venerdì 23 dicembre 2011

La saga dei minatori


 La morte di John Henry, mitico “steel driving man” che sfidò e vinse la macchina a vapore, ma ne fu sconfitto a sua volta. Un quadro di Palmer Hayden (1890-1973)



Dal mio libro "La Terra Svuotata" (Editori Riuniti, 2011), vi passo alcune considerazioni sul futuro dell'uomo; non troppo ottimistiche ma nemmeno tanto pessimistiche.
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John Henry was a little baby boy
Sitting on his mama's knees
When he took up a hammer
And a little piece of steel
He said, “this hammer is gonna be the death of me, Lord, Lord!”


John Henry era un ragazzino
Seduto sulle ginocchia della mamma
Quando prese in mano un martello
E un pezzettino di acciaio
Disse, “questo martello sarà la mia morte, Signore, Signore!”


Canzone popolare americana del secolo XIX


Nella letteratura che ci descrive millenni di storia umana leggiamo di guerrieri, condottieri, esploratori, poeti e tante altre figure gloriose. Poco o nulla ci viene detto di quelli che hanno fornito ferro per le spade e gli scudi dei guerrieri, oro per condottieri e gioielli per le dame che i poeti hanno cantato. Della storia di questa schiera di minatori, poco è rimasto di scritto, fra quel poco, un frammento è la canzone di John Henry, il cui lavoro era di piantare sbarre d'acciaio a martellate nella roccia; perforandola quel tanto che bastava per poi infilarci dentro un candelotto di dinamite. Come tante storie drammatiche, anche questa non è a lieto fine. John Henry sfidò lo “steam drill”, il martello pneumatico a vapore, riuscendo a sconfiggerlo ma solo per poi accasciarsi morto per il tremendo sforzo. In poche righe, leggiamo tutta la saga dei minatori umani: tanto lavoro, e alla fine, per che cosa? Per sparpagliare e disperdere quello che il pianeta aveva impiegato miliardi di anni per accumulare.

In qualche migliaio di anni, abbiamo visto la saga del popolo dei minatori cominciare un po' in sordina con prime miniere di ocra in Inghilterra, per poi crescere gradualmente; espandersi fino a diventare l'impresa immane che vediamo oggi. In pochi secoli, abbiamo visto un'immensa reazione chimica svilupparsi sulla superficie del pianeta che ha dato fuoco alle riserve di carbonio accumulate in milioni di anni di attività geologica. Nel processo, la reazione ha sparpagliato ceneri per tutto il pianeta, polveri finissime che contengono metalli pesanti che, anche quelli, erano stati concentrati in vene e depositi da miliardi di anni di processi idrogeologici. Di tutto quello che il pianeta aveva accumulato, gran parte è già sparita; quello che rimane viene rapidamente bruciato, incenerito e disperso. Siamo oggi forse al culmine di questa immensa reazione chimica e già vediamo la discesa che ci aspetta: il grande fuoco dei combustibili fossili non può durare in eterno. Come tutti i fuochi, divora il combustibile che lo produce e, alla fine, si spegnerà lasciando solo cenere. Senza più vene, senza più pozzi, senza più giacimenti, non ci saranno più nemmeno minatori. E' la fine di un ciclo brevissimo dal punto di vista geologico ma che, per noi umani, era sembrato nella natura delle cose. Non lo era.

Certo, abbiamo ancora miniere da sfruttare e pozzi di petrolio da trivellare. Ma è inesorabile che un giorno vedremo la sparizione dell'attività mineraria così come l'abbiamo conosciuta nei secoli passati: sparisce la figura del minatore con il suo piccone e il suo elmetto con la lampada incorporata. Qualunque cosa succeda nei prossimi anni, le miniere di una volta non esisteranno più e non si riformeranno per centinaia di migliaia di anni, o forse milioni. Alcuni minerali, probabilmente, non si riformeranno mai più su questo pianeta. Il carbone, per esempio, si è formato come il risultato di condizioni ambientali particolari del periodo Paleozoico e che è possibile che non vedremo mai più nei prossimi milioni, o anche miliardi, di anni. Senza carbone, è molto costoso raffinare i metalli; senza metalli a basso costo è difficile pensare a una società industriale. E' difficile costruire oscuri mulini satanici, come William Blake definiva le industrie, solo col carbone di legna; le foreste tendono ad esaurirsi troppo velocemente. Può darsi che la rivoluzione industriale degli ultimi secoli sia stata l'unica di tutta la storia del pianeta.

Quello che lasciamo ai nostri discendenti è un pianeta diverso, un pianeta svuotato, una Terra che ha caratteristiche climatiche e ambientali che non sono più quelle di una volta. I cambiamenti sono tanti; il principale è forse la grande immissione di biossido di carbonio nell'atmosfera che ha portato la sua concentrazione a livelli che non si riscontravano da decine di milioni di anni. Questo grande picco del biossido di carbonio è stato creato dalla combustione di sostanze che non facevano parte della biosfera ormai da milioni di anni: i combustibili fossili: petrolio, gas e carbone. Trattandosi di sostanze aliene ai cicli biologici esistenti, la biosfera non potrà che assorbirne una parte, adattandosi per quanto possibile. Il resto, una frazione significativa, rimarrà nell'atmosfera per centinaia di migliaia di annii. Tale è la portata delle modifiche che abbiamo fatto al nostro pianeta in sole poche centinaia di anni di attività frenetica. Non possiamo escludere che la forzante climatica del CO2 non trasporti l'intero pianeta a uno stato climatico che potrebbe somigliare a quello che era il clima qualche decina di milioni di anni fa: un pianeta caldissimo e privo di calotte glaciali dove non sappiamo se gli umani potrebbero adattarsi a vivere.

Quale sarà, allora, il destino della civiltà umana? Può darsi che saremo costretti a ritornare a una società prevalentemente agricola, con un livello tecnologico molto più basso di quello attuale, ma non è affatto detto. Utilizzando l'energia solare e tecnologie che non richiedono elementi rari ed esauribili, siamo perfettamente in grado di costruire una società in grado di gestire l'ecosistema planetario in modo tale da rimediare ai danni che noi stessi abbiamo causato e a restituire il pianeta alle condizioni in cui era quando l'abbiamo ereditato. Un pianeta ricco di vita e di diversità è una condizione che possiamo mantenere per millenni o anche periodi molto più lunghi. Da questo pianeta possiamo partire per continuare la grande impresa in cui ci siamo impegnati: capire e esplorare l'universo.



mercoledì 21 dicembre 2011

Il Picco dell' E-Cat

Numero di ricerche del termine "E-Cat", secondo Google Trends



L'interesse per l’ "E-Cat", il presunto "reattore a fusione fredda" inventato da Andrea Rossi e Sergio Focardi, sta diminuendo. Si può percepirlo chiaramente dall'attività dei vari siti che lo riguardano; ma "Google Trends" conferma che la tendenza è effettivamente bassa. Dopo una fiammata di curiosità che ha raggiunto il picco nel novembre 2011, la gente ha scoperto che non c'era nulla da vedere sul E-Cat, ad eccezione di alcune presunte "dimostrazioni" che in realtà non dimostrano nulla. Quindi, hanno perso interesse.

Ciò che resta dell'E-Cat è un piccolo nucleo di sostenitori irriducibili - soprattutto in Italia - che probabilmente terranno vivo il mito per molto tempo. E' tipico e ben noto: le teorie sulla "free energy" non muoiono mai. Oggi, la gente sta ancora discutendo i supposti dispositivi di free energy attribuiti a Nikola Tesla e che risalgono a quasi un secolo fa – il povero Tesla probabilmente si sta ancora girando nella bara. E, nel frattempo, molte altre teorie strambe sono state proposte. In questo campo, l'E-Cat rimane notevole per l’ammontare di frastuono che ha generato in confronto alle poche prove (in realtà, nessuna) presentate.

In merito al E-Cat, potreste essere interessati a due articoli ben concepiti ed approfonditi che demoliscono le affermazioni di Rossi alla base.

No miracles in science: the story of the E-Cat. By Antonio Turiel

The Physics of why the e-Cat's Cold Fusion Claims Collapse, by Ethan Siegel



Post originale pubblicato su "Cassandra's Legacy". Traduzione di "Pandemicamente

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Nota aggiunta alla versione italiana. Ecco i dati sulle ricerche per "E-Cat" nella sola Italia



Qui il picco di interesse è meno chiaro che nella versione globale, ma la tendenza al declino e ugualmente evidente. Può darsi che la "coda" di interesse nel fenomeno durerà più a lungo in Italia che in altri paesi

martedì 20 dicembre 2011

L'irresponsabilità di essere (tecno)ottimisti

Guest post di Antonio Turiel apparso il 19 Aprile 2010 su The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti.




Cari lettori,



sulla base dell'ultimo commento di Agustìn (un lettore del blog, ndT) fatto al precedente post, ho creduto che il tema toccato fosse talmente ampio che meritasse un post a sé.

Circa la descrizione che facevo dei problemi di fornitura di frutta e verdura nel Regno Unito provocata dal blocco del traffico aereo (è il periodo dell'eruzione del vulcano islandese Eyiafjallajokull, ndT), Agustìn diceva quanto segue:

Sono chiare due cose: Primo: che in questo pianeta siamo di passaggio e quasi per caso, quindi qualsiasi crisi ci può spazzar via dalla faccia della Terra. Secondo:che la tecnologia (in questo caso l'aeronautica) può ben poco di fronte a questo. Ma non importa, ci sarà sempre gente che protesta perché non sono state previste le conseguenze dell'eruzione e perché non si è cercata una soluzione al “loro" problema.

Agustìn ha ragione, perché sono questi due i problemi ricorrenti e che spiegano in gran parte la nostra incapacità di approcciarci in modo razionale al problema del Picco del petrolio. Grosso modo (scritto così nel testo originale, ndT), questi due problemi sono la nostra incapacità di accettare i nostri limiti e il tecno-ottimismo.

