiti è risultata essere corretta.
    Naturalmente, le accuse di Bailey sono semplicemente sbagliate. Quello che aveva fatto è stato di estrapolare un frammento dal testo del libro e criticarlo fuori contesto. Nella tavola 4 del secondo capitolo del libro, aveva trovato una serie di dati (colonna 2) sulla durata, espressa in anni, di alcune risorse minerali. Ha presentato quei dati come le sole “predizioni” che lo studio avesse fatto ed ha basato le sue critiche su questo, ignorando completamente il resto del libro.

    Ridurre un libro di oltre cento pagine a pochi numeri non è il solo errore delle critiche di Bailey. Il fatto è che nessuno di questi numeri che ha selezionato erano una predizione e da nessuna parte nel libro si sosteneva che questi numeri fossero da leggersi come tali. La tavola 4 era lì solo per illustrare l'effetto di un'ipotetica continua crescita esponenziale nello sfruttamento delle risorse minerali. Anche senza preoccuparsi di leggere l'intero libro, il testo del capitolo 2 affermava chiaramente che una crescita esponenziale continuata non era una cosa che ci si aspettava. Il resto del libro, poi, mostrava vari scenari di collasso economico che in nessun caso si sarebbero verificati prima dei primi decenni del 21° secolo.

    Sarebbe bastato un piccolo sforzo per smascherare le dichiarazioni di Bailey. Ma sembrava che, nonostante i milioni di copie vendute, tutti i “Limiti dello Sviluppo” fossero finiti nel bidone della spazzatura. Le critiche di Bailey hanno avuto successo ed hanno cominciato a comportarsi con tutte le caratteristiche proprie a quelle che oggi definiamo “Leggende Metropolitane”.

    Tutti sappiamo quanto possano essere persistenti le leggende metropolitane, non importa quanto siano sciocche. Al tempo dell'articolo di Bailey, Internet come la conosciamo non esisteva ancora, ma il passaparola e la stampa sono state sufficienti a diffondere e moltiplicare la storia delle “predizioni sbagliate”. Tanto per fare un esempio, vediamo come il testo di Bailey è persino arrivato alla letteratura scientifica. Nel 1993, William Nordhaus ha pubblicato un saggio intitolato “Modelli Letali” che intendeva rispondere alla seconda versione dei “Limiti”, pubblicata nel 1992 con il titolo “Oltre i Limiti”. Il saggio di Nordhaus era accompagnato da una serie di testi di vari autori raggruppati sotto il titolo di “Commenti e Discussioni”. Una definizione migliore di quella sezione sarebbe stata “alimentare il furore”, come la critica di questo gruppo di economisti accademici chiaramente andati fuori controllo. Fra questi testi, ne troviamo uno di Robert Stavings, un economista dell'Università di Harvard, dove possiamo leggere questo: "Se controlliamo oggi come le predizioni del primo Limiti si sono rivelate, apprendiamo che (secondo le loro stime) oro, argento, mercurio, zinco e piombo dovrebbero essere completamente esauriti ed il gas naturale finire entro i prossimi otto anni. Naturalmente, questo non è accaduto”. Tutto questo, ovviamente, è preso direttamente dal saggio di Bailey su Forbes. Apparentemente, l'eccitazione di una sessione di “Tiro ai Limiti” ha portato Stavings a dimenticare che è dovere di ogni scienziato serio controllare l'affidabilità delle fonti che cita.

    Sfortunatamente, con questo saggio di Nordhaus, la leggenda delle “predizioni sbagliate” è stata consacrata anche in una seria rivista scientifica. Con gli anni 90, ed in particolare con lo sviluppo di Internet, la diga è crollata ed una vera alluvione di critiche ha sommerso il libro ed i suoi autori. Uno dopo l'altro scienziati, giornalisti e chiunque si sentisse titolato nel trattare l'argomento, hanno cominciato a ripetere la stessa cosa più e più volte: lo studio dei “Limiti dello Sviluppo” ha predetto una catastrofe che non è avvenuta e per questo tutta l'idea era sbagliata. Dopo un po', il concetto di “predizione sbagliata” è diventato così diffuso che non era più necessario argomentare nei dettagli quali fossero queste predizioni sbagliate. Le critiche potevano anche essere grottesche, come quando gli autori sono stati accusati di far parte di una cospirazione progettata per creare “una sorta di fanatica dittatura militare” (Gloub e Townsens, 1977) o aggressive, come quando qualcuno ha dichiarato che gli autori del libro avrebbero dovuto essere uccisi, fatti a pezzi e i loro organi spediti alle banche degli organi. Oggi possiamo trovare la leggenda di Bailey ripetuta su Internet migliaia di volte in varie forme. A volte è proprio lo stesso testo, copincollato così com'è; altre volte è solo leggermente modificato.

    A questo punto, ci potremmo chiedere se questa onda di calunnie è nata spontaneamente, come risultato del normale meccanismo delle leggende metropolitane, oppure è stata guidata da qualcuno. Possiamo pensare ad una cospirazione organizzata contro gli autori dei Limiti o contro i loro sponsor, il Club di Roma? Su questo punto possiamo cercare un'analogia con un caso precedente; quello di Rachel Carson, famosa per il suo libro del 1962 “Primavera Silenziosa”, in cui criticava l'abuso di DDT ed altri pesticidi. Anche il libro della Carson è stato fortemente criticato e demonizzato. Kimm Groshong ha rivisto la storia e ci dice, nel suo studio del 2002 che:

    I verbali di un incontro della Manufacturing Chemists' Association, Inc. dell'8 maggio 1962,
    mostrano questa posizione curiosa. Discutendo la questione di cosa era scritto nella
    serializzazione della Carson sul New Yorker, le note ufficiali riportano: ' L'Associazione tiene
    in seria considerazione la questione ed un incontro del Comitato per la Pubbliche Relazioni ha
    programmato per il 10 Agosto di discutere misure che dovrebbero essere prese per riportare la
    questione nella giusta prospettiva agli occhi del pubblico “.

    Se possiamo chiamare questo “cospirazione” è discutibile, ma è chiaro che c'è stato uno sforzo organizzato da parte dell'industria chimica contro le idee di Rachel Carson. Per analogia, potremmo pensare che, in qualche stanza fumosa, i rappresentanti dell'industria mondiale si siano riuniti nei primi anni 70 per decidere quali misure prendere contro i Limiti dello Sviluppo in modo da “riportare la questione nella giusta prospettiva agli occhi del pubblico”. La storia recente della campagna contro la scienza del clima, come raccontato da Hoggan e Littlemore (2010) e da Oreskes e Conway (2010), ci dice che questo genere di cose sono accadute ed accadono ancora. Non abbiamo dati che indichino che qualcosa del genere è accaduto per “I Limiti dello sviluppo”, ma potrebbe essere proprio così. E' chiaro, comunque, che le tecniche di propaganda funzionano, perché giocano sulle naturali tendenze della mente umana. L'articolo del 1989 di Ronald Bailey ed altri attacchi non erano altro che catalizzatori che hanno scatenato la nostra tendenza a credere a ciò che vogliamo credere e a non credere a ciò che non vogliamo credere. Non ci piacciono le verità scomode.

    Ora, nei primi anni del 21° secolo, sembra che l'attitudine generale nei confronti dei concetti di “Limiti” stia di nuovo cambiando. La guerra, dopo tutto, è vinta da chi vince l'ultima battaglia. Uno dei primi casi di rivalutazione dello studio dei Limiti è stato quello di Matthew Simmons (2000), esperto di risorse di petrolio greggio. Sembra che il “movimento del picco del petrolio” sia stato strumentale nel riportare l'attenzione sullo studio dei Limiti (Bardi 2008). Anche gli studi sul clima hanno riportato i limiti delle risorse all'attenzione; in questo caso intesi come la capacità limitata dell'atmosfera di assorbire i prodotti delle attività umane.

    Ma non è scontato che una certa visione del mondo, una che tenga in considerazione la quantità finita di risorse, stia diventando prevalente o anche solo rispettabile. Il successo della campagna denigratoria degli anni 80 mostra il potere della propaganda e delle leggende metropolitane nel formare la percezione del mondo da parte della gente, sfruttando l'innata tendenza di rifiutare le cattive notizie. A causa della nostra tendenza a non credere alle cattive notizie, abbiamo scelto di ignorare gli avvertimenti di un collasso imminente che viene dallo studio dei Limiti. Facendo questo, abbiamo perso più di trenta anni. Oggi, stiamo ignorando gli avvertimenti che giungono dalla scienza del clima e potremmo fare un errore anche peggiore. Ci sono segni che fanno pensare che potremmo cominciare a considerare questi avvertimenti, ma facciamo ancora troppo poco e troppo tardi. La maledizione di Cassandra è ancora su di noi.