L'essere umano è, intrinsecamente e necessariamente, limitato. Questo lo capiamo presto da bambini: non possiamo correre tanto quanto vorremmo, non possiamo sollevare cose molto pesanti, non possiamo volare... E nemmeno possiamo fare ciò che crediamo, nel contesto dei nostri limiti fisici, per via di altri limiti intangibili ma ugualmente inflessibili: la famiglia, la società, la scuola... Tuttavia, questa evidenza si va disperdendo con l'età, nella misura in cui si insedia un'altra idea, non tanto naturale ed evidentemente fallace, che dice che è possibile ottenere qualsiasi cosa, con i giusti mezzi. La nostra società dei consumi ci sta permeando con l'idea che con sufficiente denaro si può ottenere tutto e dove la nostra capacità fisica non può arrivare,sarà capace di arrivare l'onnipotente tecnologia. Questa nuova realtà prefabbricata risulta essere molto comoda e conveniente; elimina l'incertezza del mondo reale, rende più rarefatta la più terribile di tutte le certezze, quella della propria morte, e spinge le persone a
consumare senza riflettere.

Tuttavia, occasionalmente, la disgrazia arriva comunque, la gente muore in incidenti, terremoti, malattie.... L'economia ha problemi, la disoccupazione aumenta, l'insicurezza cresce... Per lottare contro questa realtà spigolosa, che intacca la nostra cortina di illusioni, abbiamo il tecno-ottimismo, vale a dire la rigida credenza nel fatto che la tecnologia possa risolvere qualsiasi problema, se solo siamo disposti ad investire a sufficienza nel suo sviluppo. Questo sta alla base di molte politiche che sono in corso di attuazione oggigiorno, man mano che si comincia a percepire il fatto che abbiamo un problema intrinseco col modello attuale: che, eventualmente, dobbiamo cercare energie alternative; che, eventualmente, l'auto elettrica ci potrà aiutare a superare la nostra dipendenza dal petrolio, ecc. L'infantilismo nel quale ci ha gettati il consumismo ci porta a credere che tutti i problemi si possono risolvere e che Papà-Stato-Autorità-Tecnologia-Scienza-Chiperloro, in ogni caso l'autorità superiore e responsabile, non solo può, ma addirittura ha l'obbligo di risolvere i problemi. Trovo frustrante che, in tutti gli incontri che vado proponendo sull'Oil Crash, quando arriva il momento delle domande ci sia sempre qualcuno che ci chiede, quasi esige da noi – noi che siamo scienziati e che pertanto siamo parte di questo establishment onnipotente – che risolviamo un problema tanto complesso come quello di adattare una società autistica ed egoista ad uno scenario di diminuzione dell'energia; fuori le soluzioni, forza!

Il problema veramente grave è che le diverse amministrazioni accettano questo ruolo di fornitori di soluzioni che, in realtà, non possono ricoprire. Non si vendono più automobili? “Non vi preoccupate, metteremo sovvenzioni per fare in modo che si continuino a vendere”, anche se entro tre anni non si sa da dove estrarremo il petrolio, non tanto a buon mercato, ma a qualsiasi prezzo. La gente si preoccupa perché il prezzo del petrolio sale? “Non vi preoccupate che con l'auto elettrica il problema del petrolio scompare”, ignorando il fatto che il petrolio non si usa solo per le auto, ma per quasi tutto e che in ogni caso non abbiamo idea da dove verrà l'energia per ricaricare queste auto e per la costruzione delle quali non abbiamo, in ogni caso, sufficienti materiali (per esempio le terre rare, ndT). La domanda di petrolio per gli altri usi energetici, oltre alle auto, continua? “Non vi preoccupate, che possiamo moltiplicare per due o per tre la produzione di energia rinnovabile attuale”, ma ignorando che questo è molto lontano dal moltiplicare il suo potenziale per 20, che è quello di cui avremmo bisogno per eguagliare il consumo attuale. Fra l'altro perché è impossibile, perché l'energia rinnovabile non ha un tale potenziale e questo senza parlare della mancanza di materiali per le installazioni e della loro scarsità associata all'aumento del prezzo del petrolio (perché serve petrolio, ed in quantità ingenti, per estrarre, raffinare e processare tutti i materiali). La gente ha paura della disoccupazione? “Non vi preoccupate e consumate, consumate, maledetti, che dobbiamo far crescere il PIL fino al magico 2,6% che farà in modo che la disoccupazione torni a scendere”, anche se questo non è possibile, visto che il nostro consumo di petrolio scende ad un ritmo medio del 3% ogni anno.

Essere tecno-ottimisti, credere che la tecnologia risolverà tutto, è un modo socialmente accettabile di essere suicidi. Io, se permettete, scelgo la vita. Sono uno scienziato, ma non un idiota e non voglio credere ai benefici della tecnologia come se fosse un atto di fede; proprio perché sono uno scienziato so che ci sono dei limiti nella natura (le leggi della termodinamica, per esempio) e che non possiamo fare miracoli, anche se possiamo e dobbiamo migliorare le condizioni di vita degli umani. Ma cerchiamo di essere razionali.

Saluti,

AMT

venerdì 16 dicembre 2011

Costruire il futuro guardando le cose dall'alto



Guest post di Antonio Turiel da "The Oil Crash" dell'8 Novembre 2011
Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti





Cari lettori,

nel programma di Radio Libertad di giovedì scorso Juan Carlos Barba ha annunciato che questa settimana avremmo parlato delle misure che si dovrebbero prendere per adattarsi al futuro della Grande Scarsità. Siccome c'è stato un cambio di invitati (io stesso non potrò partecipare questa settimana), è possibile che ci sia anche un cambio di dibattito, anche se il tema in questione finirà un giorno per essere discusso. Inoltre, è una domanda assai logica che già è solita emergere nei discorsi sull'Oil Crash e che, semplificando e abbreviando, si potrebbe formulare in questo modo: che raccomandazioni farebbe al Governo (o ai Governi) per gestire l'Oil Crash, se l'ascoltassero?

Mi preoccupa abbastanza mettermi in questo pasticcio, quello cioè di dare consigli o linee d'azione, perché più che in altri ambiti, mi rendo conto dei miei limiti o carenze. Non so praticamente nulla di economia e nemmeno delle difficoltà di gestione della cosa pubblica, per non parlare di come legiferare correttamente. Un errore fatale in qualsiasi di questi o altri indirizzi e le nostre migliori intenzioni lastricheranno il cammino per l'inferno. Ma, d'altro canto, non sarebbe onesto da parte mia eludere completamente la responsabilità di fare osservazioni dure che avranno bisogno di elaborazione, e non poca, prima che si possano interpretare in chiave di azione politica. D'altra parte, credo che in questa missione, quella di definire adeguate linee guida di attuazione, i diversi commentatori che sono soliti leggere questo blog apporteranno i loro diversi punti di vista e, sicuramente, dal dibattito che un post come questo susciterà, si potranno tirar fuori idee interessanti di fronte a quello che potrebbe essere un piano di Governo di Transizione. Perciò, credo che possa essere utile ed istruttivo, in particolare per me stesso, aprire finalmente questo dibattito e vedere cosa possiamo mettere in chiaro.

Naturalmente altri prima, e con maggior merito e conoscenza, hanno affrontato questo compito: ecco, per esempio il Real New Deal del Post Carbon Insitute. A livello più locale, c'è il piano di Transizione elaborato dall'associazione galiziana Véspera de Nada (guardate sulla colonna di destra della sua pagina web, Misure per far fronte al picco del petrolio), che mi ha fatto l'onore di chiedere la mia opinione. Io, senza arrivare ai particolari di quest'ultima, vorrei raccogliere alcune idee che credo debbano far parte di questo piano di transizione governato dall'alto. Ecco alcune di queste idee chiave:


Lasciare il BAU (Business as usual, continuare come al solito)

Questo è il più difficile dei compiti da intraprendere e quello che ha più implicazioni. Dobbiamo far comprendere ai nostri governanti che il BAU, il modo di fare degli ultimi decenni, non ha senso in un mondo dove le risorse sono limitate, in diminuzione e non sostituibili. Lo abbiamo discusso molte volte: l'accesso sempre più limitato al petrolio, in particolare, e all'energia in generale implicano il fatto che questa crisi economica non finirà mai, perché all'interno del nostro sistema economico dobbiamo sempre crescere a un certo ritmo; questo è il motivo per cui la nostra società è chiamata “la società dei consumi” ed il motivo di tanto spreco. I nostri leader reagiscono sulla base di ricette economiche apprese durante gli ultimi cento anni, secondo le quali la crescita è la miglior garanzia per avere un alto tasso di impiego ed evitare rivolte sociali, oltre che per accontentare e soddisfare i poteri economici e industriali. Tutta la politica attuale di tagli della spesa pubblica e la diminuzione dello stato sociale è diretta a risparmiare sulla parte non produttiva della società per concentrare il flusso economico sulle parti produttive, con la speranza che queste si riprendano, generino un nuovo ciclo di crescita economica e nuovo impiego, così si potrà far marcia indietro nella politica dei tagli che mette tanto a disagio il cittadino medio. Il problema è che la premessa è falsa: destinare maggiori risorse per concentrarsi nel riscatto del settore finanziario e nell'alleviare la pressione delle imposte nel settore industriale e dei servizi non ci porterà ad una nuova crescita dell'economia, perché andando avanti l'energia ed i materiali consumati saranno più cari e più scarsi. E non per mancanza di investimenti nella loro estrazione e produzione, ma per ragioni fisiche e geologiche di cui tante volte abbiamo discusso in questo blog. Tuttavia, c'è tanta teoria economica sviluppata ignorando il fatto che non si può crescere per sempre, e contrastare questa idea falsa ed autoconvincersi della necessità di un cambio di paradigma, di schema mentale, ci prenderà molto, molto tempo.