    Per saperne di più su questo tema, potete leggere il mio libro "The Limits to Growth Revisited"



    Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti

    sabato 8 ottobre 2011

    Il perché di tanto spreco

    Di Antonio Turiel

    (Pubblicato il 20 Settembre su "The Oil Crash")



    Guest post di Antonio Turiel - Traduzione dallo  spagnolo di Massimiliano Rupalti

    Cari lettori,

    c'è un argomento ricorrente nelle ultime discussioni ed ha a che fare con la possibilità di mantenere una società stabile e vivibile diminuendo volontariamente i consumi. Una tale affermazione è innegabilmente certa: dico sempre che è ridicolo parlare di scarsità di energia mentre nel mondo si consumano 85 milioni di barili al giorno di petrolio da 159 litri ciascuno; pensateci, sono più di 156.000 litri al secondo in tutto il pianeta e ciascun litro di questo magico elisir contiene la stessa energia che un uomo sano e forte (circa 100 watt di potenza media) potrebbe produrre lavorando senza sosta per quasi 4 giorni e mezzo (per circa 106 ore). 

    Insomma, il mostruoso flusso di energia che arriva solo dal petrolio nel pianeta equivale al lavoro quotidiano di 60 miliardi di nerboruti schiavi energetici di quelli da 100 watt per unità: 8 e mezzo per ogni abitante di questo pianeta e questo solo di petrolio (dato che il consumo globale di energia primaria è di 14 Tw di media mondiale, contando tutte le fonti è di 20 schiavi energetici a persona; la media europea arriva a 45 schiavi energetici a testa, mentre negli Stati Uniti la media fa 120). Giudicate Voi, ora, se si può parlare di scarsità di energia con questi numeri, soprattutto tenendo conto di come si spreca l'energia.

    E comunque si sta verificando una situazione di scarsità. Questa scarsità non è tecnica, come tante volte si è discusso nel blog, né è materiale (perché anche se in futuro ci sarà meno energia ne abbiamo così tanta che potremmo gestire una lenta discesa fino ad arrivare ad una stabile base rinnovabile; con un consumo di uno o due ordini di grandezza inferiori di quello attuale, quello sì). Il problema della scarsità viene dal fatto che energia ed economia sono intimamente legate, e pretendere di vedere le due variabili separatamente, fino al punto di cercare di risolvere i due problemi uno indipendentemente dall'altro, impedisce di vedere la profondità dell'abisso al quale, come società globalizzata (e non solo occidentale) stiamo arrivando.

    Nell'articolo che segue spiegherò alcuni concetti che mostrano fino a che punto non possiamo scindere energia ed economia nella nostra società e come pretendere di risolvere il problema energetico, senza prima cambiare il sistema economico, sia un'impresa destinata inevitabilmente al fallimento. Non dimostrerò nulla in concreto né quantificherò in modo preciso il bilancio economico-energetico delle transazioni umane descritte; provo solo, per mezzo di alcuni casi ed esempi, a farvi comprendere quanto sia necessaria una trattazione olistica di questo argomento e come le tipiche soluzioni semplici di risparmio ed efficienza che si propongono, dai bar di paese alle più alte cariche dello Stato, peccano di una scarsa lungimiranza che le rende inutili, se non controproducenti, nella pratica.

    Una prima questione di cui tenere conto, commentata di frequente in ambienti picchisti, è il Paradosso di Jevons. Per coloro che non conoscono la storia, William Stanley Jevons, lord inglese che è vissuto a cavallo fra due secoli, ha osservato che, nel 19° secolo, nella misura in cui si introducevano miglioramenti nelle macchine a vapore aumentandone l'efficienza, il consumo di carbone aumentava al posto di diminuire come si sperava accadesse. La ragione è che si produce ciò che in economia è chiamato effetto rimbalzo: se diminuisce il costo di un prodotto (costo in denaro o energia) senza modificare altri fattori, risulta che si stia dando un incentivo a consumare di più questo prodotto, se il suo maggior consumo ci da un vantaggio, cosicché con lo stesso reddito a disposizione possiamo consumare di più; peggio ancora, chi prima non poteva accedere a questo consumo perché aveva un reddito insufficiente, ora potrà farlo. Naturalmente l'effetto rimbalzo non è solito influenzare aree dove non c'è un guadagno reale per il maggior consumo del prodotto (per esempio, non è certo che se sostituiamo le lampadine con altre a maggior efficienza si stia creando
    di per sé la tendenza a mettere più lampadine; se si compra di più è per altri motivi), però il rimbalzo è presente ed è molto determinante per l'acquisizione di beni di investimento destinati alla produzione di beni e servizi, vale a dire, alla attività economica. Si deve comprendere, pertanto, che il ripetuto richiamo al miglioramento dell'efficienza è controproducente se non è accompagnato da altre misure, perché al posto di stimolare a consumare meno, si stimola a consumare di più. Un esempio: se un'automobile consuma 20 litri per 100 chilometri e la benzina è cara, meno gente comprerà un'automobile, ma se la stessa automobile consumasse 5 litri ogni 100 chilometri, automaticamente una maggior quantità di gente considererà una buona idea comprarsi il veicolo. 

    La realtà è piena di esempi simili in cui i miglioramenti nell'efficienza in generale (non solo energetica) e non solo degli elettrodomestici, ma dei mezzi di produzione, ha fatto esplodere il consumo di molti prodotti (chi pensava di comprasi un computer 30 anni fa?). Il problema è che le misure che dovrebbero accompagnare i miglioramenti nell'efficienza dovrebbero essere misure di pianificazione, di razionamento. Il problema del razionamento lo abbiamo già commentato su queste pagine: se si tenta di renderlo compatibile con un'economia di mercato, o anche in sua assenza, si dà origine ad un mercato nero che può destabilizzare il sistema favorendo la crescita di mafie che finiscono per fagocitare lo Stato, nei casi estremi. Eppure sapete già che il governo britannico, che sta prestando più attenzione di altri al problema del Picco del Petrolio, ha considerato la possibilità di introdurre dei protocolli di razionamento dell'energià. Sia come sia, l'efficienza ha senso solo se si limita l'accesso alle materie prime dall'alto e questo si sposa male con la nostra economia di libero mercato. Inoltre, l'aumento di efficienza implica una diminuzione del costo di produzione (costo energetico ed anche costo economico) così il valore del prodotto effettivamente non aumenta. Vale a dire, con una limitazione di accesso alle risorse al migliorare dell'efficienza, si forniscono più beni e servizi ma semplicemente perché il costo unitario (economico e di risorse) degli stessi diminuisce. Essenzialmente, un'economia del genere non cresce. E non crescere, ora lo vedremo, è un veleno per il nostro sistema economico.

    Un'altra possibilità che viene solitamente commentata, ed è quella a cui si è abbonato il commentatore Dario Duarte su "The Oil Crash", è quella che con un'adeguata consapevolezza sociale si può risparmiare tantissimo e così posticipare il collasso mentre la società si adatta ad una nuova realtà di risorse materiali più scarse. Siamo tutti coscienti del fatto che nella nostra società occidentale si spreca tantissimo. Buttiamo il cibo in buono stato che serve solo ad ingrassare i parassiti delle discariche, usiamo l'acqua senza senso, cambiamo continuamente i nostri vestiti, il cellulare, l'automobile... in Spagna c'è stata un'epoca non tanto lontana in cui quasi ci eravamo abituati a cambiare casa di continuo.
    Non abbiamo bisogno di tanto, senza dubbio. Probabilmente con la decima parte, anche la centesima parte di quello che abbiamo ora, potremmo avere una vita degna e funzionalmente molto simile a quella attuale. Risparmieremmo le risorse essenziali e sarebbe persino conveniente per noi costruire un sistema di energie rinnovabili su questa scala e, in quanto al resto delle materie prime, aggiunto alla decrescita del consumo, con il loro riciclaggio integrale potremmo posticipare i problemi di esaurimento di vari millenni, mentre apprendiamo a sintetizzare materiali efficaci dal carbonio e da altri atomi abbondanti. 