Un nuovo ordine sociale

Una volta compreso che il BAU non può continuare, si devono ristabilire le priorità, perché la priorità fino ad ora è stata sempre la crescita, poiché da essa derivavano le soluzioni alla gran parte delle necessità, come corollario. Se non c'è una crescita, bisogna tornare a fare una politica della verità e decidere cosa si deve fare a come. A mio parere, la prima priorità è quella di garantire il lavoro in modo generalizzato come mezzo fondamentale per preservare la pace sociale – per intenderci: dare impiego alla gente di modo che si possa guadagnare da vivere degnamente. Alcune persone obiettano che la pace sociale non sia importante, che la sola cosa che interessa al poteri economici (che usano i leader politici per attuare il loro programma) è guadagnare sempre più denaro, anche se per far questo devono sottomettere con la forza tutta la popolazione. Evitando di metterci a discutere se questa sia o no l'intenzione di questi poteri economici, un tale metodo non è sostenibile a lungo termine: oggi come oggi il potere economico si basa sul vendere molti prodotti a molta gente, ma se la gente perde la capacità economica perché è disoccupata o sottoccupata è evidente che i benefici precipiteranno e molte grandi imprese sprofonderanno, come di fatto sta già accadendo ora (quale credete che sia il futuro a breve termine della BMW o, a più lungo termine, della Apple?). Altro è che alcune persone ben posizionate intendano garantirsi una posizione di privilegio in un nuovo ordine feudale che potrebbe sopraggiungere, anche se, a mio parere, analogamente a quanto accadde nel Medioevo, se sopraggiungesse il caos anticipato dai sostenitori di questo futuro, avrebbe più possibilità di diventare un neo-barone un capo di un gruppo di comando elitario che non un banchiere grasso che agita mazzette di dollari senza più valore o brandendo carissimi ed inutili pezzi di oro e argento. Ma, infine, supponiamo che i nostri leader abbiano compreso l'impossibilità del BAU e cerchino ciò che è socialmente più conveniente. Come dicevo, la prima cosa è stabilire un sistema che dia impiego a tutti e questo in un contesto di un'economia che non cresce. Cosa che non appare facile, anche se non impossibile.
 

Economia stazionaria


Se gli introiti non possono crescere, come sembra, la smaterializzazione assoluta dell'economia non è un obbiettivo possibile (e, soprattutto, efficacie) a breve termine, è chiaro che ad un determinato momento l'economia debba smettere di crescere e tornare stazionaria, vale a dire di dimensione costante, e questo probabilmente dopo un periodo di decrescita. Un'economia stazionaria ha approcci completamente diversi da una di crescita. La forza lavoro non può modificarsi sostanzialmente durante il tempo, né il numero di fabbriche, né i mezzi di produzione in generale. Peggio ancora, si deve stabilire un qualche tipo di pianificazione su grande scala (non sulle attività specifiche, ma sul consumo generale di risorse sì) per evitare che si producano grandi scompensi. La competitività nel tempo in cui si impongono restrizioni è un compito che trovo piuttosto complicato. In ogni caso, le variabili da controllare sono fisiche (energia consumata, tonnellate di materiale) e non monetarie. Se possibile, la miglior unità di misura di questa economia è l'energia di lavorazione o, meglio ancora, l'exergia.

Funzione del lavoro

Si deve ripensare il lavoro, la sua funzione sociale e il grado di soddisfazione che si potrà dare alle necessità umane, quelle reali e quelle percepite. E' fondamentale garantire cibo, acqua, vestiario e alloggio alla popolazione. E' conveniente e rilevante fornire anche educazione e sanità. A partire da lì, è naturale lasciare che la gente sviluppi la propria iniziativa personale, per ragioni buone e convincenti; il come lo stabiliranno le persone con più capacità e conoscenza. Ciò che non è facile né banale è garantire la produzione con mezzi sostenibili di questi beni fondamentali. E' pertanto importante identificare le risorse locali, le capacità locali di produzione e verificare come mantenere reti sufficienti per il commercio di quei prodotti di cui ciascun territorio sia deficitario o abbia un'eccedenza. Avendo accesso a quantità di petrolio e gas in diminuzione a medio termine ed a nessuna quantità a lungo termine, è importante decidere come si può mantenere la meccanizzazione dell'agricoltura e dei trasporti. Si deve stimare qual è la quantità di biocombustibile che sia ragionevole produrre senza compromettere l'alimentazione umana ed animale e dove risulta più conveniente. Si deve anche decidere quanti animali si possono ragionevolmente allevare, come distribuire la popolazione sul territorio, come evitare l'erosione del suolo, come assicurare l'acceso all'acqua per l'irrigazione ed il consumo umano e animale, come potabilizzarla e ripulirla avendo accesso a minori quantità di prodotti chimici specialistici e via ancora un lunghissimo eccetera di questioni tecniche che richiederanno lunghi studi specialistici e che devono essere adeguatamente coordinati.

Pianificazione e limitazione nell'accesso alle risorse

Il fatto che le risorse siano finite (nel senso di limitate, ndT) e, ancora più importante, la disponibilità limitata delle stesse a causa dell'impossibilità di incrementarne la produzione (e distribuirle da parte dei produttori), implica che tanto per cominciare si devono lasciar perdere certi usi superflui delle risorse non rinnovabili (quelli che le bruciano o le disperdono fino a renderle irrecuperabili), incluse quelle risorse rinnovabili per le quali non si sono ancora trovati usi di interesse generale – in previsione che in futuro possano essere importanti. Si dovrà assicurare sia il risparmio sia il riciclaggio dei materiali, il che implica un cambiamento della progettazione (quindi l'abbandono dell'obsolescenza programmata, ndT) per facilitare la riparazione ed il recupero dei materiali, anche se ciò implicasse la produzione di beni meno efficienti di quelli attuali. E questo richiede uno sforzo ingegneristico su grande scala in tutta la società, sforzo che porti a ripensare completamente i cicli di vita dei prodotti.

Un punto complicato è la necessaria pianificazione, più o meno centralistica, dell'accesso ai materiali, sia quelli rinnovabili, sia quelli non rinnovabili, perché anche i secondi hanno dei limiti e mal gestiti possono deteriorarsi e diminuire (di questo abbiamo molti esempi oggigiorno, dall'erosione del suolo coltivabile all'esaurimento dei bacini di pesca). L'ideale sarebbe lasciare al libero mercato la regolamentazione di questo accesso, ma l'esperienza ci dimostra che, forse per l'imperfetta psiche umana, il libero mercato è solito portare a squilibri ed abusi di potere da parte di coloro che hanno di più, e ciò snatura il mercato da libero a ostaggio dei loro interessi. Ma anche un sistema di pianificazione è tendente all'abuso, soprattutto se chi lo gestisce approfitta della propria posizione per ricevere prebende o favorire i propri interessi. Non sembra esserci una soluzione semplice in questo caso.

Libertà e informazione: democrazia piena

Uno dei grandi problemi che ha la nostra società occidentale è la tendenza all'opacità nei temi chiave della gestione politica; peggio ancora, si è arrivati al punto che una parte importante della popolazione creda che alcuni temi siano troppo complicati perché l'opinione di un cittadino comune possa contare. In realtà, la cosa logica sarebbe informare quel cittadino perché possa avere un'opinione informata, anziché prescindere da essa. In più, non è vero che le grandi linee concettuali siano tanto complicate da capire come spesso si vuol far credere: molte volte si ingrandiscono i dettagli più astrusi perché sembrino sostanziali anziché secondari. Manca una gestione onesta che rappresenti i grandi indirizzi politici riassumendo i dettagli e le difficoltà senza complicare e pasticciare le discussioni (che è ciò che oggi fanno i nostri politici e che fa sì che sopra lo stesso tema tirino fuori statistiche apparentemente contraddittorie, anche se in realtà dicono la stessa cosa, al fine di aumentare la confusione del pubblico). 


E' importante che in un futuro complesso e che in alcuni momenti richiederà importanti sacrifici, la gente abbia consapevolezza chiara di quali siano i veri problemi e che possa verificare, senza sensazionalismo né cortine di fumo, che le misure che si sono prese stiano andando a buon fine e quelle che si rivelino sbagliate possano essere corrette rapidamente senza confusione né denunce incrociate. Insomma, è importante coinvolgere di più i cittadini, cioè quel popolo da cui emana l'unica sovranità, nella gestione e nella decisione, il che si può ottenere soltanto attraverso un'informazione chiara e vera e che non venga confusa con migliaia di sciocchezze senza senso.


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Il lettore si renderà conto che questo programma di attuazione è molto vago e generico e non si focalizza sui dettagli. Ma anche così implica cambiamenti strutturali profondi da fare nella nostra società, cambiamenti che saranno molto difficili da realizzare partendo da dove ci troviamo ora. Soltanto con molta costanza e con l'informazione si può provare a girare pagina ed avanzare in direzione del cambiamento necessario, un cambiamento di cui non dovranno essere protagonisti né i politici professionisti di oggi, né i tecnici come me, che siamo solo di aiuto, ma dalla popolazione stessa.



Saluti,

AMT



mercoledì 14 dicembre 2011

Riconoscere la scienza seria quando la vedi: il cambiamento climatico visto dagli studiosi dell'esaurimento delle risorse.


Il tavolo dei relatori alla prima sessione di ASPO-9 a Brussels. Da sinistra a destra, Pierre Mauriaud (Total); Jean-Pascal van Ypersele (IPCC); Kjell Alecklett (ASPO); Colin Campbell (ASPO); Paul Hohen (Greenpeace). Durante la discussione, Colin Campbell, fondatore e presidente onorario di ASPO, ha detto “sono convinto”, riferendosi all'intervento sul cambiamento climatico di Van Ypersele. Un buono scienziato può sempre riconoscere la buona scienza quando la vede, Sfortunatamente, sembra che molta gente coinvolta nello studio del Picco del Petrolio spesso non interagisca con la scienza del clima e la loro visione rimane legata alle distorsioni presentate dai media mainstream.


Una delle conferenze più interessanti al recente meeting sull'Energia organizzato dal Club di Roma a Basilea, è stata quella fatta da Ian Dunlop, di ASPO Australia (foto a destra). E' stato un intervento centrato più che altro sulla connessione fra energia e cambiamento climatico. Era aggiornato e diceva le cose che avevano bisogno di essere dette. Ossia, Ian Dunlop non si è vergognato di dire che il cambiamento climatico sta minacciando l'esistenza stessa della nostra civiltà e che dobbiamo fare rapidamente qualcosa in proposito. E' stata una conferenza eccellente, date un'occhiata alle slide, se avete un momento, ecco il link.