    Insomma, è un sentiero chiaro e veloce verso la soluzione, per evitare con sicurezza qualsiasi rischio di degrado sociale e di caos. Ma, perché non lo seguiamo? Semplicemente, perché non possiamo. Non è possibile smettere di consumare a questo ritmo ed è necessario consumare a un ritmo crescente. E' una necessità del sistema finanziario. Senza questo consumo crescente una massa, che finirebbe per essere maggioritaria, si troverebbe senza lavoro e senza mezzi di sussistenza e, dato il modello del debito e della proprietà privata che abbiamo, senza una totale sovversione dell'ordine imperante, senza una rivoluzione con cui la gente prende con la forza le proprietà ed il potere, il destino di tutta questa gente è quello di agonizzare e morire. Può sembrare stupido, però di fatto è qualcosa che si è ripetuto nella storia dell'Umanità: Jared Diamond lo commenta nel suo libro “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”. Sappiamo che 26 antiche civiltà sono collassate perché non sono riuscite a trovare un modello alternativo per gestire le proprie risorse, in alcuni casi per mancanza di immaginazione per essersi chiuse nel proprio Business As Usual, il proprio BAU; morirono per la diminuzione delle risorse disponibili ma non per mancanza di risorse propriamente dette. Un caso paradigmatico è quello dei Maya dello Yucatàn, che si imbarcarono in una serie di guerre di dominio senza avere risorse sufficienti per sostenerle (fondamentalmente mais, nel loro caso) ed infine collassarono fino a scomparire da quelle terre anche se il territorio era ancora in grado di sostenere una popolazione simile a quella che ha collassato. E' che con la guerra si era consumato tutto il mais e si erano distrutte opere di irrigazione fondamentali per mantenere una buona produttività, di conseguenza i combattenti non sono riusciti ad arrivare al successivo, e più esiguo, raccolto. La nostra situazione è simile a quella dei Maya? Vediamo alcuni esempi illustrativi.

    In una recente conferenza a Barbastro, un difensore delle soluzioni di stampo solo tecnologico al nostro problema di sostenibilità sosteneva che in Spagna ogni persona consuma in media 20 chili di vestiti ogni anno. Una quantità che considerava smisurata e se, invece di dedicare tante risorse materiali ed energetiche a questa produzione, una spesa ben frivola, si destinassero a preparare la transizione tutto sarebbe molto più facile. Tuttavia, colui che proponeva questa idea (simile, detto en passant, ad altre che centrano le loro critiche su altre attività più o meno crematistiche, che sono la regola nella nostra società) non teneva in conto che se di colpo in Spagna (ma neanche in Italia e nel Mondo NdT) si passasse dal consumare 20 chili di vestiti a persona e l'anno dopo, poniamo, 1 solo e frugale chilo, ci ritroveremmo col fatto che il 95% della produzione attuale delle ditte tessili che operano nel nostro paese tenderebbe a scomparire. Che liberazione di risorse, penserete, però sicuramente implicherebbe il fallimento e la scomparsa del 95% di queste imprese (bene, dei loro affari in Spagna – o Italia -) ed il 95% dei loro impiegati sarebbero messi per strada. Inoltre, sarebbero messi per strada il 95% degli impiegati nel settore logistico e dei negozi di vestiti ed i reparti di confezioni dei grandi magazzini si ridurrebbero del 95%. Questo sarebbe solo l'impatto diretto di questa caduta del consumo, ma poi si deve mettere in conto l'indotto: questo 95% o più di diminuzione delle tasse che incasserebbe lo Stato dai settori colpiti; la perdita del 95% dei clienti dei bar che si trovano nelle strade commerciali, la diminuzione della vendita di altri beni e servizi dovuti all'ingresso nella lista di disoccupazione di tutti questi contingenti; i quali, inoltre, si suppone saranno un costo ulteriore per lo Stato che, oltre a diminuire gli introiti, aumenta le spese e, pertanto, deve tagliare da altre attività, generando più disoccupazione e più contrazione economica nei settori ausiliari colpiti. Alla fine è ovvio che un cambiamento simile non si può fare dalla sera alla mattina, poiché rischierebbe di fare un danno anche maggiore. Essenzialmente, il nostro sistema economico è un obeso patologico con la pressione altissima, la cui vita è in pericolo ma che non si può far dimagrire troppo rapidamente per non correre il rischio di indurre degli scompensi che lo ucciderebbero ugualmente.

    Quindi lo dobbiamo far dimagrire a poco a poco e nel frattempo andiamo a sgonfiare i costi superflui ed a investire in quelli essenziali. E quali sono quelli essenziali, direte voi? Be', investire in rinnovabili, orti... Il problema è che non potete sperare che questo cambiamento avvenga spontaneamente; abbiamo già spiegato che ad un certo punto investire in rinnovabili non sarà redditizio secondo i criteri economici standard, e che di fatto le rinnovabili non possono risolvere la crisi energetica come si sta pianificando con la loro installazione. Siccome non si possono obbligare gli investitori a spendere il loro denaro in qualcosa che ora come ora non percepiscono come redditizia, lo Stato non ha denaro nemmeno per sovvenzionarne l'implementazione (non diciamo a finanziarla). Il fatto è che non si finanziano le attività fondamentali per il cambiamento del modello produttivo, economico e sociale. E per quando sarà evidente che è necessario farlo, il livello di degrado del mercato sarà tanto alto che mancheranno i capitali ed alcuni materiali di consumo di base, e per questo sarà un'impresa difficile e dolorosa, se non addirittura impossibile.

    Siamo franchi: non c'è una scommessa vera sul cambiamento del sistema. Sì, si comincia ad investire qualcosa in energia rinnovabile, ma con criteri di redditività classici. Cosa ripetono i gestori degli investimenti in rinnovabili? Che devono migliorare tecnologicamente perché i costi si abbassino e siano redditizie. E quando dicono redditizie non intendono dire che coprano i costi, no; quello che intendono dire è che devono avere dei tempi di rientro dell'investimento di pochi anni e che il rendimento sia almeno del 5% all'anno. Insomma, non si vuole giocare ad altro gioco che non sia il “BAU” di sempre, non si accetta il fatto che le regole siano cambiate e si cerca di forzare la Termodinamica per far sì che le rinnovabili rendano in funzione di queste cifre che ho appena citato. Ma la Termodinamica è cocciuta...

    Qual è, quindi, la realtà dello schema che si segue? Quella di provare ad aumentare i consumi, non di ridurli. Vi ricordate? All'inizio di questa crisi si diceva che consumare è patriottico; lo ha detto Gordon Brown, allora primo ministro del Regno Unito. E' che senza aumento dei consumi non c'è crescita economica e senza crescita economica non si possono pagare i debiti. E cosa credete che succederà adesso che stiamo entrando in una nuova onda recessiva? Poiché con più problemi di debiti che non possiamo pagare e, soprattutto, il debito sulle spalle, difficilmente andiamo a pensare di smantellare le attività più o meno redditizie a favore di altre che lo sono molto meno. Sapete quante volte ho sentito che con la crisi che abbiamo non è il momento di investire in energia verde, che lo si farà poi, superata la crisi?

    Non si può farne una colpa, è logico, non sono redditizie. Quando si supererà la crisi, dicono, quando finirà questa crisi che non finirà mai. Così è facile capire perché io creda che da questa spirale di degrado economico se ne possa uscire solo con un'esplosione sociale, solo con una rivoluzione. Oppure con il collasso.
     
    Saluti.

    Antonio Turiel

     


    giovedì 6 ottobre 2011

    Steve Jobs: dopo la "Lettera 22"


    Mi raccontava mia nonna che per lei la grande rivoluzione è stata quando successe che bastava premere un'interruttore per illuminare una stanza. Niente più lampade a petrolio o a gas, solo un aggeggetto appiccicato al muro da premere e una lampadina precariamente oscillante, sospesa dal soffitto.

    Per me, il momento della rivoluzione è stato quando ho scoperto che per cancellare una parola scritta bastava premere "backspace". Niente più le laboriose sbanchettature con le vecchie macchine da scrivere; mi ricordo ancora (e ce l'ho ancora) la vecchia Olivetti "Lettera 22" con la quale ho scritto la mia tesi di laurea. E mi ricordo ancora la pena delle correzioni fatte a mano, una per una col bianchetto, in una nottata insonne prima della discussione della tesi.

    Se Steve Jobs sta in Paradiso, ora, credo che se lo meriti se non altro per quel favoloso word processor che girava sull'Apple II negli anni '80. Il primo word processor veramente funzionale disponibile, una piccola rivoluzione che maneggiava il testo con grande facilità e praticità. Mi ricordo ancora le parole scritte in verde brillante sullo sfondo dello schermo nero. Era fantastico; un altro mondo.

    Non la sola rivoluzione digitale che abbiamo vissuto in questi anni; ne abbiamo avute molte altre e ne avremo ancora. Il problema è che alla tastiera ci siamo sempre e soltanto gli stessi noi, con le nostre ossessioni, le nostre follie, le nostre pazzie. Vedremo dove ci porteranno.

    martedì 4 ottobre 2011

    La sconfitta dei glacialisti


    La figura con la quale Stefano Caserini dimostra che i cicli solari sessantennali proposti da Nicola Scafetta non spiegano l'andamento delle temperature terrestri con il pallino rosso che indica gli ultimi dati disponibili (da Climalteranti)


    Ci racconta Stefano Caserini su "Climalteranti,"del dibattito sull'origine dei cambiamenti climatici che ha avuto recentemente con Nicola Scafetta sulla rivista "Normale", periodico dell'associazione dei normalisti di Pisa. Il dibattito si è concluso con la nettissima sconfitta di Scafetta e della sua tesi che il riscaldamento globale è causato principalmente da variazioni dell'attività solare e non dall'attività umana. Vale la pena di leggersi questo scambio se non altro per vedere come siano deboli gli argomenti dei glacialisti come Scafetta.