Ciò che ho trovato sorprendente sono stati i diversi commenti che ho sentito più tardi da quelli che assistevano all'incontro. Alcuni di coloro che non avevano una preparazione specifica sulla scienza del clima sembravano essere scioccati. Non sapevano, pare, che la situazione del clima è così grave e che è così urgente agire – ma ora riconoscevano il problema. Questa mia esperienza a Basilea si affianca molto bene a quella avuta a Brussels per la conferenza di ASPO-9, quando il climatologo Jean-Pascal van Ypersele ha fatto una buona relazione sul cambiamento climatico. Anche lì, la reazione di alcune delle persone che assistevano alla conferenza è stata di sorpresa: non avevano mai avuto occasione, apparentemente, di ascoltare un rapporto integrale sulla situazione del clima.

Naturalmente, non ho statistiche, ma la competenza media in scienza climatica della gente che lavora sul Picco del Petrolio e temi simili (chiamiamoli "scienziati del picco" o “scienziati dell'esaurimento” - che in italiano suona anche più sinistro, ndT). Ma la mia esperienza con questo problema è stata spesso scoraggiante: molti scienziati del picco sono gravemente indietro in quanto alle loro conoscenze circa la scienza del clima ed alcuni (solo alcuni, per fortuna!) della loro ignoranza ne fanno una bandiera, e cadono nei più ovvii trucchi della propaganda dei negazionisti o si fanno beffe dell'idea nel suo complesso con la dichiarazione semplicistica “non c'è abbastanza petrolio per il cambiamento climatico”. Ahimè, le cose sono molto più complesse di così!

Questo non significa che gli scienziati del Picco non siano gente intelligente; lo sono, assolutamente. E questo non significa che non ci sia un pregiudizio parallelo da parte degli scienziati del clima che, spesso, sembrano essere completamente ignari della situazione in termini di esaurimento delle risorse. Il punto è che tutti soffriamo di una visione ristretta. Internet è vasto ma noi tendiamo ad andare in profondità solo negli argomenti che conosciamo bene; il resto della nostra informazione proviene spesso da un misto casuale di ciò che leggiamo nei media. In questo, noi tutti soffriamo del “pregiudizio di conferma” (vedete sotto).

Quindi, quello che vi arriva dai media sul cambiamento climatico è che è tutta questione di piccoli dettagli: abbiamo assistito ad un riscaldamento durante i dieci anni passati? Qual è il significato di “nascondi il declino”? Gli scienziati non avevano paura del “raffreddamento globale” negli anni 70? E così via. Anche la gente che sta dalla parte della scienza del clima spesso sembra impegnarsi nel dibattito preoccupandosi di piccoli dettagli. Quante tonnellate di CO2 possiamo risparmiare se installiamo dei vetri doppi negli edifici pubblici? Dovremmo usare il trasporto pubblico al posto dell'auto privata per gli spostamenti? Così, l'impressione generale che ti puoi fare è che il cambiamento climatico è un problema minore affetto da grandi incertezze.

Che il risultato di più di mezzo secolo di lavoro della scienza del clima sia stato ridotto a termini così ristretti sui media, è una vittoria per la negazione: è un modo per tenere la gente nell'oscurità circa ciò che sta realmente accadendo. Ma il clima non è qualcosa che possa essere fermato da finestre a doppio vetro. E' un grande sconvolgimento dell'intero ecosistema terrestre ed ha il potenziale di causarci danni enormi. Il problema deve essere affrontato per quello che è, nella sua complessità, e con il rischio che ne viene. L'incertezza non è una scusa per non fare nulla: quello che non sappiamo è ciò che è più pericoloso per noi.

Perciò, è molto bello vedere che uno scienziato di valore può sempre riconoscere la scienza seria quando la vede. Questo è stato il caso di Colin Campbell (a sinistra), fondatore e presidente onorario di ASPO, che ha dichiarato al pubblico “sono convinto” dopo aver ascoltato la relazione di Van Ypersele alla conferenza di ASPO-9 a Brussels. E' stato lo stesso risultato visto per diversi colleghi all'incontro di Basilea dopo aver ascoltato l'intevento di Ian Dunlop. Ho notato anche in altre occasioni che gli scienziati del clima possono comprendere il messaggio dell'esaurimento delle risorse quando se lo vedono presentare per ciò che è. Sono buoni scienziati anche loro.

Quindi, è tempo di riconoscere la scienza seria quando la vediamo. Ed è tempo di dire a tutti come stanno le cose, proprio come ha fatto Ian Dunlop a Basilea.


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Sul pregiudizio di conferma:
Dal the Washington Post, di Ramesh Srinivasan

Abbiamo a lungo sentito dire che internet avrebbe dovuto unire le persone di diversi credi politici e culturali. Invece, nonostante l'esplosione delle voci in rete, gli utilizzatori dei social media raramente accedono ad opinioni che differiscono dalle proprie, e molti siti di social media – con la loro etica polarizzata mi piace/non mi piace o mi unisco/non mi unisco – perpetuano soltanto la cultura delle frasi fatte dei vecchi media.

Non solo i nostri amici di Facebook sono simili a noi (ci connettiamo normalmente tramite amici comuni ed interessi condivisi), ma, come ha mostrato il ricercatore Ethan Zuckerman, i siti che visitiamo riaffermano i nostri preconcetti politici e culturali. Questa omogeneizzazione arriva al meccanismo stesso del social media – ai suoi algoritmi – che misura i risultati di ricerca o i feed di Facebook secondo quello che il sistema “pensa” che l'utente troverà più interessante.

Avvicinare esperienze politiche e culturali disparate rimane una sfida per i social media. Per imparare da punti di vista divergenti, le tecnologie e le culture dei social media devono evolvere in modo da avvicinare la gente, piuttosto che tenerci in silos digitali.

Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti da un articolo pubblicato su “Cassandra's legacy”.

lunedì 12 dicembre 2011

Diciamocelo Forte e Chiaro: questa crisi non finirà mai!

Guest post di Antonio Turiel apparso su "The Oil Crash" il 19 giugno 2010
Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti.


Questo post di Antonio Turiel è stato scritto circa sei mesi fa e si riferisce alla situazione in Spagna. Tuttavia, sembra estremamente rilevante per la situazione italiana odierna e pertanto ci sembra il caso di presentarlo qui tradotto. Secondo Turiel, infatti, la crisi economica che ha colpito molti paesi europei non è un fatto congiunturale ma un fatto strutturale dovuto alla stasi della produzione petrolifera e al suo imminente declino. Per questa ragione, la crisi non finirà mai.



Cari lettori,
 
abbiamo parlato di questo argomento in modo frammentario in alcuni post e nei commenti che ne sono seguiti, ma credo che sia importante mettere insieme alcuni pezzi del puzzle e mostrare in modo attendibile quello che è un fatto: questa crisi economica in cui ci troviamo immersi non finirà mai, o perlomeno non all'interno dell'attuale paradigma economico, conosciuto come capitalismo.

Il grafico sulla sinistra (elaborato con dati dell'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA), del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti (EIA) ed estratta dal rapporto mensile Oil Watch di The Oil Drum) mostra la produzione mensile di petrolio greggio degli ultimi otto anni (espressa come la media di milioni di barili giornalieri). Come potete vedere, a parte alcune oscillazioni, la quantità di petrolio greggio estratto dalle profondità della Terra permane più o meno costante dal 2005. Gli anni precedenti (che non appaiono nel grafico), dallo
shock petrolifero dell'inizio degli anni 80, avevano visto una crescita inarrestabile della produzione, ad un ritmo di quasi il 2% all'anno. 

Ma dal 2005 qualcosa si è complicato. La produzione dei nuovi giacimenti che entravano in produzione a malapena erano sufficienti a coprire la perdita di produzione dei giacimenti già in attività. Questo è un fatto: ci troviamo sull'altipiano o plateau estrattivo di petrolio greggio e la discesa potrebbe iniziare in qualsiasi momento, poiché già dagli anni 80 si scopre meno petrolio di quanto se ne consumi e questo significca che prima o poi la produzione comincerà a diminuire. Quando? Secondo ITPOES (think-tank dell'industria britannica di cui abbiamo già parlato qui) la discesa comincerà circa nel 2015. Si deve specificare che il petrolio greggio non è tutto il petrolio che si produce nel mondo, ma la maggior parte sì (circa 75 milioni di barili al giorno – Mb/d). Ci sono altri 10 Mb/d che provengono dalle sabbie bituminose, dai liquidi del gas naturale e dai biocombustibili, ma non bisogna lasciarsi ingannare. In primo luogo perché stiamo parlando di petrolio sintetizzato usando altre fonti energetiche (normalmente gas naturale) con la conseguente perdita di energia durante la conversione. E non abbiamo abbondanza nemmeno di gas naturale, anche se mancano 15 anni al picco. Queste fonti alternative di petrolio sono semplicemente una stupida fuga in avanti, un modo di occultare un realtà nuda e cruda, cioè che sono anch'esse quasi al limite della loro capacità di produzione e non potranno ritardare di molto il declino petrolifero. In secondo luogo, la capacità calorica di questi “petroli” è solo il 70% dell'originale, cosicché, in un certo senso, stiamo chiudendo la stalla quando i buoi sono già scappati. Non avete notato che ultimamente la vostra auto tira di meno? E' normale, per via di una normativa europea i carburanti commercializzati nella UE devono contenere un minimo del 5% di biocombustibile. In qualche modo dobbiamo usare questo “petrolio” scadente che sintetizziamo, ma non è buono come l'originale...
 
Il fatto che la produzione di petrolio non cresca non significa che si fermino i nostri consumi, che di per sé sarebbe già un male. In realtà stiamo decrescendo. Guardate nel grafico a destra. L'ha elaborato Stuart Staniford partendo dai dati della IEA e dell'EIA e li ha pubblicati nel suo blog Early Warning (cercate l'articolo "US economic recovery in the era of inelastic oil"). La linea azzurra in alto rappresenta il consumo dell' area OCSE, quella scura che sale a tutta velocità dal basso rappresenta sostanzialmente la Cina e l'India. Fino alla linea verticale sono dati del passato, verificati; a partire da lì è la proiezione di Stuart Staniford partendo dalla tendenza attuale. La realtà è che la Cina, l'India ed altri paesi con economie più dinamiche e maggior potenziale di crescita stanno aumentando il loro consumo più di noi, poiché, con la loro crescita, costa loro di meno pagare fatture petrolifere più alte. E siccome dal 2005 questo è un gioco a somma zero, dove loro aumentano, noi dobbiamo diminuire. In concreto, a ritmo del 3% annuo. Gli ultimi dati di Oil Watch confermano che i paesi dell'OCSE (anche la Spagna – e l'Italia, ndT) hanno perso più del 15% dei consumi petroliferi rispetto al 2005.
 

Ovvero, siamo fondamentalmente in una situazione di diminuzione rapida del consumo di energia, nè cercata né pilotata, ma forzata e repentina. Secondo i dati dell'EIA, il petrolio rappresenta il 33% dell'energia primaria consumata nel mondo, anche se questa percentuale varia di paese in paese; in Spagna è del 48%, quasi la metà. Pertanto, con la caduta di oltre il 15% negli ultimi 5 anni del nostro consumo di petrolio in Spagna abbiamo ridotto il nostro consumo di energia primaria approssimativamente dell'8%, più dell'1,5% su base annua. Stimare l'impatto sul nostro consumo di energia si fa più complicato nella misura in cui la percentuale di petrolio che perdiamo si fa più grande ed il suo prezzo aumenta, poiché per produrre e mantenere le altre fonti di energia manca il petrolio (per i compressori dei martelli pneumatici che si usano in remote miniere, per il meccanismo che mantiene le dighe e le turbine eoliche, ecc ecc). Di fatto, il petrolio ha influenza su tutto, per la sua grande varietà di usi (plastica, fibre sintetiche, reagenti chimici per farmaci, industria alimentare, ecc) e come fonte di energia fondamentale nel funzionamento di macchine di ogni tipo (auto, camion, gru, aerei, escavatrici, barche, trattori, ruspe, ecc.). La realtà è che tutta l'attività economica dipende dal petrolio in particolare e dall'energia in generale. Per definizione, energia è la capacità di compiere un lavoro. Lavoro utile che serve a trasformare materiali e creare prodotti, spostare merci e persone, produrre luce, calore e fresco, ecc. Anche le economie tecnocratiche basate sui servizi devono alla fine servire a qualcosa di tangibile ed i maggiori costi del petrolio e dell'energia si ripercuotono su di esse in egual misura che sugli altri settori economici. La correlazione fra il consumo di energia e il PIL è così ben conosciuta che la IEA è solita pubblicare un grafico della modalità che seguono queste linee in ogni World Energy Outlook che pubblica (quello di questo grafico è del WEO del 2004). Sull'asse delle ordinate (verticale) si vede il consumo totale di energia nel mondo, espresso in milioni di tonnellate di petrolio equivalente, Sull'asse delle ascisse (orizzontale) si vede il PIL del mondo, espresso in parità di potere d'acquisto. Il bello è che la forte connessione fra le due variabili mostrata da questa curva viene mantenuta anche nei periodi di crisi economica.

Pertanto dobbiamo:
  • Per crescere economicamente abbiamo bisogno di aumentare il nostro consumo di energia. Al contrario, se il nostro consumo di energia diminuisce, il nostro PIL si contrae in egual maniera.
  • A causa della produzione di petrolio stagnante, ad un effetto di sincronizzazione con le altre fonti energetiche conosciuto come La Grande Scarsità e alla crescita di altre economie emergenti siamo condannati in modo inesorabile a ridurre il nostro consumo di energia e anche ad un ritmo piuttosto veloce (nel caso della Spagna, l'1,5% annuo come minimo).
Qual è, pertanto, la conclusione? Che la nostra economia è condannata a decrescere e a ritmo serrato. E' importante comprendere questo punto: è un fenomeno noto, compreso ed inevitabile. Di fatto, è un concetto gestito in ambito governativo, come abbiamo già commentato in numerosi post. Tuttavia, i poteri governativi non possono riconoscere apertamente questo fatto per via delle conseguenze politiche che comporta e per questo la tendenza è quella di provare a cercare soluzioni che non esistono al posto di ripensare il problema.

La domanda non è, pertanto, se continueremo a decrescere economicamente, ma fino a quando. La risposta è che decrescere economicamente, inteso come una diminuzione del PIL, è irrilevante. Abbiamo confuso il fine con i mezzi; il PIL è un'astrazione della ricchezza collettiva di un paese che si suppone essere in qualche modo connessa al benessere della sua gente. Ciò che si dovrebbe cercare è la massimizzazione del benessere, non un indice complesso e spesso assurdo. Pertanto, più rapidamente abbandoniamo l'orientamento economicista e ci focalizziamo su ciò che è veramente rilevante, prima cominceremo a stare meglio. La cosa peggiore che potremmo fare è quella di focalizzarci sul mantenimento di un sistema economico che sarà sempre più disfunzionale, a causa della mancanza di energia e di materie prime, per dare impulso ad un consumo sfrenato che ci immoli sull'altare della crescita economica, sognando una ripresa economica che non arriverà mai e che creerà un'occupazione che non esisterà mai. Non comprendere questo, ostinarsi a seguire questo sentiero, ci porta soltanto in un posto ben noto: il collasso.

Saluti


Antonio Turiel

domenica 11 dicembre 2011

Durban: vince la scienza



Ci vorrà un certo tempo prima di poter capire esattamente il significato degli accordi di Durban. Come sempre, ci sarà chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto. Ma c'è un elemento in questa storia che ci da speranza: gli sforzi per fermare il cambiamento climatico continuano.

Continuano nonostante l'opposizione delle lobby dei combustibili fossili. Continuano nonostante la campagna propagandistica del "Climategate 2.0", nonostante i continui attacchi contro la scienza sui media, nonostante il fatto che negli Stati Uniti tutti i candidati Repubblicani alla presidenza hanno preso una posizione anti-scientifica.  A Durban c'era un'intera alleanza di potenti forze che stavano facendo tutto il possibile per sabotare la la conferenza. Non ci sono riusciti, e non perché non ci abbiano provato. Christopher Monckton, il visconte arrapanato, arci-nemico della scienza del clima, era così disperatamente alla ricerca di attenzione che non ha trovato di meglio che farsi paracadutare su Durban. E' stato ignorato, comunque.

Considerando la coalizione anti-scienza che si era formata, possiamo prendere come un successo quasi incredibile il fatto che la conferenza di Durban è terminata con un accordo strutturato che prevede la continuazione dei negoziati. Evidentemente, si comincia a percepire un po' ovunque la gravità della situazione: il messaggio sta passando. Come ho detto in precedenza, la scienza del clima è  scienza valida e la scienza valida finisce sempre per vincere.

Questo post è una traduzione del post in Inglese apparso su "Cassandra's Legacy"

venerdì 9 dicembre 2011

Climategate 2.0: mi puoi fregare una volta, ma non due.


Il numero di ricerche con il termine "Climategate" secondo Google Trends. La seconda uscita delle emails rubate, il mese scorso (“Climeategate 2.0”) non ha generato niente di paragonabile al picco di interesse della prima uscita (“Climategate”), nel 2009. (traduzione da "Cassandra's Legacy" di Massimiliano Rupalti)


Il cosiddetto caso del "Climategate" del 2009 rimarrà nella storia come un esempio di campagna propagandistica ("spin campaign") di grande successo. Ha avuto un forte effetto negativo sulle opinioni del pubblico riguardo al riscaldamento globale e sulla fiducia negli scienziati, oltre ad aver giocato un ruolo importante nel fallimento dei colloqui sul clima di Copenhagen. Tuttavia, il pubblico ha reagito con un grande sbadiglio al secondo gruppo di messaggi email pubblicati il mese scorso (“Climategate 2.0”). Possiamo vederlo usando “Google Trends” come mostrato sopra e sotto. Il modesto picco che corrisponde ai frenetici tentativi di infiammare l'interesse del pubblico sul Climategate 2.0, non è nulla di lontanamente paragonabile al gigantesco picco del primo Climategate.





Apparentemente, in queste cose vale un vecchio detto, “mi puoi fregare una volta, ma non due.” Ovvero, è molto difficile fregare la gente due volte con lo stesso trucco. Infatti il “Climategate 2.0” si sta rivelando un grande flop.

I sondaggi più recenti negli Stati Uniti indicano che la preoccupazione rispetto al riscaldamento globale sta risalendo di nuovo fra il pubblico, questo a riprova del fatto che non puoi ingannare la gente per sempre. Quindi, abbiamo ancora una possibilità di vincere questa battaglia. Dobbiamo continuare a combatterla.

mercoledì 7 dicembre 2011

Prendere un politico per il collo.....


"Sviluppi una coscienza globale istantanea, una empatia per la gente, una intensa insoddisfazione per lo stato del mondo e una gran voglia di fare qualcosa in proposito. Da lassù, sulla Luna, la politica internazionale ti sembra così di basso livello. Ti viene voglia di prendere un politico per il collo e tirarlo via a un quarto di milione di miglia e dirgli: 'Guarda qui, figlio di puttana!"

L'astronauta dell'Apollo 14, Edgar Mitchell


(da Omnomination)

domenica 4 dicembre 2011

Narrativa contro scienza: un commento di Antonio Turiel


Esaminando il dibattito sul riscaldamento globale e sul picco del petrolio, sono giunto alla conclusione che l'unità elementare di comunicazione nella discussione pubblica è sempre una storia – una narrazione di qualche tipo. In altre parole, tendiamo ad interpretare la realtà in termini narrativi, come potete facilmente comprendere con un semplice sguardo ai titoli dei giornali. Ho sostenuto di recente che il notevole successo dei negazionisti del cambiamento climatico è dovuto allo sviluppo di una narrativa fantastica che descrive come un gruppo di scienziati malvagi abbiano manipolato i dati delle temperature per convincere il pubblico di un inesistente riscaldamento globale. Questa narrativa è così seducente per la percezione umana che è praticamente impossibile combatterla coi soli dati. Ci sono altri esempi: uno è il caso delle “predizioni sbagliate” che il Club di Roma, come viene spesso detto, avrebbe proposto nello studio del 1972 “I Limiti dello Sviluppo”. E' un'ostinata leggenda che si rivela essere quasi impossibile da demolire semplicemente mostrando che i pretesi"errori" non esistono.