    Caserini comincia con una revisione di quello che si sa della scienza del clima. Scafetta risponde con la sua versione delle cose che si basa su un ipotetico ciclo solare di 60 anni che lui estrae dai dati attraverso un massaggio statistico spinto. Purtroppo per Scafetta, tuttavia, vale la vecchia massima che "se torturi i dati a sufficienza, finiranno per confessare." Nella sua risposta, Caserini procede a demolire alla base tutte le affermazioni di Scafetta, mostrando come siano basate su dati parziali, su leggende e su interpretazioni azzardate. Fra le altre cose, Caserini fa vedere un grafico dove si dimostra che l'accordo delle tempeature misurate con i cicli di Scafetta sparisce con i risultati più recenti. Questo è tipico di quello che succede quando si descrivono i dati sulla base di un modello che non ha una buona base fisica. L'accordo sembra buono, inizialmente, ma quando arrivano nuovi dati, non lo è più.

    La cosa veramente interessante di questo dibattito è la controrisposta finale di Scafetta. Di fronte alla demolizione dei suoi argomenti da parte di Caserini, non riesce a tirar fuori un dato che sia uno a sostegno della sua tesi. E' costretto a rifugiarsi nel discorso che "i modelli sono incerti" per poi lanciarsi nella politica. Cita il Climategate, il complotto degli scienziati contro il dissenso, i ghiacciai dell'Himalaya che si ritirano meno di quanto abbia scritto l'IPCC, eccetera. Si vede chiaramente che Scafetta non sa che pesci pigliare, al punto che tira fuori anche cose che non c'entrano niente con il clima, come la produzione di terre rare in Cina (con tanto di riferimento bibliografico!). Insomma, sconfitta totale.

    Ora, su questa  faccenda direi che la rivista "Normale" non ha decisamente fatto una bella figura. Una ragione è stata quella di scegliere proprio questo formato "politico" di dibattito che non è molto adatto a una questione che dovrebbe essere affrontata in modo più serio e più scientifico. Fra le altre cose, gli editori  hanno dato un netto vantaggio a Scafetta, facendolo parlare dopo Caserini. Si sa benissimo che nei dibattiti quello che parla per ultimo è quello che ha ragione. Avete notato che nei telegiornali il governo parla sempre per ultimo? C'è una ragione. Va bene che Scafetta non e riuscito ad approfittare del vantaggio per via  dell'inconsistenza dei suoi argomenti, ma rimane comunque una scelta assai discutibile, per non dire altro. Da considerare inoltre che la rivista non è riuscita nemmeno a pubblicare il grafico corretto fornito da Caserini dove si vede come i dati sperimentali non seguono la teoria di Scafetta.

    Ma l'errore principale della rivista "Normale" è stata la scelta degli interlocutori. Scafetta è una persona competente nel suo campo, la statistica, ma non è un climatologo. Cosa avreste pensato se la rivista avesse organizzato un dibattito sulla cura del cancro dove un competente oncologo si trovasse a dibattere con un competente ingegnere aeronautico? L'avreste trovato strano, immagino. Questo non vuol dire che un ingegnere aeronautico non possa farsi una buona competenza in oncologia, ma bisogna che affronti il problema con serietà, senza pretendere che il fatto di essere competente nel proprio campo lo renda  automaticamente competente anche in altri campi. Questo è il grosso limite di Scafetta, che si è lanciato in un campo complesso come la scienza del clima senza averlo approfondirlo a sufficienza. E' anche il grosso limite di questi dibattiti che non servono ad altro che a creare confusione dando spazio ad argomentazioni che passano per scientifiche ma che sono soltanto politiche anche quelle. 


    domenica 2 ottobre 2011

    Riscaldamento Globale e percezione individuale

    Guest post di Silvano Molfese




    In genere quando si dice che la temperatura è alta o bassa, ci si riferisce alle proprie sensazioni di freddo o di caldo: è un meccanismo di difesa che serve a proteggere l’animale uomo. Recentemente il sito Climalteranti.it ha messo in evidenza i risvolti psicologici che spingono gli individui a negare il riscaldamento globale (Psicologia e cambiamenti climatici di Stefano Caserini). Escludendo le persone in malafede, è opportuno chiedersi cosa scatta nella mente della gente quando si parla di cambiamento climatico.