Così, molta gente tende ad essere attratta da piacevoli fiabe piuttosto che da scomode verità. Ciò non significa che la realtà debba necessariamente essere spiacevole, negativa o apocalittica. Tuttavia, se vogliamo far passare il nostro messaggio al pubblico, i soli dati non sono sufficienti; i risultati scientifici devono essere presentati in modi che tengano conto il lato umano dei problemi. Come riuscire in quest'impresa rimane una questione aperta, ma Antonio Turiel, titolare del blog “The Oil Crash", l'ha esaminato in un post recente dal titolo "huyendo de la realidad" dedicato in gran parte alla leggenda delle“scie chimiche”.


Come probabilmente sapete, c'è chi sostiene che le "scie chimiche" sono il risultato di un complotto efferato che implica l'uso di aerei per diffondere veleni che appaiono come strisce bianche nel cielo. Ovviamente, non esistono dati che possano anche solo vagamente far pensare che le ben note “contrails”, generate dagli aerei in volo, non siano fatte di vapore acqueo ma, piuttosto, siano terribili veleni. Tuttavia, la narrativa del concetto di “scie chimiche” è seducente nel suggerire che i nostri problemi sono il risultato dell'azione di un gruppo di malefici nemici dell'umanità che agiscono dietro le quinte. Cercare di contrastare questi racconti fantastici per mezzo di dati risulta inefficace; per questo bisogna cercare di utilizzare altri racconti, proprio come fa Antonio Turiel nel post che segue.



UB






Fuggire dalla realtà

Guest post di Antonio Turiel da "The Oil Crash"

Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti

Revisione di Sara Francesca Lisot














Immagine delle cosiddette “scie chimiche” tratta dal blog di Pakouss, http://infopakous.blogspot.com/



Cari lettori,

ho una grande serie di temi di cui mi vorrei occupare nei prossimi post, serie che si intensificherà con la pubblicazione, la settimana prossima, del nuovo World Energy Outlook della Agenzia Internazionale per l'Energia (di cui proverò a dare una prima valutazione appena possibile, a partire da mercoledì). Tuttavia, ho sentito la necessità di scrivere un post riprendendo l'idea del picco (sempre provvisorio) della stupidità umana, come sottolineava Ugly Youth (nickname di un lettore del blog, ndT) in un commento ad un mio post, e in linea con una discussione su Facebook sulla ben conosciuta questione delle chemtrails (scie chimiche) sulla quale ad un certo punto sono stato interrogato su questo blog. So che con questo post non mi farò degli amici, ma credo che in momenti di confusione come quello attuale, ed altri di maggior confusione che verranno in seguito, sia importante guardare al nostro mondo con buon senso ed umiltà. Buon senso per non cercare spiegazioni complicate a ciò che sembra ben rispondere ad una logica più semplice; umiltà per riconoscere la pochezza e l'irrilevanza dell'essere umano, per quanto lui si creda seduto su un trono da semidio per la sua scienza e le invenzioni tecnologiche.

Per chi non sapesse che cosa sia la storia delle chemtrails, la riassumerò brevemente (oltre al link a wikipedia che ho appena messo): sembra che da qualche tempo alcune persone si siano fissate su alcune strane scie (dette “chemical trails o chemtrails” ndT) lasciate da aerei in volo. Nonostante si insista nello spiegare che tali scie si producono per condensazione di vapore acqueo (il che dipende dall'umidità relativa dell'aria, dalla temperatura delle ali dell'aereo, dalla potenza di spinta dei reattori, ecc), gli "sciachimisti" credono che in realtà si tratti di una sorta di irrorazione della popolazione con sostanze chimiche che garantiscono il controllo mentale della massa da parte dell'oligarchia dominante. Partendo da questo assunto, si sviluppa tutto un discorso di teoria della cospirazione e di malvagi “illuminati” che cospirano in grotte nascoste per farci del male. Il problema di questa storia è che non si regge in piedi in nessun modo.

In primo luogo, se l'obbiettivo fosse di disperdere una sostanza perché sia assorbita dalla popolazione, ci sono metodi più sicuri e comprovati per farlo. Per esempio con la fornitura di acqua potabile. Le grandi città del mondo civilizzato (suppongo che nel terzo mondo manchi il controllo mentale, considerando come si usino le armi per il controllo) hanno i loro impianti di potabilizzazione dell'acqua nei quali sarebbe facile aggiungere l'ingrediente a sorpresa voluto, sia questo pentotal di sodio o haloperidol. Inoltre, sarebbe molto più facile regolare le dosi che arrivano alla popolazione e controllarne la dispersione, e far sparire le prove sospette negli impianti di depurazione dei liquami.

Ma, bene, immaginiamoci che, per un qualche motivo, la dispersione debba avvenire per via aerea. Disperdere sostanze dagli aerei a reazione che volano a migliaia di metri di altitudine non sembra un'idea molto intelligente. Forse avrete notato che quando si irrorano le piantagioni o si cerca di spegnere gli incendi si usano aerei ad elica - aerei o elicotteri – che sono in grado di volare più vicini all'obbiettivo, onde evitare che il carico si disperda troppo – e pensate che nel caso dello spegnimento degli incendi stiamo parlando di una sostanza – l'acqua – molto densa. Perché? Perché se lanciamo una qualsiasi sostanza non solida da un'altezza di migliaia di metri, la sua dispersione sarà più complicata e caotica man mano che si avvicina a terra. Si dice che i primi metri dal suolo verso l'atmosfera (diciamo i primi cento metri) formano il cosiddetto “strato limite atmosferico”, in cui la velocità del vento deve essere adattata ai valori più alti degli strati superiori fino a quando non ha un valore esattamente pari a zero a contatto con la superficie. Dipendendo dalla struttura topografica e dalla rugosità del suolo c'è una zona di dispersione, lo strato limite, in cui la velocità del vento non solo va diminuendo, ma cambia rapidamente direzione, seguendo un disegno a spirale se la topografia è piana; e se la topografia è più complicata seguirà un disegno sufficientemente più complesso che può estendersi fino a pochi metri sopra i tetti degli edifici. Non avete mai notato,nei giorni di forte vento, i mulinelli che si formano nelle grandi strade? O come il vento che soffia da est quando camminiamo lungo una via, soffi da nord appena girato l'angolo? Non avete mai notato l'andamento capriccioso di un foglio di carta o di un sacchetto di plastica? Questo è ciò che accade sui tetti delle case, solo in forma più violenta a causa della maggior forza del vento. E questo senza tenere conto di quanto possano essere cari tutti quei voli per le irrorazioni. Se quello che si desidera è intossicare la popolazione, installate alcuni piccoli dispersori sui tetti di alcuni edifici nelle aree più transitate oppure disseminatele fra i comignoli di alcuni edifici, ed otterrete lo stesso effetto ma in forma più discreta e controllata. D'altra parte, non si capisce perché vogliano controllarci con le esotiche scie chimiche visto che c'è già la più prosaica ma efficacissima televisione.

E' certo che tutti questi metodi non hanno la vistosità delle scie chimiche, che ci fanno immaginare una lotta alle prese con il Dottor No, come se fossimo giustizieri vendicatori alla James Bond (e, già che sogniamo, con una bella Ursula Andress fra le braccia). Alla fine, i propugnatori delle chemtrails scelgono una narrativa eroica, di lotta intrepida contro un potere demoniaco, onnisciente e quasi onnipotente, dopo la cui caduta si stabilirà un nuovo ordine; niente di nuovo, quindi, rispetto alle vecchie storie di un Hermes che, spada in mano, taglia la testa al mostro dai cento occhi. Non ci siamo evoluti molto dal periodo ellenico, a quanto si può vedere.

Questa narrativa è simile in tutto a quelle dei difensori delle free energies (di fatto, sono sempre le stesse persone). Abbiamo già commentato qui l'assurdità e l'infondatezza delle free energies (certo è che in inglese free energy è un termine ambiguo, che significa sia energia libera, sia energia gratis, che alla fine è ciò che si pretende per continuare a vivere a tutta velocità come fino ad ora); ciò che è interessante adesso è vedere come i meccanismi psicologici sono gli stessi che nel caso delle scie chimiche e ciò spiega il perché gli affiliati di queste due teorie coincidano. I due gruppi precedenti coincidono anche frequentemente con i difensori della grande cospirazione mondiale degli illuminati e del Nuovo Ordine Internazionale. Non conosco tutti i dettagli di questa teoria della cospirazione in particolare, ma in sostanza è che c'è una casta segreta di ricchi e potenti che formano un consiglio che prende decisioni che reggono il destino del mondo e che detengono un piano demoniaco per sottometterci tutti ad una schiavitù senza fine. In realtà, questa affermazione è anch'essa abbastanza assurda: è ovvio che i più ricchi e potenti cospirino per preservare la loro situazione di privilegio ed influenzano in modo illegittimo i nostri rappresentanti politici, sovvertendo il significato di democrazia; però lo fanno alla vista di tutti, senza nascondersi e, alla fine, senza vergognarsene, perché in alcuni casi arrivano perfino a credere che sia la cosa migliore da fare, anche se non è la più corretta; e non è che gli serva un tavolo di quercia in una caverna buia con un cranio di caprone appeso alla parete per agire in questo modo.

D'altra parte, anche se alcuni di questi potenti avessero i propri piani per anticipare il caos che sta arrivando, dubito che tutti coincidano nell'analisi dei problemi e nelle soluzioni da applicare. E in ultima analisi, non è scontato che possano farla franca, poiché rimane sempre l'incertezza del fattore umano: i loro miliziani saranno sempre fedeli? I leader politici eseguiranno sempre le direttive imposte? Il popolo rimarrà sempre sottomesso? La Storia dimostra che è impossibile tenere tutto in pugno e totalmente sotto controllo. Però, di nuovo, la narrativa eroica della lotta contro i grandi malvagi che hanno rubato la nostra meritata prosperità che fu e che potremmo recuperare se ci liberassimo di loro, è molto più attraente che la volgare e mediocre realtà.

Gli economisti, insieme ai politici, cadono, curiosamente, nella stessa prassi di autoinganno, cercano un discorso più attraente che realistico. Per esempio si parla di recuperare il sentiero della crescita anche se la realtà è che questa crisi economica non finirà mai; di accettare sacrifici ora a vantaggio della futura prosperità quando, in realtà, ogni aggiustamento ci porta al collasso catabolico; di piani di riscatto necessari per far riprendere l'economia quando in realtà servono per tappare i buchi delle grandi banche; di politiche di promozione dell'impiego che in realtà sono il degrado delle condizioni dei lavoratori; ecc. E ancora, i nostri leader cercano una narrativa eroica, grazie alla cui costanza e senso dello Stato, ottengono che tutto torni alla situazione precedente, vale a dire, alla crescita senza fine.

Al contrario di questo modo di esprimersi, la narrativa dell'Oil Crash è molto più grigia, Non è nera come molte volte si dice. L'Oil Crash non è la fine dell'Umanità; non lo è , ovviamente, se non vogliamo che sia così. L'Oil Crash non è la narrativa dell'apocalisse; è piuttosto la narrativa dell'umiliazione. Perché consiste nell'accettare che l'essere umano ha dei limiti, che per una volta non potrà vincere. E questo all'Homo Invictus sorto dalla Rivoluzione Industriale, che ha prosperato infinitamente negli ultimi due secoli, risulta difficile da mandare giù. Questo è il problema in realtà con l'Oil Crash: la superbia dell'uomo moderno. Per il nostro ego è meglio credere che c'è un uomo malvagio che controlla tutto, piuttosto che accettare che la situazione sfugge al controllo dell'uomo, anche se fosse uno spregevole. Il problema della narrativa eroica è che non solo è errata, ma che ci porta al disastro. E allora se di narrativa si tratta, consideriamo un'alternativa...

La storia dei tre boscaioli
di Antonio Turiel

C'erano una volta tre boscaioli che avevano la loro casa, con i loro orti e le loro galline, nella pianura di un grande fiume. La terra era fertile, l'acqua pura e i boschi davano legna in abbondanza. La vita era semplice ma agiata e piacevole. Un giorno uscirono come sempre di buon mattino a cercare legna nel bosco e al ritorno trovarono le loro proprietà devastate. Le porte delle case divelte e l'interno completamente pieno di fango; gli orti rivoltati e molte verdure erano scomparse; ed alcune galline erano morte, mentre altre vagavano sperdute per il vicino bosco.

I boscaioli erano costernati. Quella era una buona pianura ed una buona terra, poco popolata e generosa coi sui abitanti; non conoscevano né il furto né la violenza. Cosa era mai successo? Notando che i danni si estendevano a tutta la pianura, tutti conclusero che la causa della distruzione fosse stata una improvvisa piena del fiume, che per fortuna li aveva colti fuori dalle proprie case. Tuttavia, in oltre duecento anni di storia non si era mai vista una piena di tale dimensione, per cui i boscaioli non sapevano che atteggiamento tenere, se si sarebbe ripetuta oppure no. Cosicché ognuno di loro si mise a riflettere su quali fossero state le cause e su come prevenirle in futuro.

Il boscaiolo della bassa pianura aveva osservato che il boscaiolo della zona a monte si era a poco a poco impadronito di molti terreni, comprandoli a basso prezzo da altri boscaioli che aveva ingannato con mille trucchi. Inoltre, ragionava, il boscaiolo che stava a monte stava tagliando sempre più legna nel bosco, secondo lui perché aveva buoni clienti in città. Il boscaiolo della bassa pianura concluse che il boscaiolo a monte aveva costruito una diga più a monte, diga che prima faceva riempire d'acqua e che poi apriva di colpo per farli fuori tutti; incluse anche le sue proprietà, per non destare sospetti, ma visto che aveva molte proprietà al di fuori della pianura queste distruzioni lo colpivano meno che alla maggior parte degli altri. Per questo, continuava il suo ragionamento, quando era arrivata la piena non lo aveva colto in casa: perché lui era lassù al fiume che stava aprendo la diga. Il suo spregevole piano era evidente: voleva rovinare lui ed il boscaiolo che viveva a mezza pianura per ottenere le loro terre in cambio di quattro soldi. Così, il boscaiolo della bassa decise di non perdere mai d'occhio il boscaiolo a monte della pianura e che avrebbe dormito nella sua casa solo quando lo avrebbe fatto anche lui. Col passare del tempo, il boscaiolo della bassa trovò sempre più elementi che quadravano oltre ogni dubbio con la sua interpretazione dei fatti ed il suo atteggiamento con chiunque ponesse dei dubbi si fece sempre più aggressivo, specialmente contro il boscaiolo di media pianura, di cui era arrivato a pensare che fosse stupido a non vedere l'evidenza oppure che stava in combutta col boscaiolo dell'alta pianura.

Il boscaiolo dell'alta pianura aveva perso molto denaro con l'inaspettata alluvione. Tutte le sue proprietà confinavano col fiume e tutte erano risultate gravemente danneggiate, ma siccome aveva molte proprietà, gliene restavano ancora a sufficienza per vivere con agio. Gli era costato molto arrivare ad avere la sua attuale posizione e non gli sembrava vero che il duro lavoro di tanti anni si potesse perdere per un capriccio della natura, un evento brutale che si era presentato per la prima volta in duecento anni, per quanto si sapesse, poiché non c'erano registrazioni anteriori e, chi lo sa, forse erano almeno mille anni che non si verificava una cosa del genere. Dopo l'incidente, il letto del fiume era tornato ai livelli abituali e in nulla si distingueva dal suo stato normale. Inoltre, con l'apporto di sedimenti alluvionali le sue terre cominciarono a produrre di più di quello che avevano prodotto prima. Giunse alla conclusione che la piena del fiume fosse stata una cosa fortuita, un evento raro che accade solo una volta ogni tot generazioni e che di fatto aveva portato cose positive, come, ad esempio, che gli altri boscaioli gli avevano venduto le loro terre a un prezzo molto buono. Alla fine, ragionava, la fortuna aiuta gli audaci e l'alluvione era una grande opportunità. Si convinse, alla fine, che le cose andavano a meraviglia e che non avesse nulla da temere in futuro.

Il boscaiolo di media pianura era un uomo paziente ed osservatore, taciturno. Gli piaceva fermarsi per lunghe ore sulla veranda di casa sua guardando il fiume, il bosco, le montagne... oppure perdersi passeggiando nel bosco, fino al punto di conoscere ogni albero, ogni pietra, ogni piccolo ruscello... Era da tempo che vedeva che gli inverni erano sempre più rigidi sulle montagne, dove da un anno all'altro si accumulava più neve, a giudicare da come si vedevano le cime. Inoltre, erano stati tagliati troppi alberi lungo il fiume e questo dava l'impressione che la terra non riuscisse più ad assorbire tanto bene l'acqua del fiume quando questo usciva dal suo letto. Lo aveva riferito al boscaiolo dell'alta pianura, ma questi diceva che stava esagerando e che lui invece stava ottenendo molti benefici vendendo buon legno in città e che in fondo quello che stava succedendo era che provava invidia. Lo disse al boscaiolo della bassa pianura, ma questi era troppo intento a seguire il boscaiolo dell'alta pianura ed andava sempre a tagliare dove andava quello e non ascoltava altre ragioni. Il boscaiolo di media pianura concluse che negli anni a venire, quando sarebbe arrivato il disgelo, sarebbero potute avvenire nuove alluvioni anche più grandi di quella che aveva distrutto le loro case ed aziende e decise che la cosa più ragionevole era spostarsi in terreni un po' più alti. Gli costò molto sforzo e molto tempo spostarsi verso l'interno. Per primo si portò l'orto e bivaccava di fianco ad esso. Gli altri boscaioli ridevano di lui, pensando che fosse un eccentrico che dormiva per terra mentre aveva una bella casa di fianco al fiume. Poi fece un recinto per le galline ma in un primo momento stavano insieme a lui nel suo bivacco ed era sempre pieno di piume, e lo chiamavano “faccia di pollo”. Col tempo si costruì una casa nuova, vivendo con grande austerità per potersi comprare l'attrezzatura e la ferramenta di cui aveva bisogno; gli altri lo additavano chiamandolo mendicante.

Finì di costruire la sua casa in tempo per vedere, da distanza di sicurezza, come sul fiume ingrossato passavano galleggiando i cadaveri dei boscaioli della bassa e dell'alta pianura.

Saluti,
Antonio Turiel

venerdì 2 dicembre 2011

Tecnocrati

A sinistra, Marion King Hubbert (1903-1989), ideatore del "modello di Hubbert" della produzione petrolifera. Sulla destra, Mario Monti (1943 -), primo ministro del governo italiano. Sembrano condividere un certo stile ed entrambi sono stati definiti "tecnocrati". Traduzione da "Cassandra's Legacy" di Andrea Schenone

Marion King Hubbert previde correttamente molte cose nella sua carriera, soprattutto sulla produzione di petrolio. Ma aderì anche ad un gruppo chiamato i "tecnocrati" che proponeva che i tecnici esperti dovrebbero dirigere i governi. Forse aveva ragione anche per questa previsione, come i recenti avvenimenti in Italia possono suggerire.

Il Professor Mario Monti, è stato nominato dal Presidente della Repubblica quale nuovo capo del governo italiano, in sostituzione del democraticamente eletto, ma disastroso, Silvio Berlusconi. Non sono sicuro se il signor Monti ami essere definito un "tecnocrate", ma il termine si adatta molto bene al suo attuale lavoro. È questo l'inizio di una nuova tendenza? E' troppo presto per dirlo ma, chi lo sa?

Big Gav ha scritto un post interessante su "peak Energy" riguardo l’ascesa di Mario Monti in Italia.

mercoledì 30 novembre 2011

Perché la crescita economica è così popolare?

Post originariamente pubblicato su Cassandra's Legacy.
Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti.