    Gli indicatori oggettivi (quantità di ghiacci, temperatura dell’aria, concentrazione di CO2, ecc.), seppur misurabili e confrontabili, sono esterni ai sensori naturali di cui disponiamo come specie animale e quindi risultano più lontani delle conoscenze scientifiche acquisite (che chiamerei indicatori artificiali).
    Infatti le persone fanno riferimento innanzitutto alla propria percezione di freddo/caldo che è un indice soggettivo (per l’appunto cambia da soggetto a soggetto), poi alle variabili meteorologiche, e dopo alla variazione climatica quando si parla di riscaldamento globale. (Chissà quanti conoscono la differenza tra meteorologia e climatologia).

    Per ogni persona la percezione caldo/freddo è condizionata da: temperatura, umidità relativa dell’aria, ventosità nonché dall’esposizione alla luce solare diretta. Inoltre c’è la variabilità tra individui: io ho caldo e tu stai bene (a parità di tutte le altre condizioni). A ciò si aggiunge l’elevata artificiosità degli ambienti in cui viviamo; case ed auto possono essere climatizzate: si vorrebbe vivere una costante primavera artificiale ed al contempo si vuol mantenere il vestiario primaverile. Questo comporta anche una differente percezione della temperatura quando usciamo di casa.

    Estate

    Esco da casa la mattina e, se vado a lavoro in un ambiente climatizzato, alla fine della giornata, per strada, vengo colpito da una calura molto fastidiosa, avverto un forte disagio e cerco il tragitto ombreggiato per raggiungere l’auto. Figurarsi poi se devo entrare nella macchina rimasta al sole. Pur con i dovuti accorgimenti, parasole e finestrini lasciati un po’ aperti, anche se spalanco gli sportelli per disperdere il calore, volante, sedili, ecc. sono bollenti: entrando in auto si è circondati dal caldo e la sudata è assicurata! (Diverso è se uso il climatizzatore prima di mettermi al volante: aggiungo un altro po’ di calore, CO2 e veleni nell’ambiente). Cosi, chi sente parlare di riscaldamento globale, si convincerebbe del cambiamento climatico.

    Inverno

    Molto spesso le case sono riscaldate da cima a fondo mentre una volta il fuoco serviva a non sentire freddo. La mattina uscendo da una casa ben riscaldata, se fuori è gelato, ci sono almeno 18 - 20° C di differenza, faccio due passi ed entro in macchina: avverto il gelo e accendo il riscaldamento; parcheggio e tengo un passo svelto per riscaldarmi: in ufficio il tepore è assicurato. Se leggo a titoli cubitali che  “Il CO2 sale: aumenta il riscaldamento globale” come minimo penserò: ma cosa dicono, fuori si gela è vero il contrario!! La nostra adattabilità è minore se maggiore è l’escursione termica e quanto più  repentini sono i passaggi caldo/freddo e viceversa.

    Dovremo ridurre l’emissione antropica di gas climalteranti perché un segnale molto forte è venuto dalla Russia: nel 2010 è andata in fumo la produzione agricola di quasi 10 milioni di ettari! Circa un terzo della superficie territoriale italiana. (1) Non solo; oltre alle elevate quantità di CO2 prodotte, questi estesi incendi hanno ridotto il contenuto di sostanza organica dei suoli agrari con futuri cali produttivi.  Dopo pochi mesi le fasce di popolazione più povere non avevano di ché sfamarsi e così buona parte di Medio Oriente e del Nord Africa sono entrati socialmente in fibrillazione per il rapido aumento delle pance vuote.

    Continuando di questo passo aumentano i pericoli di estese e più frequenti perdite agricole. Anche l’Italia sarà interessata da gravi danni alle produzioni agroalimentari: non è nascondendo il riscaldamento globale che si serve il Paese. (*)

    Sostituire il petrolio con le energie rinnovabili è condizione necessaria ma non sufficiente; è necessario un cambio di paradigma: dal prossimo inverno possiamo iniziare a ridurre i consumi di combustibili fossili per esempio abbandonando le mode energivore indossando una maglia in più per mantenersi caldi. Prepariamoci.



    (*) Ho parafrasato A. Marescalchi citato da Marino Ruzzenenti in “Autarchia verde”, pag. 103.

    (1) K. Russel e L. Mastny,  2011. State of the World 2011: Un anno in rassegna. Ed. Ambiente, 53-59.

    Con il suo libro, “Prepariamoci”, Luca Mercalli invita anche i cittadini ad essere artefici del risparmio energetico in prima persona.