Quando il nuovo primo ministro del governoitaliano, Mario Monti, ha tenuto il suo discorso di insediamento al Senato, pochi giorni fa, ha usato per ben 28 volte il termine “crescita” e nemmeno una volta termini come “risorse naturali” o “energia”. Non è certo il solo a trascurare le basi fisiche dell’economia mondiale: il coro degli esperti di economia ovunque nel mondo gira tutto intorno a questa parola magica: “crescita”. Ma perché? Cos’è che rende questo singolo parametro così speciale e tanto amato?



Durante gli ultimi anni il sistema finanziario ha dato al mondo un segnale molto chiaro quando i prezzi delle materie prime naturali sono schizzate a livelli mai raggiunti prima. Se i prezzi sono alti, c’è un problema di offerta. Siccome molte materie prime che usiamo non sono rinnovabili – petrolio greggio, per esempio – è perlomeno ragionevole supporre che abbiamo un problema di esaurimento. Tuttavia, le reazioni dei leader, dei decisori e degli esperti economici di ogni tipo erano – e sono ancora – quelle di ignorare le basi fisiche della crescita economica e di promuovere la crescita economica come soluzione a tutti i nostri problemi; di più è meglio. Ma, se l’esaurimento è un problema reale, dovrebbe essere ovvio che la crescita può solo peggiorarlo. Dopo tutto, se cresciamo consumiamo più risorse e questo accelererà il loro esaurimento. Quindi, perché i nostri leader sono così fissati con la crescita? Non riescono a capire che questo è un errore madornale? Sono stupidi o cosa?
Le cose non sono così semplici, come sempre. Uno degli errori più comuni che possiamo fare nella vita è quello di presumere che chi non è d’accordo con le nostre idee è stupido. No, sussiste la regola che, per qualsiasi cosa esista, c’è una ragione. Quindi, ci dev’essere una ragione per cui la crescita è propagandata come la cura universale per tutti i problemi. E, se andiamo a fondo nella questione, potremmo trovare la ragione nel fatto che la gente (i leaders alla stregua di chiunque altro) tende a privilegiare i guadagni a breve termine piuttosto che quelli a lungo termine. Lasciate che provi a spiegarvi.

Cominciamo osservando che l’economia mondiale è una reazione immensa e diversificata guidata dai potenziali termodinamici delle risorse naturali che usa. Le risorse sono principalmente non rinnovabili come i combustibili fossili che bruciamo per alimentare l’intero sistema. Abbiamo dei buoni modelli per descrivere il processo; i primi risalgono agli anni 70, con la prima versione dello studio "I limiti dello sviluppo". Questi modelli sono basati sul metodo conosciuto come "system dynamics" e considerano stock di grandi aggregati di risorse (cioè, mediati su molti tipi diversi). Già nel 1972 i modelli mostravano che il graduale esaurimento dei depositi minerali ad alta concentrazione e l’aumento dell’inquinamento persistente avrebbero causato l’arresto della crescita economica ed il suo conseguente declino; più probabilmente durante i primi decenni del 21° secolo. Studi successivi dello stesso tipo hanno generato risultati simili. La crisi attuale sembra confermare quelle predizioni.
Così, questi modelli ci dicono che l’esaurimento e l’inquinamento sono la radice dei problemi che abbiamo, ma ci dicono poco sulla crisi finanziaria che stiamo vivendo. Non contengono uno stock chiamato “denaro,” o "sistema finanziario" e non fanno alcun tentativo di descrivere come la crisi influenzerà differenti aree del mondo e differenti categorie sociali. Data la natura del problema, questa è l’unica possibilità di rendere i modelli gestibili, ma è anche una limitazione. I modelli non possono dirci, per esempio, come i decisori politici dovrebbero agire per fare in modo di evitare la bancarotta di interi stati. Tuttavia, i modelli possono essere compresi nel contesto delle forze che muovono il sistema. Il fatto che il sistema economico mondiale sia complesso non significa che non segua le leggi della fisica. Al contrario, è proprio osservando queste leggi che possiamo trarre ispirazione riguardo a ciò che sta accadendo e a come potremmo agire nel sistema.

Ci sono buone ragioni basate sulla termodinamica che fanno sì che le economie consumino risorse al ritmo più rapido possibile ed con la più alta efficienza (guardate questo saggio di Arto Annila e Stanley Salthe). Quindi, il sistema industriale cercherà di sfruttare prima le risorse che forniscono un più grande ritorno economico. Per le risorse che producono energia (come il petrolio greggio) il ritorno può essere misurato in termini di energia di ritorno sull’energia investita (EROEI). Per la verità, le decisioni all’interno del sistema non vengono prese in termini di energia, ma in termini di profitto economico, ma i due concetti possono essere considerati coincidenti come prima approssimazione. Ora, ciò che accade quando le risorse non rinnovabili vengono consumate è che l’EROEI di quello che rimane diminuisce ed il sistema diventa meno efficiente, ovvero, i profitti crollano. L’economia tende a contrarsi mentre il sistema cerca di concentrare il flusso di risorse dove possano essere processate al più alto tasso di efficienza e fornire i più alti profitti; qualcosa che di solito è in relazione alle economie di scala. In pratica, la contrazione dell’economia non è la stessa ovunque: le parti periferiche del sistema, sia in termini geografici sia in termini sociali, non possono trattare le risorse con sufficiente efficienza; tendono quindi ad essere estromesse dal flusso di risorse, contrarsi ed infine scomparire. Un sistema economico che affronti una riduzione dell’afflusso di risorse naturali è come un uomo che muore di freddo: le estremità sono le prime a congelare e morire.
Ora, qual è il ruolo del sistema finanziario – alias, “denaro”? Il denaro non è un’entità fisica, non è una risorsa naturale. Ha tuttavia, un ruolo fondamentale nel sistema come catalizzatore. In una reazione chimica, un catalizzatore non cambia i potenziali chimici che guidano la reazione, ma può accelerare e cambiare i percorsi abituali dei reagenti. In un sistema economico, il denaro non cambia la disponibilità di risorse o la loro resa energetica, ma può dirigere il flusso di risorse naturali verso le aree nelle quali esse siano sfruttate più velocemente e con più efficienza. Questa assegnazione del flusso genera normalmente più denaro e, di conseguenza, abbiamo un tipico feedback positivo. Come risultato, tutti gli effetti descritti prima accelerano. In questo modo, l’esaurimento può essere temporaneamente mascherato, anche se, di solito, a costo di un maggior inquinamento. Poi, potremmo assistere al collasso brutale di interi territori, come potrebbe essere nei casi di Spagna, Italia, Grecia ed altri. Questo effetto può diffondersi ad altri territori, dal momento che l’esaurimento delle risorse non rinnovabili continua ed il costo dell’inquinamento aumenta.
Non possiamo andare contro la termodinamica, ma potremmo almeno evitare alcuni degli effetti più spiacevoli che ci vengono dal tentativo di superare i limiti delle risorse naturali. Questo punto è stato già esaminato nel 1972 dagli autori dello primo studio dei “Limiti dello Sviluppo” sulla base dei loro modelli, ma, alla fine, è solo questione di buon senso. Per evitare, o almeno mitigare il collasso, dovremmo fermare la crescita; in questo modo le risorse non rinnovabili durerebbero più a lungo e noi potremmo usarle per sviluppare quelle rinnovabili. Il problema è che frenare la crescita non dà profitti e che, al momento, le rinnovabili non forniscono ancora gli stessi profitti dei combustibili fossili rimanenti. Quindi, al sistema non piace andare in quella direzione, ovvero versoinvestimenti a lungo termine. Tende, piuttosto, ad andare verso i più alti profitti a breve termine, aiutato in questo dal sistema finanziario. Ovvero, il sistema tende a continuare a far uso di risorse non rinnovabili, anche a costo di distruggere se stesso. Forzare il sistema a cambiare direzione potrebbe essere ottenuto grazie ad un qualche tipo di controllo centralizzato ma questa sarebbe una cosa, ovviamente, complessa, costosa ed impopolare. Non c’è da stupirsi se i nostri leader non sembrino essere entusiasti di questa strategia.

Vediamo, piuttosto, un’altra opzione possibile per i leaders: quella di “stimolare la crescita”. Cosa significa esattamente? In generale, sembra che significhi usare il sistema fiscale per trasferire risorse finanziarie al sistema industriale. Con più disponibilità di denaro, le industrie possono permettersi prezzi più alti per le risorse naturali. Di conseguenza, l’industria estrattiva può mantenere i suoi profitti, in effetti aumentarli, e continuare ad attingere anche a risorse progressivamente più costose. Ma il denaro, come abbiamo detto, non è un’entità fisica; in questo caso catalizza soltanto il trasferimento di risorse umane e materiali verso il sistema estrattivo, a danno dei sottosistemi come la sicurezza sociale, la sanità pubblica, la pubblica istruzione, ecc. Questo non è indolore, naturalmente, ma potrebbe dare l’impressione che si stia lavorando a risolvere i problemi. E' una strategia che potrebbe anche migliorare temporaneamente gli indicatori economici e mantenere il flusso di risorse grande abbastanza da prevenire il collasso completo dei territori periferici, almeno per un po’. Ma la vera attrazione nello stimolare la crescita è che è la via più facile: spinge il sistema nella direzione in cui vuole andare. Il sistema è orientato allo sfruttamento delle risorse naturali al più alto ritmo possibile, questa strategia gli dà risorse fresche per fare esattamente questo. I nostri leader potrebbero non comprendere esattamente quello che stanno facendo, ma di sicuro non sono stupidi – non vanno contro i propri interessi.

Il problema è che la strategia di stimolare la crescita serve solo ad acqiustare tempo (e ad un prezzo molto alto). Nulla che i governi o gli operatori finanziari possono fare può cambiare la termodinamica del sistema-mondo – tutto ciò che possono fare è rimescolare le risorse da qua a là e questo non cambia la dura realtà dell’esaurimento e dell’inquinamento. Così, spingere la crescita economica è solo una soluzione a breve termine che peggiora la situazione a lungo termine. Può posticipare il collasso, ma al prezzo di renderlo più brusco nella modalità, modalità conosciuta anche come il dirupo di Seneca . Sfortunatamente, sembra che siamo diretti esattamente in quella direzione.



Questo post è stato ispirato da un eccellente post sulla situazione finanziaria scritto da Antonio Turiel dal titolo "Prima dell'onda" .